F.D.M.
Oggi è con noi Dante
Isella, filologo e italianista formatosi in una civiltà degli studi
e in un'Italia molto diverse da adesso. Nato a Varese, allievo di
Contini in Svizzera, ci ha dato fra l'altro alcune edizioni
cardinali: Gadda, Sereni, Porta, e ora Manzo ni a cui sta lavorando.
Da Carlo Maria Maggi a Gadda ha fornito soprattutto - citiamo le sue
parole dal libro I lombardi in rivolta - «la mappa di una
delle regioni più inquietamente mosse e fantasiosamente espressive
della nostra geografia letteraria, cioè il foglio ‘Lombardia' (dal
Seicento al Novecento)»: «una nuova carta della letteratura
italiana». E già vediamo spuntare, dietro questa immagine
storico-critica, il profilo di Carlo Dionisotti, vero professor
Isella?
Isella
Anche se Dionisotti l'ho
conosciuto in anni più tardi, quando, già professore a Pavia,
abbiamo pensato di dedicargli, senza nessun obbligo accademico, una
miscellanea. Miscellanea che io appunto ho gestito allora, e che era
l'omaggio a questo nostro grande confratello, diciamo, e maestro
innanzitutto. Fu molto compiaciuto di questo dono che gli veniva da
un centro particolarmente vivace dell'attività letteraria e
filologica come era l'università di Pavia.
R.A.
Andrebbe riscoperto,
Dionisotti.
Isella
Andrebbe un po'
riscoperto. Ma io credo che alla cultura seria è molto presente. Un
libro suo come Geografia e storia della letteratura italiana
dovrebbe essere una sorta di breviario di qualsiasi studioso. Per non
nominare poi tutti gli altri libri che ha scritto. Penso, appunto,
che la riscoperta di Dionisotti coincida con la riscoperta del
piacere dell'indagine letteraria e degli studi filologici che oggi
sono notevolmente messi in angolo.
F.D.M.
Cominciamo a entrare
nell'officina Isella: lei quando incrocia la funzione-Contini e
quando la funzione-Dionisotti?
Isella
Mah, la funzione-Contini
mi riporta naturalmente a un'esperienza di vita legata all'abbandono,
direi coatto, della casa di Varese, per cercare rifugio di là del
confine svizzero, e quindi al successivo approdo a Friburgo, dove
Contini professava da molti anni (perché andò in cattedra in
Svizzera che era ventottenne), e dove appunto io l'ebbi maestro
durante i quasi due anni della mia permanenza in territorio elvetico.
La funzione-Dionisotti, come ho già detto prima, è meno diretta,
mediata appunto dai suoi grandi libri. Ma successivamente è stato
anche un rapporto di amicizia. Mi ricordo quando andammo a offrirgli
la miscellanea in suo onore, Gianni Antonini della Ricciardi ed io, e
fummo accolti nella sua casa di Romagnano Sesia, dove abitava ancora
con la madre, e la gioia di quell'incontro. E Dionisotti disse «vado
a prendere una bottiglia da stappare, vado nell'infernotto» - parola
che non avevo mai sentito, e che è parola, invece, tecnica, che
indica la parte più oscura della cantina dove meglio si conservano i
vini. E tornò con una bottiglia esattamente centenaria: «Potrebbe
essere acqua, io sono astemio...». Invece non era acqua, e Gianni
Antonini ed io ce la siamo bevuta proprio con molto piacere nella
casa di questo grande amico, che mi permetto di chiamare così.
F.D.M.
Sul piano del metodo
invece, come considera Dionisotti?
Isella
Direi che mi sono trovato
a essere consonante con l'impostazione di Dionisotti, di quel libro
che divenne presto famoso. A un convegno a Lecce tenni una relazione
proprio sulla letteratura lombarda, e questo mio excursus piacque
molto e fu subito battezzato come ‘dionisottiano'. Dionisotti
allora lo conoscevo sicuramente attraverso qualche scritto, ma non
tanto da potermi considerare suo allievo. Sono onorato di essere
stato immediatamente ascritto a questa scuola.
R.A.
Professor
Isella, lei è il più grande studioso di Carlo Emilio Gadda, del
quale ci ha dato un'edizione in quattro volumi; più uno, uscito in
un secondo tempo.
Isella
Esattamente, quattro più
uno: la generosità dell'editore Garzanti nei confronti di Gadda ci
permise di poter completare l'opera con un quinto volume, che non era
nelle previsioni, quello degli scritti postumi, in due tomi. Un
lavoro che siamo riusciti a realizzare in cinque anni, sono circa
5500 pagine con, anche, l'indice dei nomi, le bibliografie, ecc.
F.D.M.
Quali sono stati i
problemi più significativi nella ricostituzione dei testi di Gadda?
Isella
Occorreva innanzitutto
fare una ricognizione dell'opera - perché un conto sono i libri e un
conto sono gli scritti usciti sui giornali, riviste ecc. Il lettore
di Gadda, direi, si è trasformato col tempo, come si è trasformata
nel tempo la conoscenza della sua opera. Gadda veniva conosciuto, da
me, per esempio, quando ero a Friburgo, solo attraverso le opere
uscite in volume: La Madonna dei filosofi nelle Edizioni di
Solaria, Le meraviglie d'Italia, Il castello di Udine,
e poi successivamente, in anni del dopoguerra, naturalmente, alcune
edizioni del Pasticciaccio, La cognizione del dolore
ecc. Questa è una mappa dell'opera pubblica, quella che Gadda in un
certo senso ha favorito. Però c'è tutto un continente gaddiano che
non era mai stato esplorato, e che poi è venuto fuori e ha
modificato radicalmente la lettura di Gadda. Abbiamo potuto conoscere
ad esempio il suo primo tentativo di romanzo: Gadda tornava allora
dall'Argentina dove aveva tentato la fortuna, fortuna anche in senso
economico.
