Gramozna Jama (Lubjana) - Studenti di Cremona osservano la stele delle vittime dell'occupazione italiana nel 1943 |
Per mestiere (da medico, studioso e docente si occupava di strutture sanitarie d'emergenza) e per impegno internazionalista
conosceva da vicino l'orrore della guerra, gli esiti dell'odio
razziale ed etnico; ma, se ne parlava, nel suo volto si rinnovavano a distanza di molti
decenni (cinque, sei, sette) lo sgomento e lo schifo provati quando nel 1943
a lui diciottenne un vicino di casa di qualche anno più anziano, reduce dalla Slovenia e neppure fascistissimo, aveva mostrato
con orgoglio una foto che lo ritraeva mentre teneva per i capelli,
una per mano, due teste di ribelli slavi tagliate.
Voglio dedicare a lui, un maestro che considero – capitinianamente – compresente, questo scritto di Giovanni Giovannetti recuperato dal sito “direfarebaciare”, che delle vicende slovene di quegli anni di guerra rievoca i momenti più significativi, non tacendo i nomi dei criminali di guerra italiani e le più ampie responsabilità collettive. (S.L.L.)
Voglio dedicare a lui, un maestro che considero – capitinianamente – compresente, questo scritto di Giovanni Giovannetti recuperato dal sito “direfarebaciare”, che delle vicende slovene di quegli anni di guerra rievoca i momenti più significativi, non tacendo i nomi dei criminali di guerra italiani e le più ampie responsabilità collettive. (S.L.L.)
Gramozna Jama (Lubjana) - La stele commemorativa degli uccisi per rappresaglia dagli occupanti italiani nel periodo febbraio-maggio 1942 |
C’è una pagina della
nostra storia nazionale che da quasi ottant’anni si fatica a
leggere. Quella dei crimini, anche a sfondo razziale, compiuti
dall’Esercito italiano in Africa e nei Balcani.
Maggio 1941. Germania,
Italia e Ungheria occupano la Slovenia, e la provincia di Lubiana
viene annessa al Regno d’Italia. Ma temendo la resistenza sociale
ben più di quella armata, il comandante supremo della Seconda armata
d’occupazione generale Mario Roatta il 1° marzo 1942 emana la
famigerata “circolare 3c” contro la popolazione civile slovena.
Roatta dispone
rappresaglie, incendi di case e villaggi, razzie, torture, esecuzioni
sommarie, la cattura e l’uccisione di ostaggi, internamenti di
civili e militari nel campo di concentramento nell’isola di Arbe
(Rab) in Croazia e in quelli di Gonars in Friuli, Monigo presso
Treviso, Chiesanuova di Padova o Renicci d’Anghiari in Toscana. Se
possibile, queste misure saranno rese ancora più draconiane dalle
circolari integrative del comandante dell’undicesimo Corpo d’Armata
generale Mario Robotti, altro delinquente («si ammazza troppo poco»,
dirà), e dell’alto commissario per la provincia di Lubiana Emilio
Grazioli (come Roatta è nell’elenco dei criminali di guerra
italiani).
I non umani
E si badi, a usare la
mano pesante con i civili non sono le Camicie nere di Mussolini ma
uomini dell’Esercito fedele al re e alla corona, che vedono gli
sloveni come dei selvaggi piantagrane, alieni e inanimati: uno
sguardo deumanizzante, l’alibi per ogni sorta di arbitrio, come
quello che oggi provoca una tutto sommato modesta indignazione per la
morte di 200 esseri umani che annegano nel Mediterraneo.
Stando all’ex
partigiano e studioso del movimento di liberazione sloveno Tone
Ferenc, nella sola provincia di Lubiana verranno «fucilati o come
ostaggi o durante operazioni di rastrellamento circa 5.000 civili, ai
quali vanno aggiunti i circa 200 bruciati e massacrati in modi
diversi. 900 invece i partigiani catturati e fucilati. A loro si
devono aggiungere oltre 7.000 persone in gran parte anziani, donne e
bambini morti nei campi di concentramento in Italia. Complessivamente
moriranno più di 13.000 persone su 340.000 abitanti, il 2,6 per
cento della popolazione». A questo triste bilancio aggiungeremo
l’incendio di 3.000 case, l’internamento di 33.000 persone, la
distruzione di 800 villaggi. La Commissione di Stato jugoslava per
l’accertamento dei crimini di guerra ha inoltre accusato Roatta e
sodali di aver ampiamente disatteso la seconda Convenzione
internazionale dell’Aja relativa ai prigionieri, ai feriti e agli
ospedali; di aver disposto la fucilazione di partigiani fatti
prigionieri e di ostaggi; di aver ordinato l’internamento dei
componenti di intere famiglie e villaggi e di aver consegnato i
civili incolpevoli ai tribunali militari; di aver ordinato che i
civili fossero ritenuti responsabili di tutti gli atti di sabotaggio
commessi nelle vicinanze della loro abitazione e che, per
rappresaglia, si potesse sequestrare il loro patrimonio, distruggere
le loro case e procedere al loro internamento.
