4.4.19

Rivolta e «stravaganza». Dante Isella, il filologo del lago, rievoca le tappe di una vita attiva con Roberto Andreotti e Federico De Melis.

Nel 2012 “Alias”, il supplemento dei “il manifesto, pubblicò il testo di una conversazione trasmessa sulla radio 3 della Rai l'11 giugno 2006, all'interno di un programma dedicato ai «luoghi» esistenziali di protagonisti della cultura italiana. Ne “posto” qui un ampio stralcio. (S.L.L.)


F.D.M.
Oggi è con noi Dante Isella, filologo e italianista formatosi in una civiltà degli studi e in un'Italia molto diverse da adesso. Nato a Varese, allievo di Contini in Svizzera, ci ha dato fra l'altro alcune edizioni cardinali: Gadda, Sereni, Porta, e ora Manzo ni a cui sta lavorando. Da Carlo Maria Maggi a Gadda ha fornito soprattutto - citiamo le sue parole dal libro I lombardi in rivolta - «la mappa di una delle regioni più inquietamente mosse e fantasiosamente espressive della nostra geografia letteraria, cioè il foglio ‘Lombardia' (dal Seicento al Novecento)»: «una nuova carta della letteratura italiana». E già vediamo spuntare, dietro questa immagine storico-critica, il profilo di Carlo Dionisotti, vero professor Isella?

Isella
Anche se Dionisotti l'ho conosciuto in anni più tardi, quando, già professore a Pavia, abbiamo pensato di dedicargli, senza nessun obbligo accademico, una miscellanea. Miscellanea che io appunto ho gestito allora, e che era l'omaggio a questo nostro grande confratello, diciamo, e maestro innanzitutto. Fu molto compiaciuto di questo dono che gli veniva da un centro particolarmente vivace dell'attività letteraria e filologica come era l'università di Pavia.

R.A.
Andrebbe riscoperto, Dionisotti.

Isella
Andrebbe un po' riscoperto. Ma io credo che alla cultura seria è molto presente. Un libro suo come Geografia e storia della letteratura italiana dovrebbe essere una sorta di breviario di qualsiasi studioso. Per non nominare poi tutti gli altri libri che ha scritto. Penso, appunto, che la riscoperta di Dionisotti coincida con la riscoperta del piacere dell'indagine letteraria e degli studi filologici che oggi sono notevolmente messi in angolo.

F.D.M.
Cominciamo a entrare nell'officina Isella: lei quando incrocia la funzione-Contini e quando la funzione-Dionisotti?

Isella
Mah, la funzione-Contini mi riporta naturalmente a un'esperienza di vita legata all'abbandono, direi coatto, della casa di Varese, per cercare rifugio di là del confine svizzero, e quindi al successivo approdo a Friburgo, dove Contini professava da molti anni (perché andò in cattedra in Svizzera che era ventottenne), e dove appunto io l'ebbi maestro durante i quasi due anni della mia permanenza in territorio elvetico. La funzione-Dionisotti, come ho già detto prima, è meno diretta, mediata appunto dai suoi grandi libri. Ma successivamente è stato anche un rapporto di amicizia. Mi ricordo quando andammo a offrirgli la miscellanea in suo onore, Gianni Antonini della Ricciardi ed io, e fummo accolti nella sua casa di Romagnano Sesia, dove abitava ancora con la madre, e la gioia di quell'incontro. E Dionisotti disse «vado a prendere una bottiglia da stappare, vado nell'infernotto» - parola che non avevo mai sentito, e che è parola, invece, tecnica, che indica la parte più oscura della cantina dove meglio si conservano i vini. E tornò con una bottiglia esattamente centenaria: «Potrebbe essere acqua, io sono astemio...». Invece non era acqua, e Gianni Antonini ed io ce la siamo bevuta proprio con molto piacere nella casa di questo grande amico, che mi permetto di chiamare così.

F.D.M.
Sul piano del metodo invece, come considera Dionisotti?

Isella
Direi che mi sono trovato a essere consonante con l'impostazione di Dionisotti, di quel libro che divenne presto famoso. A un convegno a Lecce tenni una relazione proprio sulla letteratura lombarda, e questo mio excursus piacque molto e fu subito battezzato come ‘dionisottiano'. Dionisotti allora lo conoscevo sicuramente attraverso qualche scritto, ma non tanto da potermi considerare suo allievo. Sono onorato di essere stato immediatamente ascritto a questa scuola.

R.A.
Professor Isella, lei è il più grande studioso di Carlo Emilio Gadda, del quale ci ha dato un'edizione in quattro volumi; più uno, uscito in un secondo tempo.

Isella
Esattamente, quattro più uno: la generosità dell'editore Garzanti nei confronti di Gadda ci permise di poter completare l'opera con un quinto volume, che non era nelle previsioni, quello degli scritti postumi, in due tomi. Un lavoro che siamo riusciti a realizzare in cinque anni, sono circa 5500 pagine con, anche, l'indice dei nomi, le bibliografie, ecc.

F.D.M.
Quali sono stati i problemi più significativi nella ricostituzione dei testi di Gadda?

Isella
Occorreva innanzitutto fare una ricognizione dell'opera - perché un conto sono i libri e un conto sono gli scritti usciti sui giornali, riviste ecc. Il lettore di Gadda, direi, si è trasformato col tempo, come si è trasformata nel tempo la conoscenza della sua opera. Gadda veniva conosciuto, da me, per esempio, quando ero a Friburgo, solo attraverso le opere uscite in volume: La Madonna dei filosofi nelle Edizioni di Solaria, Le meraviglie d'Italia, Il castello di Udine, e poi successivamente, in anni del dopoguerra, naturalmente, alcune edizioni del Pasticciaccio, La cognizione del dolore ecc. Questa è una mappa dell'opera pubblica, quella che Gadda in un certo senso ha favorito. Però c'è tutto un continente gaddiano che non era mai stato esplorato, e che poi è venuto fuori e ha modificato radicalmente la lettura di Gadda. Abbiamo potuto conoscere ad esempio il suo primo tentativo di romanzo: Gadda tornava allora dall'Argentina dove aveva tentato la fortuna, fortuna anche in senso economico.