R.A.
Come ingegnere.
Isella
Ingegnere a questa
società, Fosforos, che c'era appunto a Buenos Aires, con una
attività distribuita anche in vari cantieri. E, direi, al ritorno,
sconfitto: c'è un bellissimo saggio, Il viaggio e la morte, che in
qualche modo si collega a questo tentativo dell'avventura, diciamo
sotto il nome di Rimbaud; e, invece, il ritorno dello sconfitto, che
va nella direzione di una presa di coscienza della realtà concreta,
dalla quale non si può fuggire e che va sotto il nome di Baudelaire.
E Gadda pensò, al ritorno nel '24 dall'Argentina, di concorrere a un
concorso indetto da Mondadori, per unromanzo. La letteratura italiana
aveva conosciuto romanzi, ancora oggi citatissimi, letti tra l'Otto e
il Novecento; ma prima di un revival del romanzo con Gli
indifferenti di Moravia, quindi prima del '29, non c'era una
letteratura del romanzo. Il concorso di Mondadori andava in quella
direzione. Gadda pensava di poter scrivere il suo romanzo nel giro di
pochi mesi e partecipare, ma naturalmente non era altro che un sogno
il suo. Quello che è importante però è che da questo sogno èuscito
il libro che io ho pubblicato, appunto da Einaudi nel 1983,
intitolato Racconto italiano di un ignoto del Novecento: è
come una chiave d'ingresso, proprio, nell'officina di Gadda. Nel
senso che Gadda comincia, come in tutte le sue cose, con una estrema
precisione di progettazione. Il romanzo Racconto italiano di un
ignoto del Novecento stabilisce fin dalle prime pagine tre tipi
di annotazioni: note di carattere compositivo; note di carattere
costruttivo; e studi, che sono la realizzazione parziale di questo o
di quel punto della programmazione. Naturalmente questa ferrea gabbia
dura per poche pagine, dopodiché nasce la confusione. E questa
impossibilità di tenere il miscuglio, di tenere il molteplice, il
disordinato fuori dal mondo dell'ordine, è uno dei temi-chiave della
narrativa di Gadda.
F.D.M.
Come si situa Gadda nella
«linea lombarda» che lei, sulla traccia di Contini, ha
organicamente configurato?
Isella
Gadda è una tappa
fondamentale del mio lavoro, partendo però dall'interesse per un
altro scrittore che veniva considerato precursore di quel pastiche
che diventa poi specifico della scrittura mescidata di Gadda, vale a
dire Carlo Dossi. Quando ero internato a Friburgo (internato
militare) avevo appunto pensato di laurearmi su un tema di
letteratura lombarda. Non c'era la possibilità di accedere allora ai
manoscritti di Porta, che era per me il traguardo più immediato, ma
era possibile avere l'edizione delle opere di Dossi uscite da Treves
in cinque volumi, e io cominciai appunto a lavorare allora. La mia
tesi di laurea fu discussa a Firenze, dove io approdai dopo il
soggiorno friburghese, e dove mi laureai con Attilio Momigliano e
Bruno Migliorini. E questa tesi fu poi pubblicata dodici anni più
tardi da Contini nella collana «Documenti di filologia italiana»
dell'editore Ricciardi. Ecco, questo è stato il punto di partenza:
La lingua e lo stile di Carlo Dossi. Partendo da lì il mio
ritorno in Italia mi mise nella condizione, poi, di accedere al
grande archivio portiano che si conserva alla Biblioteca Trivulziana.
Veramente un meraviglioso archivio in dodici grandi contenitori di
metallo con centinaia e centinaia di manoscritti. E quello fu il
lavoro di alcuni anni, veramente, e direi anche della mia formazione
in senso stretto filologico.
R.A.
Quali sono gli altri
terminali di questa linea lombarda?
Isella
Lei nel presentarmi ha
indicato i termini cronologici del mio lavoro tra il Seicento di
Maggi e il Novecento di Sereni. L'ultimo libro, uscito l'anno scorso,
è Lombardia stravagante: la stravaganza consiste, direi, nel
non-allineamento di questa cultura lombarda di cui mi sono occupato,
tra Quattrocento e Seicento, che è una cultura invece fatta di
fuorvianti, di individui che si pongono, in un certo senso, in una
posizione contestataria nei confronti della letteratura ufficiale del
tempo. E quindi, ecco che questo «foglio» (per stare all'immagine
della mappatura nella letteratura italiana), questo «foglio»
aggiunto da ultimo, completa il tragitto, non più soltanto dal
Seicento all'Ottocento, ma anche dal Quattrocento al Seicento. E la
sutura fra le due parti del lavoro mio, cioè quella che andava da
Maggi fino a Sereni, e quest'altra invece antecedente, è costituita
proprio da un testo di Maggi, ma di un Maggi giovanile. Di Maggi noi
sappiamo che tutta la grande opera, il teatro, che è influente su
tutta la cultura lombarda, e le poesie dialettali, sono dell'ultimo
decennio del Seicento. Non si sapeva di questa attività di Maggi in
anni precedenti. Ho attribuito a lui (e a nessun altro, credo, si
potrebbe attribuire) un prologo che uscì in una specie di
pasticcetto teatrale, messo insieme da un certo Lighenzi, dove si
dice però che il prologo «è di altro autore». E questo altro
autore io lo ho individuato in Maggi. Ed è un testo che possiamo
chiamare giovanile, in quanto si colloca intorno al 1655, diciamo, e
non intorno al 1690. Ecco dunque questa sutura tra la prima parte del
mio lavoro, cioè quella dedicata al Quattrocento e al Cinquecento, e
la parte invece successiva, alla quale mi ero dedicato appunto nei
precedenti volumi, sia nei Lombardi in rivolta, da lei
ricordato, sia nell'altra, L'idillio di Meulan, che appunto va
da Manzoni a Sereni.