Sul fronte economico si
registra la depredazione delle risorse slovene pianificato dall’Iri,
l’Istituto italiano per la ricostruzione industriale sorto nel
1933.
Criminali in divisa
Che dire di più? In
applicazione delle severe disposizioni di Roatta, la notte tra il 22
e il 23 febbraio 1942 Lubiana è posta in stato d’assedio e i
Granatieri di Sardegna capitanati da Taddeo Orlando, affiancati da
collaborazionisti slavi, rastrellano per settimane con «metodo
deciso» migliaia di civili (un quarto degli uomini validi
«prescindendo dalla loro colpevolezza» dirà Orlando) e 878 di loro
vengono internati nei campi di concentramento. Altri rastrellamenti
avverranno tra il 27 giugno e il 1° luglio – con il fermo di
17mila civili – e dal 21 al 28 dicembre, con l’arresto di oltre
500 persone; tra loro donne, vecchi e bambini. Pochi, i più
fortunati, li deporteranno in alcune città del nord Italia. Ma in
questa “strategia della snazionalizzazione” – come l’ha
chiamata Davide Conti – sono 33mila gli sloveni internati in
duecento lager in Italia e sul posto, a morire di freddo, stenti,
tifo e dissenteria (per Robotti erano «inconvenienti igienici»).
Come si legge in una
relazione del 9 settembre 1942 di Roatta a Robotti, «si tratterebbe
di trasferire, al completo, masse ragguardevoli di popolazione e di
sostituirle in posto con popolazioni italiane». Altri rastrellamenti
seguiranno nei centri più importanti del Paese.
«Dicono che donne e
bambini e vecchi, a frotte, o rinvenuti nei boschi o presentatisi
spontaneamente alle nostre linee costretti dalla fame e dal maltempo,
sono stati intruppati, e avviati (tra pianti e pianti e pianti) ai
campi di concentramento». Lo si legge al giorno 25 settembre 1942
del Diario di don Pietro Brignoli, cappellano militare del secondo
Reggimento Granatieri di Sardegna.
Tutti i fermati –
scrive il tenente dei Carabinieri Giovanni De Filippis in una delle
sue periodiche relazioni – «sfilano davanti a una commissione di
ufficiali della divisione Granatieri e di confidenti: secondo le
indicazioni fornite da questi ultimi, si procede senza altri
accertamenti: la parola dei confidenti diventa Vangelo. E così
trecentomila abitanti della Slovenia restano in balìa dei
confidenti…» (26 giugno 1942). Di questa commissione sono
autorevoli componenti il questore di Lubiana Ettore Messana e
l’ispettore capo di pubblica sicurezza Giuseppe Gueli (altri
criminali di guerra): coadiuvati dal coordinatore del locale ufficio
Ovra Ciro Verdiani il questore, l’ispettore e i loro tirapiedi
interrogano i prigionieri e li torturano flagellandoli, bastonandoli,
colpendoli al basso ventre, infliggendo bruciature o esponendo i
testicoli alla corrente elettrica (non mancano i casi di stupro su
alcune detenute).
Quando i detenuti vengono
consegnati al Tribunale speciale di guerra, a reggere la pubblica
accusa trovano il tenente colonnello Enrico Macis, altro “criminale
di guerra”, altro vessatore impunito (dal novembre 1941 al
settembre 1943 questo Tribunale sentenzierà la morte di 83 civili e
partigiani). Macis non manca poi di manifestare il suo compiacimento
per le deportazioni: come scrive il 26 aprile 1943, «nello scorso
anno le autorità militari con apprezzato senso di opportunità
avevano rastrellato la città ordinando l’internamento di tutti gli
uomini dai 18 ai 35 anni». A Macis e Messana la Commissione delle
Nazioni unite per i crimini di guerra addebiterà la fabbricazione di
false prove a carico di parecchi imputati.
L’inquisitore
diventa partigiano
Passata la guerra, a
Macis verrà conferita la qualifica di “Partigiano combattente”.
Non bastasse, nel 1946 l’ufficio informazioni dello Stato maggiore
dell’Esercito gli commissionerà uno studio sui problemi di
carattere giuridico in ordine ai crimini di guerra. Come affidare ad
Al Capone uno studio sul consumo illegale di alcolici…
Sempre a Lubiana, negli
anni di Ettore Messana e di Emilio Grazioli, la città è
attraversata da veri e propri squadroni della morte con licenza di
uccidere a vista i “ribelli”. Sono sorprendenti le analogie con
gli assalti paramilitari in Sicilia nel 1946-1947 contro cooperative,
Camere del lavoro, sindacalisti ed esponenti della sinistra (verranno
uccisi 27 militanti del Pci), anni in cui, nell’isola, Messana
ricopre la carica di ispettore capo.
Sì, perché dopo la
liberazione, ritroveremo i torturatori Messana e Verdiani non in
galera, non silenziosamente pensionati, ma l’uno dopo l’altro a
occuparsi di antimafia alla guida dell’ispettorato di pubblica
sicurezza per la Sicilia, ovvero a depistare indagini e a coltivare
relazioni con latifondisti, mafiosi, monarchici e banditi come
Salvatore Giuliano.