R.A.
Come ingegnere.

Isella
Ingegnere a questa società, Fosforos, che c'era appunto a Buenos Aires, con una attività distribuita anche in vari cantieri. E, direi, al ritorno, sconfitto: c'è un bellissimo saggio, Il viaggio e la morte, che in qualche modo si collega a questo tentativo dell'avventura, diciamo sotto il nome di Rimbaud; e, invece, il ritorno dello sconfitto, che va nella direzione di una presa di coscienza della realtà concreta, dalla quale non si può fuggire e che va sotto il nome di Baudelaire. E Gadda pensò, al ritorno nel '24 dall'Argentina, di concorrere a un concorso indetto da Mondadori, per unromanzo. La letteratura italiana aveva conosciuto romanzi, ancora oggi citatissimi, letti tra l'Otto e il Novecento; ma prima di un revival del romanzo con Gli indifferenti di Moravia, quindi prima del '29, non c'era una letteratura del romanzo. Il concorso di Mondadori andava in quella direzione. Gadda pensava di poter scrivere il suo romanzo nel giro di pochi mesi e partecipare, ma naturalmente non era altro che un sogno il suo. Quello che è importante però è che da questo sogno èuscito il libro che io ho pubblicato, appunto da Einaudi nel 1983, intitolato Racconto italiano di un ignoto del Novecento: è come una chiave d'ingresso, proprio, nell'officina di Gadda. Nel senso che Gadda comincia, come in tutte le sue cose, con una estrema precisione di progettazione. Il romanzo Racconto italiano di un ignoto del Novecento stabilisce fin dalle prime pagine tre tipi di annotazioni: note di carattere compositivo; note di carattere costruttivo; e studi, che sono la realizzazione parziale di questo o di quel punto della programmazione. Naturalmente questa ferrea gabbia dura per poche pagine, dopodiché nasce la confusione. E questa impossibilità di tenere il miscuglio, di tenere il molteplice, il disordinato fuori dal mondo dell'ordine, è uno dei temi-chiave della narrativa di Gadda.

F.D.M.
Come si situa Gadda nella «linea lombarda» che lei, sulla traccia di Contini, ha organicamente configurato?

Isella
Gadda è una tappa fondamentale del mio lavoro, partendo però dall'interesse per un altro scrittore che veniva considerato precursore di quel pastiche che diventa poi specifico della scrittura mescidata di Gadda, vale a dire Carlo Dossi. Quando ero internato a Friburgo (internato militare) avevo appunto pensato di laurearmi su un tema di letteratura lombarda. Non c'era la possibilità di accedere allora ai manoscritti di Porta, che era per me il traguardo più immediato, ma era possibile avere l'edizione delle opere di Dossi uscite da Treves in cinque volumi, e io cominciai appunto a lavorare allora. La mia tesi di laurea fu discussa a Firenze, dove io approdai dopo il soggiorno friburghese, e dove mi laureai con Attilio Momigliano e Bruno Migliorini. E questa tesi fu poi pubblicata dodici anni più tardi da Contini nella collana «Documenti di filologia italiana» dell'editore Ricciardi. Ecco, questo è stato il punto di partenza: La lingua e lo stile di Carlo Dossi. Partendo da lì il mio ritorno in Italia mi mise nella condizione, poi, di accedere al grande archivio portiano che si conserva alla Biblioteca Trivulziana. Veramente un meraviglioso archivio in dodici grandi contenitori di metallo con centinaia e centinaia di manoscritti. E quello fu il lavoro di alcuni anni, veramente, e direi anche della mia formazione in senso stretto filologico.

R.A.
Quali sono gli altri terminali di questa linea lombarda?

Isella
Lei nel presentarmi ha indicato i termini cronologici del mio lavoro tra il Seicento di Maggi e il Novecento di Sereni. L'ultimo libro, uscito l'anno scorso, è Lombardia stravagante: la stravaganza consiste, direi, nel non-allineamento di questa cultura lombarda di cui mi sono occupato, tra Quattrocento e Seicento, che è una cultura invece fatta di fuorvianti, di individui che si pongono, in un certo senso, in una posizione contestataria nei confronti della letteratura ufficiale del tempo. E quindi, ecco che questo «foglio» (per stare all'immagine della mappatura nella letteratura italiana), questo «foglio» aggiunto da ultimo, completa il tragitto, non più soltanto dal Seicento all'Ottocento, ma anche dal Quattrocento al Seicento. E la sutura fra le due parti del lavoro mio, cioè quella che andava da Maggi fino a Sereni, e quest'altra invece antecedente, è costituita proprio da un testo di Maggi, ma di un Maggi giovanile. Di Maggi noi sappiamo che tutta la grande opera, il teatro, che è influente su tutta la cultura lombarda, e le poesie dialettali, sono dell'ultimo decennio del Seicento. Non si sapeva di questa attività di Maggi in anni precedenti. Ho attribuito a lui (e a nessun altro, credo, si potrebbe attribuire) un prologo che uscì in una specie di pasticcetto teatrale, messo insieme da un certo Lighenzi, dove si dice però che il prologo «è di altro autore». E questo altro autore io lo ho individuato in Maggi. Ed è un testo che possiamo chiamare giovanile, in quanto si colloca intorno al 1655, diciamo, e non intorno al 1690. Ecco dunque questa sutura tra la prima parte del mio lavoro, cioè quella dedicata al Quattrocento e al Cinquecento, e la parte invece successiva, alla quale mi ero dedicato appunto nei precedenti volumi, sia nei Lombardi in rivolta, da lei ricordato, sia nell'altra, L'idillio di Meulan, che appunto va da Manzoni a Sereni.