R.A.
Lombardia stravagante, un
aggettivo pasqualiano: lei ha conosciuto Giorgio Pasquali?
Isella
Non direttamente, perché
quando io andai a Firenze nel dopoguerra, non insegnava, ma chi
poteva ignorare il suo grande libro sulla Storia della tradizione
e critica del testo?
F.D.M.
Professor Isella, lei in
qualche modo ha voluto riscrivere la Carta costituzionale della
letteratura italiana: cosa ha significato sul piano della battaglia
culturale?
Isella
Mah, io ero persuaso da
tempo che si potesse fare una storia della letteratura italiana
attraverso le cosiddette culture regionali. L'Italia ha raggiunto
l'unità nazionale in tempi molto recenti, e tutta la grande vita
culturale italiana si è svolta, si può dire, su un doppio piano: il
piano della cultura alta, che è il piano cioè di una letteratura
che sta al di fuori dei mutamenti immediati della giornata e che si
studia di essere il più possibile identica a se stessa, dal Duecento
in avanti, proprio per avere una identità che non fosse compromessa
con la varietà, diciamo, delle situazioni locali; e, invece, una
letteratura dialettale, che, unica in tutta la cultura europea, ha
prodotto in varie regioni opere di straordinaria qualità. Basta
pensare per esempio a tutto il Seicento napoletano messo a conoscenza
nostra da Croce, evidentemente, con l'opera di Basile e di altri
scrittori che intorno a lui si collocano... Poi basta pensare alla
grande letteratura veneta: il Ruzante (che è stato uno dei valori
portati alla luce nel dopoguerra) ci immetteva immediatamente in una
letteratura che sia prima sia dopo di lui ha uno sviluppo
estremamente ricco. Ci sono letterature - la siciliana, per esempio -
che non hanno un equivalente... Anche la Germania ha avuto un
processo di unificazione tardo, come l'Italia, ma i dialetti tedeschi
non hanno dato vita a opere letterariamente significative. Basti dire
che Feltrinelli aveva pubblicato una raccolta di scritti di Schnurre,
e in uno di questi racconti c'era una specie di miscidazione con il
dialetto berlinese... dal tedesco «deutsch» mescolato con il
dialetto berlinese. E sembrava all'editore che fosse poco efficace la
traduzione, che pure era ottima. E mi diede l'incarico di tradurlo in
dialetto milanese, cosa che io feci: «Azzurro a righe d'oro»,
perché è un tappezziere chiamato a tappezzare una stanza, e il
proprietario di questa stanza non vuole assolutamente che si sposti
un certo divano, e lui deve fare dei grandi sforzi. A un certo
momento scorge sotto il letto un braccio, di un cadavere
evidentemente, e quindi affretta la sua opera
di tappezziere per
liberarsi al più presto possibile.
F.D.M
… dell'incubo.
Isella
Beh, un po' gaddiano lo
è.
R.A.
Veniamo al suo incontro
con Gianfranco Contini a Friburgo, il filologo Contini.
Preliminarmente potrebbe spiegare cosa s'intende per «filologia
d'autore» e cosa invece per «filologia della copia»?
Isella
Sì, certo. Quando io lo
conobbi, Contini quell'anno svolgeva un corso sui dialetti
dell'antico francese: Les dialectes de l'ancien frangais, di
cui io poi avrei fatto le dispense. Le dispense non sono
un'istituzione praticata in Svizzera. In Italia tutti i professori
hanno qualche allievo che le fa, in quel caso invece furono fatte
delle dispense perché il nostro campo universitario ospitava, al
primo anno, una trentina-quarantina di allievi, e gli altri, che non
avevano avuto la fortuna come noi di arrivare appunto all'università
di Friburgo, vivevano nei campi periferici del cantone di Lucerna,
piuttosto che nel cantone di Berna ecc. E le dispense erano quindi un
modo di mettere a loro disposizione il lavoro che noi facevamo
all'università. Ebbene, il primo corso - come dicevo - era sui
dialetti dell'antico francese. Contini distribuiva dei testi e su di
essi si doveva fare quella che lui chiamava bassa macelleria: che
significava analizzare foneticamente, linguisticamente, ogni parola.
Il corso, estremamente interessante, era formato da una prima parte
introduttiva ai problemi del latino medievale e da una seconda parte
sui dialetti,dal piccardo al bretone, ai dialetti del sud est ecc.,
prima che il sopravvento su tutti gli altri del francien, cioè del
dialetto dell'Ile-de-France, rendesse la Francia monoglotta come è -
salvo naturalmente il provenzale, che rappresenta cosa a sé stante.
Un altro corso di Contini, invece - e fu quello che mi affascinò al
punto che, da studente di letterature classiche, in particolare di
greco, io mi convertii alla filologia moderna - era dedicato al
metodo di Spitzer, la Stylkritik di Spitzer: la lettura stilistica di
un autore attraverso determinate Uberraschungen, sorprese, cioè
quello che nel leggere un testo ti sorprende e che diventa quindi un
elemento chiave di avvicinamento e di interpretazione del testo.
Questi libri di Spitzer furono fatti conoscere anche in Italia
attraverso, innanzitutto, una miscellanea di scritti curata da
Citati, e poi un'altra curata da Schiaffini per la parte, diremo
così, meno letteraria e più filologica, più tecnica. E fu quel
corso, appunto, che mi diede la spinta a occuparmi della letteratura
- naturalmente lombarda -, attraverso certi testi fondamentali: ecco
perché filologia d'autore. Mentre sul libro fondamentale di Pasquali
avevo imparato quella che era la filologia della copia, vale a dire
un testo giunto a noi attraverso tutta una serie più o meno ricca di
atti di copia. Noi non conosciamo mica i manoscritti, che so, di
Orazio, di Ovidio. C'è un grande vuoto di secoli e da questo vuoto
di secoli emerge una copia, che tutto sommato è la capostipite di
tutta la filiazione di altre edizioni che discendono da quella.