La pulizia etnica
Dalle parole di Giovanni
De Filippis e dai metodi criminali dei funzionari di polizia e del
magistrato competente traspare l’incapacità degli alti comandi di
esercitare il controllo del territorio tramite il consenso. E quale
sarebbe allora il “piano b”, a fronte del fallimento di una tale
assimilazione affrettata e forzata? Ai suoi uomini il generale Mario
Robotti parla chiaro: bisogna «far coincidere i confini razziali con
quelli politici», ovvero fare pulizia etnica. Ne conviene l’alto
commissario Grazioli che, in una lettera del 24 agosto 1942,
sottopone al ministro degli Interni il suo piano di soluzione del
«problema» della popolazione slovena: «distruggendola,
trasferendola, eliminando gli elementi contrari», ovvero la
“soluzione finale”.
In totale, 109.437
jugoslavi verranno deportati nei campi di concentramento fascisti in
Italia. Ad Arbe, Carlo Alberto Lang, capitano medico incaricato di un
sopralluogo, segnala che tra il settembre e l’ottobre 1942 in
trenta giorni muoiono 209 persone, di cui 62 bambini sotto gli 11
anni. E al medico provinciale che segnala i numerosissimi casi di
«dimagrimento patologico con l’assoluta scomparsa dell’adipe
anche orbitario, ipotonia e ipotrofia grave dei muscoli, edemi da
fame negli arti inferiori, vomito» e insistenti epidemie tra gli
attendati nel campo di Arbe, il generale Gastone Gambara (altro
“criminale di guerra”) il 17 dicembre 1942 cinicamente replica
quanto fosse «logico e opportuno che campo di concentramento non
significhi campo di ingrassamento, in quanto “individuo malato =
individuo tranquillo”».
Numerosi internati ad
Arbe verranno poi trasferiti in Italia. Dal diario del maresciallo
della marina jugoslava Franc Ljubič, internato a Gonars e addetto
dell’infermeria, 25 novembre 1942: «Questa gente di Arbe… Solo
pelle e ossa, madri con i neonati, bambini di 4/5 anni, ragazze di
15/16. All’infermeria è giunta una donna che non ha potuto lavare
per quattro settimane il figlioletto di un mese e mezzo. Quando fu
lavato era come se rinascesse, però del freddo si vedevano già i
segni. Nell’altro settore dell’infermeria, oggi tre morti ed un
nato».
Ad Arbe moriranno circa
4.500 internati. E non tragga in inganno la clemenza accordata a
1.500 ebrei riparati in Dalmazia dalla vicina Croazia, sottraendoli
momentaneamente ai tedeschi e ai violentissimi ustascia croati di
Ante Pavelic, poiché «l’incertezza dei vertici militari circa la
consegna degli ebrei», scrive Davide Conti, è da ascrivere «alle
conseguenti reazioni che si potrebbero scatenare nelle milizie
cetniche e anticomuniste» di estrazione ultracattolica che sono al
fianco dell’esercito italiano nella guerra antipartigiana: questi
collaborazionisti «difficilmente avrebbero accettato un così
evidente allargamento del peso politico croato nella regione». Non
fosse arrivato l’8 settembre, tutto questo avrebbe assunto le
dimensioni del genocidio.
L’Italia si
autoassolve
Nel dopoguerra, in
quell’Europa divisa in due, in Italia si enfatizzeranno,
decontestualizzandole, la diaspora dalmata-istriana e le foibe,
mentre si minimizzeranno, sino alla rimozione, le violenze compiute
dall’esercito italiano nei confronti della popolazione civile
slovena, dalmata, montenegrina, croata, greca, russa e albanese, in
aggiunta alle violenze già a referto in Libia (100mila vittime su
800mila abitanti: un genocidio) e in Etiopia (nel Corno d’Africa
tra il 1935 e il 1943 si contano 300mila vittime). Calerà il
silenzio anche sui bombardamenti di natura terroristica compiuti
dalla Regia aeronautica italiana sulla città basca di Durango il 31
marzo 1937 (morti 289 civili) e su Barcellona in Catalogna tra il 16
e il 18 marzo 1938 (670 morti) durante la Guerra civile spagnola.
Sono atti criminali non inferiori a quello tedesco e italiano del 26
aprile 1937 su Guernica (quattro settimane dopo la strage di
Durango), a torto ritenuto il primo atto di terrore dal cielo
deliberatamente compiuto contro la popolazione civile.
Insomma, brandendo il
paradigma dell’“italiano buono”, benevolmente assunto
dall’opinione pubblica, sui nostri crimini cala l’oblio e
l’Italia si autoassolve, cancellando dal senso comune (e dai testi
scolastici) la memoria dei nostri omicidi e ogni traccia dei nostri
campi di morte.
Dal sito
“direfarebaciare”, 23 gennaio 2019
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