R.A.
Lombardia stravagante, un aggettivo pasqualiano: lei ha conosciuto Giorgio Pasquali?

Isella
Non direttamente, perché quando io andai a Firenze nel dopoguerra, non insegnava, ma chi poteva ignorare il suo grande libro sulla Storia della tradizione e critica del testo?

F.D.M.
Professor Isella, lei in qualche modo ha voluto riscrivere la Carta costituzionale della letteratura italiana: cosa ha significato sul piano della battaglia culturale?

Isella
Mah, io ero persuaso da tempo che si potesse fare una storia della letteratura italiana attraverso le cosiddette culture regionali. L'Italia ha raggiunto l'unità nazionale in tempi molto recenti, e tutta la grande vita culturale italiana si è svolta, si può dire, su un doppio piano: il piano della cultura alta, che è il piano cioè di una letteratura che sta al di fuori dei mutamenti immediati della giornata e che si studia di essere il più possibile identica a se stessa, dal Duecento in avanti, proprio per avere una identità che non fosse compromessa con la varietà, diciamo, delle situazioni locali; e, invece, una letteratura dialettale, che, unica in tutta la cultura europea, ha prodotto in varie regioni opere di straordinaria qualità. Basta pensare per esempio a tutto il Seicento napoletano messo a conoscenza nostra da Croce, evidentemente, con l'opera di Basile e di altri scrittori che intorno a lui si collocano... Poi basta pensare alla grande letteratura veneta: il Ruzante (che è stato uno dei valori portati alla luce nel dopoguerra) ci immetteva immediatamente in una letteratura che sia prima sia dopo di lui ha uno sviluppo estremamente ricco. Ci sono letterature - la siciliana, per esempio - che non hanno un equivalente... Anche la Germania ha avuto un processo di unificazione tardo, come l'Italia, ma i dialetti tedeschi non hanno dato vita a opere letterariamente significative. Basti dire che Feltrinelli aveva pubblicato una raccolta di scritti di Schnurre, e in uno di questi racconti c'era una specie di miscidazione con il dialetto berlinese... dal tedesco «deutsch» mescolato con il dialetto berlinese. E sembrava all'editore che fosse poco efficace la traduzione, che pure era ottima. E mi diede l'incarico di tradurlo in dialetto milanese, cosa che io feci: «Azzurro a righe d'oro», perché è un tappezziere chiamato a tappezzare una stanza, e il proprietario di questa stanza non vuole assolutamente che si sposti un certo divano, e lui deve fare dei grandi sforzi. A un certo momento scorge sotto il letto un braccio, di un cadavere evidentemente, e quindi affretta la sua opera
di tappezziere per liberarsi al più presto possibile.

F.D.M
… dell'incubo.

Isella
Beh, un po' gaddiano lo è.

R.A.
Veniamo al suo incontro con Gianfranco Contini a Friburgo, il filologo Contini. Preliminarmente potrebbe spiegare cosa s'intende per «filologia d'autore» e cosa invece per «filologia della copia»?

Isella
Sì, certo. Quando io lo conobbi, Contini quell'anno svolgeva un corso sui dialetti dell'antico francese: Les dialectes de l'ancien frangais, di cui io poi avrei fatto le dispense. Le dispense non sono un'istituzione praticata in Svizzera. In Italia tutti i professori hanno qualche allievo che le fa, in quel caso invece furono fatte delle dispense perché il nostro campo universitario ospitava, al primo anno, una trentina-quarantina di allievi, e gli altri, che non avevano avuto la fortuna come noi di arrivare appunto all'università di Friburgo, vivevano nei campi periferici del cantone di Lucerna, piuttosto che nel cantone di Berna ecc. E le dispense erano quindi un modo di mettere a loro disposizione il lavoro che noi facevamo all'università. Ebbene, il primo corso - come dicevo - era sui dialetti dell'antico francese. Contini distribuiva dei testi e su di essi si doveva fare quella che lui chiamava bassa macelleria: che significava analizzare foneticamente, linguisticamente, ogni parola. Il corso, estremamente interessante, era formato da una prima parte introduttiva ai problemi del latino medievale e da una seconda parte sui dialetti,dal piccardo al bretone, ai dialetti del sud est ecc., prima che il sopravvento su tutti gli altri del francien, cioè del dialetto dell'Ile-de-France, rendesse la Francia monoglotta come è - salvo naturalmente il provenzale, che rappresenta cosa a sé stante. Un altro corso di Contini, invece - e fu quello che mi affascinò al punto che, da studente di letterature classiche, in particolare di greco, io mi convertii alla filologia moderna - era dedicato al metodo di Spitzer, la Stylkritik di Spitzer: la lettura stilistica di un autore attraverso determinate Uberraschungen, sorprese, cioè quello che nel leggere un testo ti sorprende e che diventa quindi un elemento chiave di avvicinamento e di interpretazione del testo. Questi libri di Spitzer furono fatti conoscere anche in Italia attraverso, innanzitutto, una miscellanea di scritti curata da Citati, e poi un'altra curata da Schiaffini per la parte, diremo così, meno letteraria e più filologica, più tecnica. E fu quel corso, appunto, che mi diede la spinta a occuparmi della letteratura - naturalmente lombarda -, attraverso certi testi fondamentali: ecco perché filologia d'autore. Mentre sul libro fondamentale di Pasquali avevo imparato quella che era la filologia della copia, vale a dire un testo giunto a noi attraverso tutta una serie più o meno ricca di atti di copia. Noi non conosciamo mica i manoscritti, che so, di Orazio, di Ovidio. C'è un grande vuoto di secoli e da questo vuoto di secoli emerge una copia, che tutto sommato è la capostipite di tutta la filiazione di altre edizioni che discendono da quella. Quindi quella è l'«archetipo», vale a dire è il testo che sta all'inizio della filiazione, e dopo ci sono tutti gli atti successivi. È un lavoro che viene poi schematizzato in quello che si chiama «stemma codicum», che stabilisce in una forma anche grafica i rapporti tra le diverse copie che ci consegnano quel testo.