Quindi quella è l'«archetipo», vale a dire è il testo che sta
all'inizio della filiazione, e dopo ci sono tutti gli atti
successivi. È un lavoro che viene poi schematizzato in quello che si
chiama «stemma codicum», che stabilisce in una forma anche grafica
i rapporti tra le diverse copie che ci consegnano quel testo.
R.A.
Una specie di albero
genealogico.
Isella
Si chiama albero
genealogico, sì. Invece la «filologia d'autore» nasce alla fine
degli anni trenta, si può dire, con l'edizione dei frammenti
autografi dell'Orlando furioso curata da un grande maestro della
filologia, Santorre Debenedetti. In sede recensoria Contini, parlando
di questa edizione, pose proprio le basi della filologia d'autore: la
filologia che si occupa del processo evolutivo di un testo. Vale a
dire, dalle prime formulazioni che già configurano una situazione
testuale precisa, alla loro evoluzione per tappe successive. È un
processo che, teoricamente, potrebbe spingersi fino alla fine della
vita di un autore. In realtà si realizza a sezioni, a intervalli.
F.D.M.
Isella, leggendo Contini
si ha sempre l'impressione che l'attività filologica in lui abbia un
forte coefficiente etico: che cosa significava incontrare Contini a
Friburgo mentre l'Europa era distrutta dalla guerra?
Isella
Mi sembra una domanda
fondamentale, nel senso che per me avere potuto seguire quei corsi
aveva significato l'apertura su una funzione della cultura diversa da
quella che avevo potuto in qualche modo fare mia durante i primi anni
di università a Milano. Contini, in un momento in cui il mondo era a
soqquadro, introduceva un senso di assoluto rigore, di una moralità
nel lavoro - anche nella vita, ovviamente, ma nel lavoro -, che
poteva essere veramente il modello per una rigenerazione della nostra
società così approssimativa e pressappochista. Direi che è stata
proprio quella la lezione di moralità.
F.D.M.
Cioè, lei sentiva un
legame tra gli antichi testi francesi e l'urgenza storico-politica.
Isella
Assoluto! Nel senso che
il soffermarsi come si faceva nel seminario del mercoledì, per
esempio su un testo di Peire Cardenal ecc.e il valutarne via via le
diverse lezioni eccetera, era di un tale rigore, di una tale
raffinatezza, sottigliezza. Cioè, non c'era margine assolutamente
per il pressappochismo, ecco. Ed era questo rigore di cui la nostra
generazione aveva bisogno. Aveva bisogno di sentire che c'era la
possibilità di una società fondata anziché su dei falsi valori, su
dei valori autentici.
R.A.
Senza dimenticare il
Contini resistente del Foglio della Valdossola.
Isella
Beh. lì noi ci
precipitavamo il giovedì a comperare «Il dovere», che usciva a
Bellinzona dalla tipografia Salvioni, un giornale che ospitava una
pagina, diciamo, politico-letteraria, a cui Contini collaborava ogni
settimana. E quindi precipitarsi per leggere quello che scriveva lui,
o quello che scrivevano anche altri collaboratori, per esempio
Alfredo Puerari, che era chef des études al nostro campo,
cremonese e professore di storia dell'arte, oppure Guglielmo Alberti,
grande letterato e studioso che era internato civile e viveva
all'Hotel Suisse... Precipitarci a leggere quello che pubblicavano, e
avere evidentemente un continuo sostegno anche politico (Contini
allora era nel Partito d'Azione), e avere appunto il senso che il
nostro studio era in stretta coerenza con idee che potevano anche
conquistarci, proprio al progetto di una ricostruzione del nostro
Paese al nostro ritorno. Era qualcosa di affascinante.
F.D.M.
Per chiudere su Contini:
l'educazione filologica entra, oppure no, nella prosa critica e
saggistica di Dante Isella?
Isella
Le due qualità che
mirerei a raggiungere e a mostrare nel mio scrivere sono, da un lato,
la chiarezza assoluta, cioè la razionalità, e dall'altro una certa
leggerezza di eleganza: uno scrivere che sia già in se stesso il
prodotto di una scelta stilistica. Ecco, questo è quanto io cerco di
fare. E mi sembra giusto dire, come ha osservato Giovanni Agosti, che
la vicinanza così preminente di Contini non ha influito sul mio
stile come invece ha influito su altri, e neppure la mia passione per
Gadda o per Dossi. Loro mi hanno insegnato che scrivere significa
avere una consapevolezza, questo sì, ma non dei modelli da seguire
pedissequamente.
R.A.
Adesso professor Isella
rompiamo il riserbo e parliamo un po' della sua vita privata: la
famiglia, l'infanzia.
Isella
Io ho avuto una famiglia
meravigliosa, lo posso dire senza nessuna enfasi. Mia madre era
vedova di un primo matrimonio: il marito era morto nel 1917,
all'assalto del Montenero, lei era poco più che ventiduenne, con tre
figli superstiti su quattro. Era una donna di grande intelligenza e
di attività assolutamente infaticabile. E mio padre era a sua volta
vedovo di un primo matrimonio. La moglie era morta nel mettere al
mondo l'unico figlio suo che si chiamava Angelo... I due vedovi si
unirono e procrearono una femmina - mia sorella Lidia, che divenne
studiosa di lingue straniere, e si era laureata su Walser - e poi me.
