Galeazzo Ciano con Mussolini e Hitler |
Un articolo del 1934, sui
Quaderni di Giustizia e Libertà, che uscivano a Parigi, Leone
Ginzburg, dietro la sigla M. S., si dedicava ad un’analisi della
situazione politica italiana, in relazione all’azione da svolgere
per il gruppo di GL, di cui era il principale referente in patria,
come Carlo Rosselli lo era in Francia. Prendeva lo spunto dal
siluramento di Italo Balbo da parte del Duce, in quanto “unico
antagonista rimastogli nel governo”, dunque da mettere da parte
(prima di eliminarlo fisicamente addirittura, nel famoso “incidente”
nel cielo della Libia nel luglio 1940), e dedicava una parentesi al
genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, liquidandolo come un’alternativa
mancata, in quanto era ormai indirizzato verso altri interessi:
“Ciano, inamovibile, preferisce arricchire sé e i suoi”.
Il delfino, il marito di
Edda, burbanzoso ministro degli Esteri, era naturalmente o appariva
l’uomo più potente del regime, con quel cerchio di protezione
familiare in cui si era imbozzolato comodamente, e dal quale gestiva
traffici poco commendevoli, con un progressivo arricchimento di cui
gli italiani si resero ben presto conto. Negli ultimi tempi, la
storiografia sta provvedendo, documenti alla mano, a sfatare una
leggenda rosa del fascismo come regime di “pulizia”, mentre oltre
ad essere un regime di polizia, fu un regime di vasta, diffusa
corruzione, che vide come protagonista l’intera sua gerarchia, dal
Duce fino all’ultimo ras di periferia.
Il libro dedicato a
Ciano, il “genero del regime”, o anche il “generissimo”, da
Eugenio Di Rienzo, pubblicato dalla benemerita Salerno Editrice, si
inserisce nella rivisitazione critica della storia del Ventennio,
sempre opportuna, come ogni azione volta ad aggiungere, correggere,
“revisionare”, il grande edificio della conoscenza del passato,
alla luce di nuovi documenti, nuove metodologie, nuove sensibilità
culturali prima che storiografiche. Purché non si cada nel
revisionismo, pratica ideologica e non storiografica, volta a
smantellare le acquisizioni della ricerca storica ove giudicate non
compatibili con certi assetti del potere, non solo culturale,
naturalmente.
L’autore, direttore
della Nuova Rivista Storica, allievo e amico del compianto Giuseppe
Galasso (ricordato affettuosamente nella dedica), ed esponente di una
corrente storiografica “moderata”, in realtà di moderato ha
poco: è un uomo che come suol dirsi non ha peli sulla lingua, e pur
nel dissenso con lui è sempre piacevole oltre che proficuo
confrontarsi. E il libro, come è stato osservato da più di un
recensore, non fa sconti a nessuno, meno che meno al biografato, che
nel mainstream continua ad essere presentato come un fascista
critico, colui che avrebbe voluto salvare l’Italia dall’abbraccio
mortale con la Germania hitleriana, il dissenziente frenato dalla
situazione familiare, il leader in pectore di un fascismo morbido che
solo la ferocia mussoliniana strappandolo alla vita, nella vendetta
pseudo-giuridica del Processo di Verona del ’44, impedì di
realizzarsi.
Con grande efficacia e
sulla base di una documentazione esaustiva (ma, sia consentito dirlo,
con un'esorbitante mole di dettagli, che appesantiscono inutilmente
la narrazione), Di Rienzo sfata la leggenda, e ci avvicina alla
verità della storia, a cominciare dalla contestazione della
veridicità del Diario del suo biografato: autentico, sì, ma
anche i documenti autentici, come insegnano i maestri del metodo
storico, da Bloch a Chabod, possono raccontare il falso. Col suo
usuale vigore (che nel caso è anche rigore metodologico), Di Rienzo
afferma, convincentemente, che si tratta di un documento “che si è
rivelato, in tutte le fasi cruciali della biografia politica del
‘generissimo’, testimonianza adulterata sapientemente dal suo
autore”. Un documento generalmente usato per ridurre le
responsabilità e accrescere i meriti del “povero” Ciano, anche
da studiosi o commentatori, di quelli – non sono pochi – sempre
in caccia di un fascismo dal volto umano, di un’alternativa interna
al movimento-partito-regime, che avrebbe potuto salvare capre e
cavoli.
Anche Di Rienzo,
peraltro, ha partecipato, in passato sia pure nobilmente, ossia coi
quarti di nobiltà dello storico di vaglia, a questo gioco, con il
suo prediletto Gioacchino Volpe di cui ha accreditato, con scarso
fondamento a mio avviso, ma con vigorosa passione, una innocente
immagine liberale. Naturalmente Volpe rimane un grande storico,
mentre Ciano viene confermato nella sua mediocrità politica, e nei
suoi confronti Di Rienzo (e non gli si può dar torto), non arretra
di un millimetro davanti alla condanna, fornendoci innumerevoli
elementi che ci presentano un personaggio certo non banale,
antropologicamente e “letterariamente” interessante, ma di
modesto valore, un uomo corrotto, che ha scambiato la furbizia (di
cui non difettava) per intelligenza (tutto sommato modesta, la sua),
e in luogo della lucidità dello statista, rivela il piccolo
cabotaggio dell’affarista di provincia. Fu però soprattutto la sua
ambizione smodata, la venalità, e le sue stesse incertezze di
strategia e di tattica politica che finirono per metterlo in rotta di
collisione col suocero, che si sentiva pressato dall’impaziente
aspirante “successore”.