R.A.
Una specie di albero genealogico.

Isella
Si chiama albero genealogico, sì. Invece la «filologia d'autore» nasce alla fine degli anni trenta, si può dire, con l'edizione dei frammenti autografi dell'Orlando furioso curata da un grande maestro della filologia, Santorre Debenedetti. In sede recensoria Contini, parlando di questa edizione, pose proprio le basi della filologia d'autore: la filologia che si occupa del processo evolutivo di un testo. Vale a dire, dalle prime formulazioni che già configurano una situazione testuale precisa, alla loro evoluzione per tappe successive. È un processo che, teoricamente, potrebbe spingersi fino alla fine della vita di un autore. In realtà si realizza a sezioni, a intervalli.

F.D.M.
Isella, leggendo Contini si ha sempre l'impressione che l'attività filologica in lui abbia un forte coefficiente etico: che cosa significava incontrare Contini a Friburgo mentre l'Europa era distrutta dalla guerra?

Isella
Mi sembra una domanda fondamentale, nel senso che per me avere potuto seguire quei corsi aveva significato l'apertura su una funzione della cultura diversa da quella che avevo potuto in qualche modo fare mia durante i primi anni di università a Milano. Contini, in un momento in cui il mondo era a soqquadro, introduceva un senso di assoluto rigore, di una moralità nel lavoro - anche nella vita, ovviamente, ma nel lavoro -, che poteva essere veramente il modello per una rigenerazione della nostra società così approssimativa e pressappochista. Direi che è stata proprio quella la lezione di moralità.

F.D.M.
Cioè, lei sentiva un legame tra gli antichi testi francesi e l'urgenza storico-politica.

Isella
Assoluto! Nel senso che il soffermarsi come si faceva nel seminario del mercoledì, per esempio su un testo di Peire Cardenal ecc.e il valutarne via via le diverse lezioni eccetera, era di un tale rigore, di una tale raffinatezza, sottigliezza. Cioè, non c'era margine assolutamente per il pressappochismo, ecco. Ed era questo rigore di cui la nostra generazione aveva bisogno. Aveva bisogno di sentire che c'era la possibilità di una società fondata anziché su dei falsi valori, su dei valori autentici.

R.A.
Senza dimenticare il Contini resistente del Foglio della Valdossola.

Isella
Beh. lì noi ci precipitavamo il giovedì a comperare «Il dovere», che usciva a Bellinzona dalla tipografia Salvioni, un giornale che ospitava una pagina, diciamo, politico-letteraria, a cui Contini collaborava ogni settimana. E quindi precipitarsi per leggere quello che scriveva lui, o quello che scrivevano anche altri collaboratori, per esempio Alfredo Puerari, che era chef des études al nostro campo, cremonese e professore di storia dell'arte, oppure Guglielmo Alberti, grande letterato e studioso che era internato civile e viveva all'Hotel Suisse... Precipitarci a leggere quello che pubblicavano, e avere evidentemente un continuo sostegno anche politico (Contini allora era nel Partito d'Azione), e avere appunto il senso che il nostro studio era in stretta coerenza con idee che potevano anche conquistarci, proprio al progetto di una ricostruzione del nostro Paese al nostro ritorno. Era qualcosa di affascinante.

F.D.M.
Per chiudere su Contini: l'educazione filologica entra, oppure no, nella prosa critica e saggistica di Dante Isella?

Isella
Le due qualità che mirerei a raggiungere e a mostrare nel mio scrivere sono, da un lato, la chiarezza assoluta, cioè la razionalità, e dall'altro una certa leggerezza di eleganza: uno scrivere che sia già in se stesso il prodotto di una scelta stilistica. Ecco, questo è quanto io cerco di fare. E mi sembra giusto dire, come ha osservato Giovanni Agosti, che la vicinanza così preminente di Contini non ha influito sul mio stile come invece ha influito su altri, e neppure la mia passione per Gadda o per Dossi. Loro mi hanno insegnato che scrivere significa avere una consapevolezza, questo sì, ma non dei modelli da seguire pedissequamente.

R.A.
Adesso professor Isella rompiamo il riserbo e parliamo un po' della sua vita privata: la famiglia, l'infanzia.