La nostra era una tavolata in genere con dieci persone, i sei
suddetti più i due genitori fa otto, una persona costantemente a
tavola in due giorni della settimana, che era originaria di
Mirandola, la signora Zelmira Galavotti, la quale non voleva che le
si cambiasse il piatto perché diceva che quello pulito sapeva di
liscivia mentre quell'altro sapeva di buono, e così via. E poi
avevamo anche, qualche volta, ospite il ciechìn. Il ciechìn
era un piccolo cieco che attendeva alla riparazione di finimenti di
cavalli.
F.D.M.
Questo fa molto Ceruti.
Isella
Mio padre aveva allora,
insieme con due fratelli, un'azienda di trasporti che era soprattutto
a base di cavalli, trentadue ne avevamo nelle scuderie.
F.D.M.
I paesaggi del varesotto:
si dice così, no?
Isella
Eh sì, come no!... È un
paesaggio che si imprime dentro di noi. Anche con il carissimo amico,
padre Giovanni Pozzi, ci sentivamo appartenenti alla stessa terra.
Lui al di là del lago - il lago Maggiore, ovviamente - io al di qua.
E direi che c'è anche Contini, in fondo intravvedevamo una
possibilità di congiungimento attraverso il lago Maggiore. Perché,
quando andavo a trovarlo, dopo la guerra, percorrevo appunto la
strada che si insinua, dopo un certo punto del lago Maggiore, nel
cosiddetto lago di Mergozzo, che era una specie di insinuamento del
Maggiore, e da lì si arriva poi in Valdossola. Quindi è tutta una
zona che in qualche modo ci legava, anche nella bellezza dei
paesaggi, nell'attrazione di questi luoghi. Tanto è vero che io poi,
quando uscii da una esperienza molto lunga e anche molto impegnativa
di lavoro nell'azienda di mio padre, dove io rimasi per quattordici
anni, pensai di andare a vivere dove vivo ancora oggi, in questa
quiete meravigliosa di alberi e di laghi che è la località dove
sto, e che è Casciago, «Casciac» nella fonetica.
F.D.M.
Che è in vista dei
laghi, per l'appunto.
Isella
È in vista innanzitutto
di tutte le Alpi: si vede il gruppo centrale svizzero, il Monte Rosa,
che è esattamente di fronte alla finestra della mia camera, e, verso
est, si arriva fino a vedere il Monviso nelle giornate terse e
naturalmente di buona visibilità. E poi questi laghi. È una specie
di lake district:il lago di Varese, il lago di Comabbio, poi il lago
Maggiore spezzato in due pezzi ecc., quindi è una serie di
«catinelle», come direbbe appunto Gadda, che parla di catinelle
azzurre che si insinuano nel verde intenso di un paesaggio, spesso
ahimè piovoso, e quindi con i verdi che sono verdi cupi, non verdi
scoloriti.
R.A.
Nel dossier «imprese di
famiglia» ho letto di un episodio curioso legato al lancio della
Fiat Seicento.
Isella
Eh sì, questo però
appartiene a un altro momento della mia esistenza...In quella
famiglia che ho cercato di descrivere prima, un fratello in
particolare si segnalava oltre che per essere un grande coureur de
femmes, anche per essere un grande corridore, un corridore -
diciamo così - in senso veramente agonistico, di partecipazione:
Bruno Martignoni, figlio del primo matrimonio di mia madre. Abbiamo
pubblicato (dico «abbiamo» perché ho concorso anch'io a questa
edizione) un libro sulla sua vita di motorista, diciamo, intitolato
Martignoni l'africano. Quando uscì la Seicento, Bruno andò
da Valletta e gli propose di fare un lancio pubblicitario di questa
automobile nuova con un raid Calcutta-Roma in dieci giorni. La
proposta fu accolta e mio fratello andò prima a fare un viaggio di
esplorazione fino a Calcutta, poi con un'altra coppia di amici (in
due su ogni macchina: due macchine) fece il viaggio da Calcutta verso
Roma. Mi giunse un telegramma: «urge giunto di trasmissione, prego
portarmelo a Belgrado». E quindi io andai allora con l'automobile a
Belgrado, mi presentai al mattino della giornata in cui doveva
arrivare la rappresentanza della Fiat in Jugoslavia.
R.A.
Era la Jugoslavia di
Tito.
Isella
Sì, e quando arrivai si
dovette rimanere a lungo fermi perché c'era non so quale autorità
russa che stava arrivando in aereo. Il giorno dopo mi presentai per
sapere se avessero notizie di mio fratello. «A noi risulta che
dovrebbe arrivare questa sera», dissero. Allora la cosiddetta
autostrada costruita dagli studenti arrivava con l'asfalto fino a
Belgrado. Sotto Belgrado era sterrata, non c'era altra strada, si
poteva scendere di lì incontro al fratello che arrivava da Calcutta,
evidentemente. Mi fermai in un villaggio in cui sembrava di toccare
veramente le Colonne di Ercole, di uscire dalla civiltà verso un
mondo che ormai era fatto così di piccoli lavori: c'era un semicieco
che girava una mola su cui affilava una falce, c'era un piccolo
negozietto con delle scarpine appese che sembravano dei salami (ne
comperai un paio per mia figlia) eccetera. E in quel momento
l'orizzonte - che era un orizzonte di tramonto, insanguinato,
veramente - si anima anche di un grande turbine di polvere che si
alza: mio fratello che arrivava da Calcutta!
R.A.
Una specie di Nuvolari!
Isella
Esattamente. Quando lo
raggiunsi mi disse: «no, no, tiene, tiene.». Il giunto ‘teneva'.
F.D.M.
Per cui il suo viaggio
era stato inutile.
Isella
Però era stato molto
bello, molto divertente. E quindi lui partì, e all'indomani era a
Roma. Erano undicimila e tanti chilometri percorsi in dieci giorni,
quindi un'impresa non da poco, ecco.
F.D.M.
