La visita di Philip Roth
a Torino a Primo Levi, nell’ottobre del 1986, fu certamente uno
degli ultimi momenti felici nella vita di Primo, che di lì a pochi
mesi, nel 1987, si sarebbe ucciso. E rappresentò inoltre una sua
rilevante consacrazione internazionale, grazie all’intervista che
lo scrittore americano gli fece e poi pubblicò in tre puntate sul
“New York Times”, ripresa quindi da “La Stampa”. Ma anche per
Roth, credo, fu un incontro di notevole importanza. In quel periodo
stava vivendo una sorta di crisi creativa; la visita a Levi, che lui
considerava un genio della letteratura, coincise un po’ con
l’inizio della sua seconda e formidabile stagione letteraria”.
ERNESTO FERRERO,
80 anni, romanziere, saggista e a lungo direttore del Salone del
Libro torinese, ricorda con commozione quell’incontro con i due
mostri sacri, peraltro entrambi ebrei, della scena letteraria del
Novecento, anche perché ne fu l’organizzatore e il Virgilio
subalpino. Due attese emozioni, però, precedettero in Ferrerò
l’arrivo dell’autore di Pastorale americana: la conoscenza
fra Roth e Levi, certamente, ma pure il pensiero di “vedere da
vicino Claire Bloom, la seconda moglie dello scrittore statunitense,
che avevo amato alla follia per la sua interpretazione della
ballerina Teresa in Luci della ribalta di Charlie Chaplin”.
Invece, racconta Ferrero, “provai una enorme delusione quando la
incontrai: davanti a me non c’era la meravigliosa attrice che aveva
interpretato Teresa, bensì una normale donna americana di una certa
età, anche se l’età c’entra poco: una qualunque, insomma, che
parlava poco e che sembrava la segretaria aziendale di un manager,
una che aveva accompagnato il capo nel viaggio in Italia”.
Eppure era stata proprio
lei, la Bloom, a far leggere Levi a suo marito. “Sì, è
verissimo”, continua Ferrerò, “fu lei a dirgli di leggere La
tregua, che aveva finito da poco e che le era piaciuto molto.
Piacque moltissimo anche a Roth, al punto di volere incontrare di
persona l’autore”.
Roth arrivò a Torino in
autunno, “volle vedere tutto ciò che aveva a che fare con Primo:
dalla sua casa di corso Re Umberto fino alla fabbrica di vernici di
Settimo Torinese, la Siva, in cui Levi aveva lavorato per tanti anni
come chimico. E questa doppia personalità, il letterato e il
chimico, oltre naturalmente alla terribile esperienza del lager
nazista, fu quello che impressionò di più Roth. Di Levi lo colpì
il fatto che avesse un radicamento forte nella realtà, nel mondo del
lavoro. E gli diceva: “Io conosco invece solo il mondo
dell’Università, sono solo un professore”. Un incontro, il loro,
in sostanza, che servì a Roth per sbloccarsi a livello letterario, e
che per Levi significò qualche momento di vita ancora fuori dal
disagio che lo avrebbe portato alla morte”. La visita di Roth, dice
ancora Ernesto Ferrerò, “fu davvero l’ultima grande
soddisfazione della vita di Primo. Lui lo portò a vedere la sua
fabbrica di Settimo e gli aprì le porte di casa sua. Accompagnato
dalla silenziosa Claire Bloom, Roth era davvero entusiasta del suo
nuovo amico torinese. Avrebbe poi descritto con tenerezza lo studio
di corso Re Umberto, arredato con la semplicità degli anni
Cinquanta, con il vecchio divano a fiori, una sedia bella comoda, la
scrivania con il Macintosh coperto da un panno come la gabbia di un
canarino, i dizionari sugli scaffali della libreria, le sculture
giocattolo che Primo aveva modellato con dei fili di rame poi
verniciati nel suo laboratorio”
E RAMMENTANDO
quelle ore torinesi, un pranzo al ristorante del Cambio, dove andava
Giacomo Casanova, le conversazioni sulle leggi razziali, sul lager,
sul mondo, Roth definirà Primo “un genio della letteratura”.
Come ha scritto lo stesso Ferrero, tempo fa, in virtù pure di Roth
“la crescente fama planetaria di Primo tornerà a passare per
l’America, come già negli anni 80, quando Saul Bellow s’era
incantato per Il sistema periodico. “Negli Stati Uniti
sarebbe uscita l’edizione delle opere complete presso Norton
Liveright. La prima impresa del genere”, aveva commentato Ferrero,
“dedicata a un autore italiano”, che contribuì “a restituire
al prigioniero n. 174517 il posto che gli spetta anche fuori
d’Italia”.
Il Fatto quotidiano, 24 maggio 2018
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