Isella
Io ho avuto una famiglia meravigliosa, lo posso dire senza nessuna enfasi. Mia madre era vedova di un primo matrimonio: il marito era morto nel 1917, all'assalto del Montenero, lei era poco più che ventiduenne, con tre figli superstiti su quattro. Era una donna di grande intelligenza e di attività assolutamente infaticabile. E mio padre era a sua volta vedovo di un primo matrimonio. La moglie era morta nel mettere al mondo l'unico figlio suo che si chiamava Angelo... I due vedovi si unirono e procrearono una femmina - mia sorella Lidia, che divenne studiosa di lingue straniere, e si era laureata su Walser - e poi me. La nostra era una tavolata in genere con dieci persone, i sei suddetti più i due genitori fa otto, una persona costantemente a tavola in due giorni della settimana, che era originaria di Mirandola, la signora Zelmira Galavotti, la quale non voleva che le si cambiasse il piatto perché diceva che quello pulito sapeva di liscivia mentre quell'altro sapeva di buono, e così via. E poi avevamo anche, qualche volta, ospite il ciechìn. Il ciechìn era un piccolo cieco che attendeva alla riparazione di finimenti di cavalli.

F.D.M.
Questo fa molto Ceruti.

Isella
Mio padre aveva allora, insieme con due fratelli, un'azienda di trasporti che era soprattutto a base di cavalli, trentadue ne avevamo nelle scuderie.

F.D.M.
I paesaggi del varesotto: si dice così, no?

Isella
Eh sì, come no!... È un paesaggio che si imprime dentro di noi. Anche con il carissimo amico, padre Giovanni Pozzi, ci sentivamo appartenenti alla stessa terra. Lui al di là del lago - il lago Maggiore, ovviamente - io al di qua. E direi che c'è anche Contini, in fondo intravvedevamo una possibilità di congiungimento attraverso il lago Maggiore. Perché, quando andavo a trovarlo, dopo la guerra, percorrevo appunto la strada che si insinua, dopo un certo punto del lago Maggiore, nel cosiddetto lago di Mergozzo, che era una specie di insinuamento del Maggiore, e da lì si arriva poi in Valdossola. Quindi è tutta una zona che in qualche modo ci legava, anche nella bellezza dei paesaggi, nell'attrazione di questi luoghi. Tanto è vero che io poi, quando uscii da una esperienza molto lunga e anche molto impegnativa di lavoro nell'azienda di mio padre, dove io rimasi per quattordici anni, pensai di andare a vivere dove vivo ancora oggi, in questa quiete meravigliosa di alberi e di laghi che è la località dove sto, e che è Casciago, «Casciac» nella fonetica.

F.D.M.
Che è in vista dei laghi, per l'appunto.

Isella
È in vista innanzitutto di tutte le Alpi: si vede il gruppo centrale svizzero, il Monte Rosa, che è esattamente di fronte alla finestra della mia camera, e, verso est, si arriva fino a vedere il Monviso nelle giornate terse e naturalmente di buona visibilità. E poi questi laghi. È una specie di lake district:il lago di Varese, il lago di Comabbio, poi il lago Maggiore spezzato in due pezzi ecc., quindi è una serie di «catinelle», come direbbe appunto Gadda, che parla di catinelle azzurre che si insinuano nel verde intenso di un paesaggio, spesso ahimè piovoso, e quindi con i verdi che sono verdi cupi, non verdi scoloriti.

R.A.
Nel dossier «imprese di famiglia» ho letto di un episodio curioso legato al lancio della Fiat Seicento.

Isella
Eh sì, questo però appartiene a un altro momento della mia esistenza...In quella famiglia che ho cercato di descrivere prima, un fratello in particolare si segnalava oltre che per essere un grande coureur de femmes, anche per essere un grande corridore, un corridore - diciamo così - in senso veramente agonistico, di partecipazione: Bruno Martignoni, figlio del primo matrimonio di mia madre. Abbiamo pubblicato (dico «abbiamo» perché ho concorso anch'io a questa edizione) un libro sulla sua vita di motorista, diciamo, intitolato Martignoni l'africano. Quando uscì la Seicento, Bruno andò da Valletta e gli propose di fare un lancio pubblicitario di questa automobile nuova con un raid Calcutta-Roma in dieci giorni. La proposta fu accolta e mio fratello andò prima a fare un viaggio di esplorazione fino a Calcutta, poi con un'altra coppia di amici (in due su ogni macchina: due macchine) fece il viaggio da Calcutta verso Roma. Mi giunse un telegramma: «urge giunto di trasmissione, prego portarmelo a Belgrado». E quindi io andai allora con l'automobile a Belgrado, mi presentai al mattino della giornata in cui doveva arrivare la rappresentanza della Fiat in Jugoslavia.

R.A.
Era la Jugoslavia di Tito.

Isella
Sì, e quando arrivai si dovette rimanere a lungo fermi perché c'era non so quale autorità russa che stava arrivando in aereo. Il giorno dopo mi presentai per sapere se avessero notizie di mio fratello. «A noi risulta che dovrebbe arrivare questa sera», dissero. Allora la cosiddetta autostrada costruita dagli studenti arrivava con l'asfalto fino a Belgrado. Sotto Belgrado era sterrata, non c'era altra strada, si poteva scendere di lì incontro al fratello che arrivava da Calcutta, evidentemente. Mi fermai in un villaggio in cui sembrava di toccare veramente le Colonne di Ercole, di uscire dalla civiltà verso un mondo che ormai era fatto così di piccoli lavori: c'era un semicieco che girava una mola su cui affilava una falce, c'era un piccolo negozietto con delle scarpine appese che sembravano dei salami (ne comperai un paio per mia figlia) eccetera. E in quel momento l'orizzonte - che era un orizzonte di tramonto, insanguinato, veramente - si anima anche di un grande turbine di polvere che si alza: mio fratello che arrivava da Calcutta!

R.A.
Una specie di Nuvolari!

Isella
Esattamente. Quando lo raggiunsi mi disse: «no, no, tiene, tiene.». Il giunto ‘teneva'.

F.D.M.
Per cui il suo viaggio era stato inutile.