Il lavoro nell'azienda di
suo padre come si conciliava con la passione filologica?
Isella
Beh, questa domanda mi
riporta ai crucci dei quattordici anni. Nel senso che in me era viva
naturalmente la passione che poi mi ha accompagnato in tutta la mia
attività. Caduta la possibilità di un tutto ipotetico trasferimento
in America (Contini mi disse appunto che Singleton cercava un
assistente - probabilità che poi si è dissolta in nulla perché fu
favorito un italo-americano), io mi sentii in dovere di aiutare mio
padre: lo sentivo anziano, lo sentivo uomo che aveva lavorato da
quando aveva dieci anni in avanti, a formarsi una piccola fortuna, e
quindi entrai nella sua azienda. Papà poi muore nel '54, e io nel
'55 feci la libera docenza (allora la libera docenza era a numero
chiuso, erano tre posti, ne furono assegnati soltanto due, uno a
Spagnoletti, il primo a me). E, a quel momento, io pensai che fosse
finita la mia possibilità di attendere agli studi, perché questa
era un'azienda di dimensioni non enormi, ma abbastanza vasta:
regionale, non locale.
F.D.M.
Era un'azienda di
trasporti, no?
Isella
Un'azienda di trasporti
che ormai non era più a base di cavalli, ma era diventata a base di
camion. E questi camion erano camion che uscendo dalla nostra sede di
lavoro erano ormai dei catorci, perché quelli buoni ce li avevano
tutti requisiti durante la guerra, e ogni catorcio che usciva voleva
dire poi dover accorrere in soccorso.
R.A.
Altro che giunto di
Belgrado!
Isella
Altro che giunto, sì!...
E quindi ho fatto un patto con mio padre, patto sempre mantenuto ma
che spesso veniva - diremo - violato dalle necessità. Io andavo in
azienda alle sei del mattino e stavo fino a mezzogiorno. Nel
pomeriggio andavo a Milano, e venivo al Castello Sforzesco dove
lavoravo proprio allora al Porta. Questo andò avanti bene fino al
'54, anno della morte di mio padre. Dopodiché mi trovai ad essere io
a dirigere questa azienda, anche perché ci eravamo separati da uno
zio, ce n'era ancora uno, ma era il più passivo. E quindi è stato
il mio sforzo di cercare di, innanzitutto, mantenere l'azienda,
naturalmente in uno stato di efficienza, e poi nello stesso tempo di
trovare qualcuno, nell'ambito famigliare (e questo mi sembrava un
requisito sine qua non), a cui poter passare diciamo il
fiammifero acceso.
F.D.M.
Si ha l'impressione di
un'etica del lavoro a prescindere dall'oggetto. Un po' protestante,
forse...
Isella
Eh forse anche, un poco.
L'impronta un po' asburgica della Lombardia allora si sentiva molto
di più. Milano io la ricordo una città molto più nordica. Era la
città di Tessa, la città degli anni trenta, che è una città dura,
molto più vicino a una certa Berlino degli espressionisti. Poi
l'elemento meridionale che si è inserito, che naturalmente ha
aumentato il numero della popolazione, ha addolcito un poco questa
durezza. Quindi è una Milano diversa da quella che potevamo
ricordare allora. E questo sentimento un po' severo della vita ci
accompagnava fin dagli anni più giovani.
R.A.
A un certo punto lei
aveva aperto anche una libreria con suo cognato.
Isella
Sì, subito dopo la
guerra, mio cognato - che poi è stato ed è ancora notaio, diciamo
così, molto noto nella città - e io, che ancora non ero né carne
né pesce - perché ero filologo e nello stesso tempo trasportatore
-, ecco, aprimmo questa libreria intitolata «Il Portico», in una
bellissima casa del Settecento a Varese. C'era un'impiegata che la
gestiva, e la sera invece ci trovavamo lì. È stata il punto di
partenza di tutta una serie di iniziative, dalla fondazione di un
circolo del cinema che è durato per moltissimi anni, a spettacoli
teatrali. Facemmo venire la compagnia di Enzo Ferrieri per uno
spettacolo di Saroyan. Istituimmo due premi di scultura, scultura
all'aperto, ovvero scultura non da soprammobile, ma ambientata, e poi
un grande panorama della scultura europea (ingle-se,francese,ecc.) a
cominciare da Renoir, scendendo fino a Giacometti, che allora non era
conosciuto da noi e credo neanche molto altrove. Queste esperienze
sono state legate anche a un giornaletto intitolato «Provincia» di
cui uscì solo un numero, perché non avevamo più i soldi: ospitava
scritti di persone del tutto sconosciute, tranne uno scritto di
Vittorio Sereni intitolato Vultus Domini, volto di Dio. Sereni
aveva appena pubblicato, nel '47, il Diario d'Algeria. Gli
altri erano tutti sconosciuti. Questi sconosciuti erano: Silvio
d'Arco Avalle (che è stato poi mio grandissimo amico, e, non occorre
dirlo, è certamente uno dei più grandi filologi del Novecento), e
poi Guido Morselli, Piero Chiara, e ancora poi alcuni amici come
Luigi Ambrosoli, il cognato Bortoluzzi ecc. Insomma, un piccolo
giornaletto di provincia dove questi nomi si sono trovati per la
prima volta a essere insieme.
R.A.
In quella specie di
salotto di spiriti in erba c'era anche Panza di Biumo, il conte che
sarebbe diventato famoso collezionista, no?...
Isella
Certo, veniva alla nostra
libreria. Entrava silenziosissimo, come ancora oggi...
R.A.
Felpato.