Di Rienzo ci fa anche
capire che d’altro canto quel padre era assai geloso della figlia,
a maggior ragione andando in sposa a un dongiovanni, che giocava la
carta dell’anticonformista, libero e spregiudicato. Un giovane uomo
tuttavia che sembrava avesse le carte in regola per domare la
ventenne Edda, altrettanto spregiudicata e anticonformista, al punto
che il babbo si ridusse a sottoporla a controllo di polizia, compresa
la corrispondenza. Per una donna (la figlia del duce, oltretutto)
l’anticonformismo, e la libertà di comportamento specie sessuale,
erano assai più difficili da accettare nell’opinione corrente del
tempo.
Le nozze fra i due furono
spettacolari, nell’aprile del 1930, nel pieno del “consenso” al
regime; e la vita di “Gallo” e “Deda” fu a lungo sulla cresta
dell’onda, mentre cupe ombre si addensavano sull’Italia,
sull’Europa, sul mondo: la gioventù dorata di questa coppia
invidiata quanto temuta da tutti pareva impermeabile alle tempeste
che si preparavano, e che avrebbero travolto entrambi. Fra i due,
pare di capire dal ritratto parallelo che ne fa l’autore, tutto
sommato Edda aveva qualità maggiori di Galeazzo, il quale tre anni
dopo avviò la sua brillante carriera per meriti parentali,
diventando capo dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio:
un ruolo chiave nella strategia di un regime di propaganda come
quello fascista, un ruolo che oltre tutto metteva a contatto diretto
genero e suocero, quotidianamente, considerando anche la maniacale
ossessione del Duce per i giornali, dove andava in caccia di articoli
e foto che lo riguardassero personalmente. Discutibilmente, in questo
come in altri casi, però, l’autore cerca di vedere giustificazioni
razionali nelle scelte di Mussolini che, sia detto una volta per
tutte, alla fine, nel confronto col genero che farà ammazzare, ne
esce rivalutato, non so quanto consapevolmente da parte di Di Rienzo.
Come capo della
diplomazia, nei panni di ministro degli Affari Esteri (dal giugno
’36, facendo così ricadere sulle proprie spalle l’aggressione
italiana alla Repubblica Spagnola), e contestualmente vicesegretario
del PNF, Ciano fu esponente di un “doppiogiochismo diplomatico”,
in parte concordato col suocero, in parte autonomo, in improbabili
partite di grande politica internazionale, che videro l’Italia, a
dispetto della scarsa simpatia di Ciano per i tedeschi, finire
nell’abbraccio mortale col Terzo Reich, fra incertezze ed errori
clamorosi, come la rottura con l’URSS che fino al ’39 aveva
manifestato atteggiamenti amichevoli e collaborativi con l’Italia
fascista, in nome della Realpolitik e della bilancia commerciale. Un
altro errore catastrofico fu la decisione di attaccare la Grecia,
dove pure era al potere un governo di destra certo non ostile
all’Italia: decisione che si risolse in una drammatica disfatta per
l’esercito italiano respinto verso l’Albania.
Ciano resistette al
vertice della politica estera fino a quando, piuttosto
repentinamente, fu passato a tutt’altro incarico, come ambasciatore
in Vaticano. Era il febbraio del ’43. Il precipitar degli eventi lo
condusse alla fatal notte del 25 luglio, quando, probabilmente, come
sostennero i suoi difensori al processo di Verona del gennaio ’44,
votò l’odg di Grandi che di fatto sfiduciava il Duce, senza
rendersi conto della portata di quel voto; ma Di Rienzo evidenzia la
centralità di Ciano nelle trame antimussoliniane che da anni si
tessevano nell’ombra. La condanna a morte e la mancata grazia
giunsero in un turbinio di incerte valutazioni, e di debolezza
oggettiva di Mussolini, di pressioni subìte ed esercitate da parte
sua: tra la moglie Rachele, innocentista, e l’amante Claretta,
colpevolista, “Ben” (come lo chiamava la sua Claretta) in quella
vicenda mostrò definitivamente di essere un duce finito e forse
finto, da sempre.
Di Rienzo, che non
sarebbe d’accordo su questa mia valutazione, ricostruisce con
dovizia di particolari gli ultimi giorni concitati di Ciano, e
accredita la tesi di un disegno politico di Mussolini che usa il
genero come pedina, e alla fine se ne serve come agnello sacrificale
al fine di un rilancio del fascismo repubblicano (che reclama la
testa del “generissimo”) da un lato, e di un cedimento al sempre
più ingombrante alleato-padrone tedesco, che nella condanna
esemplare del “traditore” vedeva un esempio che valesse non solo
per l’Italia, ma anche per la Germania. Il Processo di Verona,
invece di segnare il rilancio del fascismo di Salò, ne accelerò la
fine, anche perché provò che il Duce era una marionetta nelle mani
dei nazisti. Una tesi che in fondo, venne confermata giuridicamente a
guerra finita: Ciano fu riabilitato, e l’enorme patrimonio da lui e
familiari accumulato grazie alla complicità del regime restituito
alla famiglia per una sentenza della Cassazione, e addirittura a
Galeazzo venne riconosciuto il titolo di “martire della guerra di
liberazione”.
Beffardo, facendo
riemergere il proprio fondo sostanzialmente reazionario (ma a lui
sono sicuro che l’epiteto non dispiacerà più di tanto), l’autore
conclude: “Nel segno di una deliberata mistificazione del passato,
iniziava, così, il lungo dopoguerra italiano”. Ma conclusioni a
parte, se un appunto va fatto all’autore è la mole del libro: 700
pagine dedicate a un personaggio così mediocre, peraltro vissuto
solo 41 anni, sono spropositate. E giungendo faticosamente alla fine
ho apprezzato una volta di più il detto di un vecchio professore:
“Pensa il doppio, scrivi la metà!”.
Dal sito di
“Micromega”,10 aprile 2019
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