Isella
Però era stato molto bello, molto divertente. E quindi lui partì, e all'indomani era a Roma. Erano undicimila e tanti chilometri percorsi in dieci giorni, quindi un'impresa non da poco, ecco.

F.D.M.
Il lavoro nell'azienda di suo padre come si conciliava con la passione filologica?

Isella
Beh, questa domanda mi riporta ai crucci dei quattordici anni. Nel senso che in me era viva naturalmente la passione che poi mi ha accompagnato in tutta la mia attività. Caduta la possibilità di un tutto ipotetico trasferimento in America (Contini mi disse appunto che Singleton cercava un assistente - probabilità che poi si è dissolta in nulla perché fu favorito un italo-americano), io mi sentii in dovere di aiutare mio padre: lo sentivo anziano, lo sentivo uomo che aveva lavorato da quando aveva dieci anni in avanti, a formarsi una piccola fortuna, e quindi entrai nella sua azienda. Papà poi muore nel '54, e io nel '55 feci la libera docenza (allora la libera docenza era a numero chiuso, erano tre posti, ne furono assegnati soltanto due, uno a Spagnoletti, il primo a me). E, a quel momento, io pensai che fosse finita la mia possibilità di attendere agli studi, perché questa era un'azienda di dimensioni non enormi, ma abbastanza vasta: regionale, non locale.

F.D.M.
Era un'azienda di trasporti, no?

Isella
Un'azienda di trasporti che ormai non era più a base di cavalli, ma era diventata a base di camion. E questi camion erano camion che uscendo dalla nostra sede di lavoro erano ormai dei catorci, perché quelli buoni ce li avevano tutti requisiti durante la guerra, e ogni catorcio che usciva voleva dire poi dover accorrere in soccorso.

R.A.
Altro che giunto di Belgrado!

Isella
Altro che giunto, sì!... E quindi ho fatto un patto con mio padre, patto sempre mantenuto ma che spesso veniva - diremo - violato dalle necessità. Io andavo in azienda alle sei del mattino e stavo fino a mezzogiorno. Nel pomeriggio andavo a Milano, e venivo al Castello Sforzesco dove lavoravo proprio allora al Porta. Questo andò avanti bene fino al '54, anno della morte di mio padre. Dopodiché mi trovai ad essere io a dirigere questa azienda, anche perché ci eravamo separati da uno zio, ce n'era ancora uno, ma era il più passivo. E quindi è stato il mio sforzo di cercare di, innanzitutto, mantenere l'azienda, naturalmente in uno stato di efficienza, e poi nello stesso tempo di trovare qualcuno, nell'ambito famigliare (e questo mi sembrava un requisito sine qua non), a cui poter passare diciamo il fiammifero acceso.

F.D.M.
Si ha l'impressione di un'etica del lavoro a prescindere dall'oggetto. Un po' protestante, forse...

Isella
Eh forse anche, un poco. L'impronta un po' asburgica della Lombardia allora si sentiva molto di più. Milano io la ricordo una città molto più nordica. Era la città di Tessa, la città degli anni trenta, che è una città dura, molto più vicino a una certa Berlino degli espressionisti. Poi l'elemento meridionale che si è inserito, che naturalmente ha aumentato il numero della popolazione, ha addolcito un poco questa durezza. Quindi è una Milano diversa da quella che potevamo ricordare allora. E questo sentimento un po' severo della vita ci accompagnava fin dagli anni più giovani.

R.A.
A un certo punto lei aveva aperto anche una libreria con suo cognato.

Isella
Sì, subito dopo la guerra, mio cognato - che poi è stato ed è ancora notaio, diciamo così, molto noto nella città - e io, che ancora non ero né carne né pesce - perché ero filologo e nello stesso tempo trasportatore -, ecco, aprimmo questa libreria intitolata «Il Portico», in una bellissima casa del Settecento a Varese. C'era un'impiegata che la gestiva, e la sera invece ci trovavamo lì. È stata il punto di partenza di tutta una serie di iniziative, dalla fondazione di un circolo del cinema che è durato per moltissimi anni, a spettacoli teatrali. Facemmo venire la compagnia di Enzo Ferrieri per uno spettacolo di Saroyan. Istituimmo due premi di scultura, scultura all'aperto, ovvero scultura non da soprammobile, ma ambientata, e poi un grande panorama della scultura europea (ingle-se,francese,ecc.) a cominciare da Renoir, scendendo fino a Giacometti, che allora non era conosciuto da noi e credo neanche molto altrove. Queste esperienze sono state legate anche a un giornaletto intitolato «Provincia» di cui uscì solo un numero, perché non avevamo più i soldi: ospitava scritti di persone del tutto sconosciute, tranne uno scritto di Vittorio Sereni intitolato Vultus Domini, volto di Dio. Sereni aveva appena pubblicato, nel '47, il Diario d'Algeria. Gli altri erano tutti sconosciuti. Questi sconosciuti erano: Silvio d'Arco Avalle (che è stato poi mio grandissimo amico, e, non occorre dirlo, è certamente uno dei più grandi filologi del Novecento), e poi Guido Morselli, Piero Chiara, e ancora poi alcuni amici come Luigi Ambrosoli, il cognato Bortoluzzi ecc. Insomma, un piccolo giornaletto di provincia dove questi nomi si sono trovati per la prima volta a essere insieme.

R.A.
In quella specie di salotto di spiriti in erba c'era anche Panza di Biumo, il conte che sarebbe diventato famoso collezionista, no?...

Isella
Certo, veniva alla nostra libreria. Entrava silenziosissimo, come ancora oggi...

R.A.
Felpato.