Isella
Felpato. Credo che stesse
facendo una tesi in filosofia, e naturalmente era attirato dalla
nostra libreria, che era molto bella. Era stata fatta da un amico
architetto, quindi aveva un suo fascino anche - diremmo così - di
arredamento, e fu il centro, anche, di una serie di mostre. Piccole
mostre di disegni, naturalmente, perché non avevamo gli spazi per
fare altro, Cassinari, Morlotti, Guttuso ecc., artisti che erano in
parte - alcuni, altri lo sono diventati - miei carissimi amici.
R.A.
Soprattutto Guttuso e
Morlotti, no?
Isella
Beh, con Morlotti fu
subito nel dopoguerra: l'incontro attraverso un amico comune, lo
scultore Vittorio Tavernari. Morlotti frequentava allora Varese, io
ebbi modo di conoscerlo, e nacque un'amicizia che è durata nel
tempo. A Morlotti ho dedicato qualche pagina, naturalmente da
dilettante di pittura. Guttuso invece è stato un episodio molto
importante della mia esistenza. Venne a Varese in anni in cui ancora
ero «trasportatore» e mio padre mi disse che c'era un pittore, che
mi conosceva di nome, forse qualcosa aveva letto di mio, che aveva da
spedire dei mobili a Roma. Raggiunsi Velate, la località dove
Guttuso venne poi a vivere, e mi trovai di fronte a uno dei
personaggi più noti del dopoguerra italiano, con la moglie Mimise -
carissima amica veramente -, che avevano da spedire due mobili molto
belli di una villa che Mimise aveva ereditato da una zia. La villa
era stata abitata durante la guerra da fascisti saliti da Firenze
verso il nord, che avevano persino divelto le assicelle dei parquet
per riscaldarsi. Il proposito di Guttuso era di vendere la villa e di
portarsi questi pochi mobili. Mi disse che mi avrebbe spedito tutto
il necessario di indirizzi e di norme con cui spedirglieli, e così
ci lasciammo. Arrivò una lettera di Guttuso, che mi disse che non
vendevano più la villa, e difatti a cominciare dal '56 io cominciai
a frequentare Renato. Dico Renato perché è stata una carissima
amicizia che è durata, naturalmente, fino alla sua scomparsa: prima
di Mimise e poi sua. Ed è in quel periodo che ho conosciuto, si può
dire appunto attraverso il centro di Velate - la casa di Guttuso -,
molta parte del mondo intellettuale che faceva capo appunto a un
pittore che allora era meno noto, forse, di quanto è diventato poi,
ma che era anche lui un esempio di probità nel lavoro. Cominciava al
mattino alle otto, qualunque fosse stata la serata (spesso le serate
confinavano con le ore piccole della notte), ma lui alle otto era
immancabilmente al suo tavolo, con la sigaretta già in bocca e con
la matita nell'altra mano per disegnare. E disegnava continuamente
durante la giornata, salvo i giorni in cui dipingeva. E questo ha
consentito a me di salire a casa sua quasi tutti i giorni, o molto
frequentemente, e di avere con lui un dialogo continuo. Guttuso,
allora, era un uomo di grandi letture e quindi al corrente di quello
che usciva, e del resto scriveva lui stesso su giornali e riviste.
F.D.M.
Ma questo innesto in
Lombardia di Guttuso non suona un po' antifrastico? In fondo non c'è
pittore meno lombardo di Guttuso.
Isella
Ha ragione, anzi questo
mi dà modo di dire come nel '58 Raffaele Mattioli.
R.A.
...il grande patron della
«Ric-ciardiana»...
Isella
...non solo della
«Ricciardiana», ma della cultura italiana! Quando mancò Mattioli,
Contini disse che era finita un'epoca, e sembrava una cosa esagerata.
Invece no, effettivamente è stato così. Raffaele Mattioli non era
soltanto quel grande uomo di banca che tutti sappiamo. Era un
economista ma era soprattutto anche un grande umanista. Accettò,
appunto, l'idea di una edizione di Porta commentata da me. E
l'edizione fu bellissima, pubblicata da Mardersteig: credo che vinse
anche il compasso d'oro per la grafica. Ed io, alla domanda di
Mattioli su chi potesse illustrarla, risposi: Guttuso. «Eh, ma
no!... Guttuso non può illustrare il Porta!». Io dissi Guttuso
perché nei miei incontri con Renato lui voleva che gli leggessi dei
testi di Porta di cui era entusiasta. E sia pure con quella
alterazione che non poteva non esserci nella sua pronuncia, sapeva a
memoria degli interi pezzi di Porta. Sicché la proposta di Guttuso
non era campata per aria, era la proposta di un conoscitore vero
della poesia di Porta. Alla fine Mattioli si rassegnò all'idea di
Guttuso, col quale non aveva avuto mai rapporti. Sono stato io, in un
certo senso, l'intermediario della loro amicizia successiva. Renato,
allora, per l'illustrazione di Porta fece circa 110-115 disegni, per
sceglierne poi sedici (che sono le tavole entrate nell'edizione). E
andammo da Mattioli, nel suo ufficio in piazza della Scala, e lì
Renato, che sudava dall'emozione, si era messo l'abito bello.
R.A.
In ghingheri.
Isella
In ghingheri, col
fazzolettino eccetera, e lì squadernò sul tappeto dello studio
tutti questi disegni meravigliosi. Erano veramente bellissimi e se ne
scelsero sedici per quella edizione.
F.D.M.
Ci dica qualcosa invece
delle sue passioni figurative per la pittura lombarda più antica,
come collezionista quanto meno; e dell'eventuale incrocio in questo
senso con Giovanni Testori.
Isella
Testori lo conobbi in
occasione del processo dell'Arialda, quando veniva imputato a
lui di avere pubblicato un'opera piena di parole, diciamo,
sconvenienti. C'era una perizia di parte di Antonio Baldini, e in
questo elenco di parole riprovevoli c'era persino «cretinetti», che
è una parola che non mi sembra meritasse censure.
F.D.M.
È la parola di Franca
Valeri.