Isella
Felpato. Credo che stesse facendo una tesi in filosofia, e naturalmente era attirato dalla nostra libreria, che era molto bella. Era stata fatta da un amico architetto, quindi aveva un suo fascino anche - diremmo così - di arredamento, e fu il centro, anche, di una serie di mostre. Piccole mostre di disegni, naturalmente, perché non avevamo gli spazi per fare altro, Cassinari, Morlotti, Guttuso ecc., artisti che erano in parte - alcuni, altri lo sono diventati - miei carissimi amici.

R.A.
Soprattutto Guttuso e Morlotti, no?

Isella
Beh, con Morlotti fu subito nel dopoguerra: l'incontro attraverso un amico comune, lo scultore Vittorio Tavernari. Morlotti frequentava allora Varese, io ebbi modo di conoscerlo, e nacque un'amicizia che è durata nel tempo. A Morlotti ho dedicato qualche pagina, naturalmente da dilettante di pittura. Guttuso invece è stato un episodio molto importante della mia esistenza. Venne a Varese in anni in cui ancora ero «trasportatore» e mio padre mi disse che c'era un pittore, che mi conosceva di nome, forse qualcosa aveva letto di mio, che aveva da spedire dei mobili a Roma. Raggiunsi Velate, la località dove Guttuso venne poi a vivere, e mi trovai di fronte a uno dei personaggi più noti del dopoguerra italiano, con la moglie Mimise - carissima amica veramente -, che avevano da spedire due mobili molto belli di una villa che Mimise aveva ereditato da una zia. La villa era stata abitata durante la guerra da fascisti saliti da Firenze verso il nord, che avevano persino divelto le assicelle dei parquet per riscaldarsi. Il proposito di Guttuso era di vendere la villa e di portarsi questi pochi mobili. Mi disse che mi avrebbe spedito tutto il necessario di indirizzi e di norme con cui spedirglieli, e così ci lasciammo. Arrivò una lettera di Guttuso, che mi disse che non vendevano più la villa, e difatti a cominciare dal '56 io cominciai a frequentare Renato. Dico Renato perché è stata una carissima amicizia che è durata, naturalmente, fino alla sua scomparsa: prima di Mimise e poi sua. Ed è in quel periodo che ho conosciuto, si può dire appunto attraverso il centro di Velate - la casa di Guttuso -, molta parte del mondo intellettuale che faceva capo appunto a un pittore che allora era meno noto, forse, di quanto è diventato poi, ma che era anche lui un esempio di probità nel lavoro. Cominciava al mattino alle otto, qualunque fosse stata la serata (spesso le serate confinavano con le ore piccole della notte), ma lui alle otto era immancabilmente al suo tavolo, con la sigaretta già in bocca e con la matita nell'altra mano per disegnare. E disegnava continuamente durante la giornata, salvo i giorni in cui dipingeva. E questo ha consentito a me di salire a casa sua quasi tutti i giorni, o molto frequentemente, e di avere con lui un dialogo continuo. Guttuso, allora, era un uomo di grandi letture e quindi al corrente di quello che usciva, e del resto scriveva lui stesso su giornali e riviste.

F.D.M.
Ma questo innesto in Lombardia di Guttuso non suona un po' antifrastico? In fondo non c'è pittore meno lombardo di Guttuso.

Isella
Ha ragione, anzi questo mi dà modo di dire come nel '58 Raffaele Mattioli.

R.A.
...il grande patron della «Ric-ciardiana»...

Isella
...non solo della «Ricciardiana», ma della cultura italiana! Quando mancò Mattioli, Contini disse che era finita un'epoca, e sembrava una cosa esagerata. Invece no, effettivamente è stato così. Raffaele Mattioli non era soltanto quel grande uomo di banca che tutti sappiamo. Era un economista ma era soprattutto anche un grande umanista. Accettò, appunto, l'idea di una edizione di Porta commentata da me. E l'edizione fu bellissima, pubblicata da Mardersteig: credo che vinse anche il compasso d'oro per la grafica. Ed io, alla domanda di Mattioli su chi potesse illustrarla, risposi: Guttuso. «Eh, ma no!... Guttuso non può illustrare il Porta!». Io dissi Guttuso perché nei miei incontri con Renato lui voleva che gli leggessi dei testi di Porta di cui era entusiasta. E sia pure con quella alterazione che non poteva non esserci nella sua pronuncia, sapeva a memoria degli interi pezzi di Porta. Sicché la proposta di Guttuso non era campata per aria, era la proposta di un conoscitore vero della poesia di Porta. Alla fine Mattioli si rassegnò all'idea di Guttuso, col quale non aveva avuto mai rapporti. Sono stato io, in un certo senso, l'intermediario della loro amicizia successiva. Renato, allora, per l'illustrazione di Porta fece circa 110-115 disegni, per sceglierne poi sedici (che sono le tavole entrate nell'edizione). E andammo da Mattioli, nel suo ufficio in piazza della Scala, e lì Renato, che sudava dall'emozione, si era messo l'abito bello.

R.A.
In ghingheri.

Isella
In ghingheri, col fazzolettino eccetera, e lì squadernò sul tappeto dello studio tutti questi disegni meravigliosi. Erano veramente bellissimi e se ne scelsero sedici per quella edizione.

F.D.M.
Ci dica qualcosa invece delle sue passioni figurative per la pittura lombarda più antica, come collezionista quanto meno; e dell'eventuale incrocio in questo senso con Giovanni Testori.

Isella
Testori lo conobbi in occasione del processo dell'Arialda, quando veniva imputato a lui di avere pubblicato un'opera piena di parole, diciamo, sconvenienti. C'era una perizia di parte di Antonio Baldini, e in questo elenco di parole riprovevoli c'era persino «cretinetti», che è una parola che non mi sembra meritasse censure.

F.D.M.
È la parola di Franca Valeri.

Isella
Esattamente. E allora io feci questa perizia dimostrando che erano tutte parole che potevano essere ascoltate da qualunque orecchio, anche il più prude che esistesse. Testori per riconoscenza mi regalò un piccolo disegno di Pianca, un pittore valsesiano del Settecento. E da lì è cominciata anche con lui un'amicizia che è stata alimentata da mie visite, quando io andavo in via Brera al numero 8 dove lui aveva lo studio. E parlavo, conversavo con lui appunto di questi comuni interessi per la pittura. Acquistai da lui anche un bel quadro di Gherardini, che è il genero di Cerano, un quadro con Santa Irene che cura San Sebastiano, e poi anche altre piccole cose. Comunque abbiamo poi insieme fondato il teatro Franco Parenti, insieme con Franco Parenti stesso, la Shammah, Testori ed io, andammo da un notaio e si fondò il teatro che allora si chiamava Teatro Pierlombardo, e che dopo, alla morte di Parenti, prese il nome di teatro Parenti.

R.A.
Oltre a Guttuso, lei incontrava Montale e Sereni nel salotto domenicale di casa Bellora...

Isella
Quello fu un momento straordinario nel dopoguerra, negli anni appunto in cui Guttuso venne a Varese, costituito dal fatto che ci fosse un luogo d'incontro come la casa di Velate di Renato; che ci fosse la casa di Giovanni Pirelli - carissimo amico che aveva vissuto prima a Roma e poi in Val d'Aosta, ed era venuto a vivere in città, e la sua casa divenne presto un luogo d'incontro: da lui conobbi per la prima volta Muscetta, così come Fortini e i giovani dei «Quaderni piacentini», il musicista Nono eccetera. Era un luogo, anche quello, di grandi frequentazioni, di un tipo diverso da quello della casa di Renato, direi orientate in modo più politico, ma comunque culturalmente vasto. E poi, terzo centro, quello che lei ha voluto ricordare, che era la casa di due amici, Rachele e Dino Bellora, che avevano prima vissuto a Gallarate, in una bella casa di alta borghesia, e che poi avevano costruito proprio sotto la casa mia di Casciago una loro villa, dove alla domenica era non infrequente l'incontro di quello che era il meglio della Milano culturale del tempo: Montale, col quale si poteva conversare, magari stando in un angolo, di cose che potevano interessare la poesia, oppure Vittorio Sereni, o la signora Pao, per esempio, di cui si ammirava la bellezza, la lunga chioma di capelli, quando scioglieva la crocchia, e le scendevano questi capelli fino alle caviglie.

R.A.
E Montale?

Isella
Ah, lui era sempre così naturalmente in un angolo.

R.A.
Guatava?

Isella
Sì, sì, però con me era sempre molto cordiale. Tanto è vero che poi mi sono occupato, come forse si sa, della sua opera.

F.D.M.
Professor Isella, in conclusione: il suo impegno critico verso la letteratura contemporanea - Vittorini, Fenoglio, abbiamo detto Montale, Sereni - lo si può intendere in quel senso militante che indicava Contini?

Isella
Sono perfettamente d'accordo nell'interpretazione di questo interesse, che mi sembra indispensabile. Visitare il passato significa visitarlo con gli occhi di una persona che vive nel suo presente: avere in casa dei quadri che vanno da Andrea Solario a Cerano, a Morazzone, Pianca e giù giù, significa aver prima amato la pittura di Morlotti, la pittura di Guttuso, la pittura di altri artisti a me cari del Novecento, come Italo Valenti per esempio, o Franco Francese... Nutrirsi di quello che è il senso vero della ricerca attuale è la chiave fondamentale per avvicinare anche il passato in una maniera non archeologica, ma con intensa partecipazione. Come per i quadri, così per la letteratura non mi sono soltanto voluto occupare del passato, ma ho inteso dedicare molta parte del mio lavoro anche agli scrittori del Novecento. Tessa per esempio, che è sì nel filone della cultura lombarda, ma che è anche la più grande espressione di questa cultura nel campo dialettale, all'altezza degli anni trenta, del 1930. Un altro autore che ho molto frequentato è Montale, sia per Le occasioni, sia per Finisterre, di cui ho procurato una edizione commentata, ma anche altri scrittori, Vittorio Sereni, carissimo amico, e Fenoglio.

F.D.M.
Ecco, Sereni mi sembra una bella chiusa per il nostro pomeriggio.

Isella
Sereni è stato un incontro casuale. Io tornavo da un premio «libera stampa» a Campione d'Italia. Avevo allora sempre delle automobili piuttosto belle e veloci, anzi Dionisotti diceva che Isella aveva «il cocchio veloce», e mi trovai fermo al distributore di benzina di Mendrisio. In quel momento arrivava un'automobile che aveva come suoi passeggeri Elio Vittorini e Vittorio Sereni. Io dissi a Sereni: «non ci siamo mai visti, ma ci conosciamo», e lui ha scritto poi una poesia intitolata Al distributore, che è l'inizio di una carissima amicizia. Al distributore, sottinteso di Mendrisio.

R.A.
Dove Merckx vinse il Campionato del mondo davanti a Gimondi.

Isella
Esattamente. Beh, la passione per il ciclismo è una passione che ho avuto fin dalla tenerissima età. C'è un mio racconto (uno dei pochi racconti miei) intitolato La ciambella di gomma, che è proprio il racconto di Raffaele Di Paco, grande corridore di quegli anni, che si ferma, ritirandosi dal Giro di Lombardia, proprio nella strada davanti a casa nostra.

Alias – Il manifesto, 2 settembre 2012

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