Isella
Esattamente. E allora io
feci questa perizia dimostrando che erano tutte parole che potevano
essere ascoltate da qualunque orecchio, anche il più prude
che esistesse. Testori per riconoscenza mi regalò un piccolo disegno
di Pianca, un pittore valsesiano del Settecento. E da lì è
cominciata anche con lui un'amicizia che è stata alimentata da mie
visite, quando io andavo in via Brera al numero 8 dove lui aveva lo
studio. E parlavo, conversavo con lui appunto di questi comuni
interessi per la pittura. Acquistai da lui anche un bel quadro di
Gherardini, che è il genero di Cerano, un quadro con Santa Irene che
cura San Sebastiano, e poi anche altre piccole cose. Comunque abbiamo
poi insieme fondato il teatro Franco Parenti, insieme con Franco
Parenti stesso, la Shammah, Testori ed io, andammo da un notaio e si
fondò il teatro che allora si chiamava Teatro Pierlombardo, e che
dopo, alla morte di Parenti, prese il nome di teatro Parenti.
R.A.
Oltre a Guttuso, lei
incontrava Montale e Sereni nel salotto domenicale di casa Bellora...
Isella
Quello fu un momento
straordinario nel dopoguerra, negli anni appunto in cui Guttuso venne
a Varese, costituito dal fatto che ci fosse un luogo d'incontro come
la casa di Velate di Renato; che ci fosse la casa di Giovanni Pirelli
- carissimo amico che aveva vissuto prima a Roma e poi in Val
d'Aosta, ed era venuto a vivere in città, e la sua casa divenne
presto un luogo d'incontro: da lui conobbi per la prima volta
Muscetta, così come Fortini e i giovani dei «Quaderni piacentini»,
il musicista Nono eccetera. Era un luogo, anche quello, di grandi
frequentazioni, di un tipo diverso da quello della casa di Renato,
direi orientate in modo più politico, ma comunque culturalmente
vasto. E poi, terzo centro, quello che lei ha voluto ricordare, che
era la casa di due amici, Rachele e Dino Bellora, che avevano prima
vissuto a Gallarate, in una bella casa di alta borghesia, e che poi
avevano costruito proprio sotto la casa mia di Casciago una loro
villa, dove alla domenica era non infrequente l'incontro di quello
che era il meglio della Milano culturale del tempo: Montale, col
quale si poteva conversare, magari stando in un angolo, di cose che
potevano interessare la poesia, oppure Vittorio Sereni, o la signora
Pao, per esempio, di cui si ammirava la bellezza, la lunga chioma di
capelli, quando scioglieva la crocchia, e le scendevano questi
capelli fino alle caviglie.
R.A.
E Montale?
Isella
Ah, lui era sempre così
naturalmente in un angolo.
R.A.
Guatava?
Isella
Sì, sì, però con me
era sempre molto cordiale. Tanto è vero che poi mi sono occupato,
come forse si sa, della sua opera.
F.D.M.
Professor Isella, in
conclusione: il suo impegno critico verso la letteratura
contemporanea - Vittorini, Fenoglio, abbiamo detto Montale, Sereni -
lo si può intendere in quel senso militante che indicava Contini?
Isella
Sono perfettamente
d'accordo nell'interpretazione di questo interesse, che mi sembra
indispensabile. Visitare il passato significa visitarlo con gli occhi
di una persona che vive nel suo presente: avere in casa dei quadri
che vanno da Andrea Solario a Cerano, a Morazzone, Pianca e giù giù,
significa aver prima amato la pittura di Morlotti, la pittura di
Guttuso, la pittura di altri artisti a me cari del Novecento, come
Italo Valenti per esempio, o Franco Francese... Nutrirsi di quello
che è il senso vero della ricerca attuale è la chiave fondamentale
per avvicinare anche il passato in una maniera non archeologica, ma
con intensa partecipazione. Come per i quadri, così per la
letteratura non mi sono soltanto voluto occupare del passato, ma ho
inteso dedicare molta parte del mio lavoro anche agli scrittori del
Novecento. Tessa per esempio, che è sì nel filone della cultura
lombarda, ma che è anche la più grande espressione di questa
cultura nel campo dialettale, all'altezza degli anni trenta, del
1930. Un altro autore che ho molto frequentato è Montale, sia per Le
occasioni, sia per Finisterre, di cui ho procurato una
edizione commentata, ma anche altri scrittori, Vittorio Sereni,
carissimo amico, e Fenoglio.
F.D.M.
Ecco, Sereni mi sembra
una bella chiusa per il nostro pomeriggio.
Isella
Sereni è stato un
incontro casuale. Io tornavo da un premio «libera stampa» a
Campione d'Italia. Avevo allora sempre delle automobili piuttosto
belle e veloci, anzi Dionisotti diceva che Isella aveva «il cocchio
veloce», e mi trovai fermo al distributore di benzina di Mendrisio.
In quel momento arrivava un'automobile che aveva come suoi passeggeri
Elio Vittorini e Vittorio Sereni. Io dissi a Sereni: «non ci siamo
mai visti, ma ci conosciamo», e lui ha scritto poi una poesia
intitolata Al distributore, che è l'inizio di una carissima
amicizia. Al distributore, sottinteso di Mendrisio.
R.A.
Dove Merckx vinse il
Campionato del mondo davanti a Gimondi.
Isella
Esattamente. Beh, la
passione per il ciclismo è una passione che ho avuto fin dalla
tenerissima età. C'è un mio racconto (uno dei pochi racconti miei)
intitolato La ciambella di gomma, che è proprio il racconto
di Raffaele Di Paco, grande corridore di quegli anni, che si ferma,
ritirandosi dal Giro di Lombardia, proprio nella strada davanti a
casa nostra.
Alias – Il manifesto, 2
settembre 2012
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