«Fotografare un dolce
può essere una forma d’arte», diceva Irving Penn. Nella foto
After Dinner Games (“giochi da dopocena”), il cavallo
degli scacchi, i dadi e le carte intorno alla tazzina da caffè
diventano una natura morta. Quello scatto non ha nulla da invidiare a
una tela di Picasso. E non a caso si parla di lui visto che Irving
Penn lo immortalò nel 1957, a Cannes, nella sua villa La Californie.
I due erano
amici. Il ritratto in bianco e nero del pittore spagnolo
fa parte della retrospettiva allestita al Metropolitan Museum di New
York. Si intitola Irving Penn: Centennial e celebra il
centenario della nascita del maestro americano (1917- 2009). Sarà
aperta dal 24 aprile al 30 luglio per poi approdare a Parigi al Grand
Palais (da settembre di quest’anno a gennaio 2018) e
successivamente in Brasile a San Paolo.
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Il motivo
dell’esposizione non è solo anagrafico. Il curatore, responsabile
del dipartimento di fotografia del Met, Jeff L. Rosenheim, ha messo
in luce la recente donazione di centocinquanta immagini da parte
della Irving Penn Foundation. In mostra ne sono esposte circa
duecento. Il Metropolitan, già dal 1959, ha cominciato a raccogliere
gli scatti di Irving Penn anche grazie all’impegno di Maria Morris
Hambourg che racconta, in un testo del catalogo, diversi aneddoti sul
fotografo. L’esposizione ripercorre la carriera di questo
poliedrico artista che, con i suoi clic, svela un’epoca e un mondo.
Non solo quello patinato della moda e delle campagne pubblicitarie.
In mostra anche immagini etnografiche come quelle dei quechua di
Cuzco, in Perù: una popolazione che, pur appartenendo a diversi
gruppi etnici, ha in comune la stessa lingua, il quechua per
l’appunto. Penn, da sempre attratto dall’esotismo, li andò a
cercare alla fine degli anni Quaranta. Tempo dopo, negli anni
Settanta, si recò anche in Benin, Nuova Guinea e Marocco per
raccontare, attraversare le immagini, usi e costumi di varie tribù.
Audrey Hepburn |
Colpisce la meticolosità
di Penn qualunque fosse il soggetto. E la varietà. Gli occhi del
visitatore si accendono di curiosità davanti ai personaggi famosi.
In particolare Truman Capote, Peter Ustinov, Spencer Tracy, Jean
Cocteau, Colette, Francis Bacon, Audrey Hepburn. Chiuse la bocca a
Marlene Dietrich, che pretendeva di dirgli come posizionare le luci:
«Tu, per favore, fai la Dietrich, io il fotografo». Impiegava in
media tre ore per realizzare un ritratto. Tra gli stilisti immortalò
anche Elsa Schiaparelli (1948), un giovanissimo Yves Saint Laurent (a
Parigi nel 1957) e Gianni Versace all’apice della carriera (a New
York nel 1987). Splendide anche le modelle avvolte negli abiti di
Christian Dior, Cristobal Balenciaga, Christian Lacroix e Issey
Miyake.
Spicca la bionda indossatrice svedese, conosciuta nel 1947 su
un set fotografico e diventata sua moglie: si chiamava Lisa
Fonssagrives (scomparsa nel 1992); la sua foto in un abito lungo di
Rochas a sirena è un’icona della fotografia di moda mondiale e fu
scattata a Parigi nel 1950. Gli diede un figlio, Tom. Ricordando la
famiglia, va ricordato il fratello minore, Arthur, regista e
produttore (tra i suoi film più noti, Gangster Story con
Warren Beatty e Faye Dunaway e Il piccolo grande uomo con
Dustin Hoffman).
Tornando a Irving, va
detto che, pur avendo lavorato da Vogue, era capace anche di
raccontare il popolo. Ecco allora i pasticceri di Parigi, i macellai
di Londra, i trasportatori e i pescivendoli. Poteva passare dal
racconto della vita quotidiana all’estetica pura. Prova ne sono gli
still life di fiori con i papaveri in movimento, le prove
sulle sigarette degli anni Settanta, ma anche gli artistici nudi
realizzati nel biennio ’49-’50.
Nato nel 1917 a
Plainfield, New Jersey, da una famiglia ebrea russa, studiò a
Filadelfia a quella che oggi si chiama University of the Arts. Scelse
prima la pittura ma si rese conto, a un certo punto, di non essere
così portato. Si specializzò, negli anni universitari, in disegno
pubblicitario con Alexey Brodovitch, allora caporedattore di Harper’s
Bazaar, che gli pubblicò diversi bozzetti. Per un periodo lavorò
nel grande magazzino Saks Fifth Avenue occupandosi di art direction e
pubblicità: fu il primo approccio con il mondo della moda. Poi, in
pieno conflitto mondiale, partì per un viaggio attraverso gli Stati
Uniti e il Messico, stabilendosi per un periodo a Coyoacàn. Il
Messico era, a quel tempo, terra di artisti e fotografi come Tina
Modotti ed Henri Cartier-Bresson, per non parlare di Diego Rivera e
Frida Kahlo. Piacque anche a tutta la cricca dei surrealisti di André
Breton.
Al rientro dal Messico,
nel 1943, distrusse i dipinti che aveva fatto, ma non le foto: anzi,
le fece vedere all’art director di Vogue America, Alexander
Liberman, che dopo una rapida occhiata capì subito che il ragazzo
aveva occhio e talento; gli propose, quindi, di entrare a far parte
del magazine.
Da allora, Irving Penn ha sempre pubblicato copertine e
servizi fotografici per questa rivista, sperimentando quanto più
poteva. La moda come gioco, esaltazione, esercizio di stile. Studiava
la piega di ogni abito di alta moda, e in particolare amava quelli di
Cristobal Balenciaga che considerava sculture di stoffe. Se si vuole
parlare d’arte e delle fonti di ispirazione, le donne immortalate
con questi abiti ricordano quelle di pittori come Giovanni Boldini,
John Singer Sargent e Franz Xaver Winterhalter. Bellezza e dramma.
Penn ha anche conosciuto
la guerra da vicino: verso la fine del conflitto scattò le foto e
guidò le ambulanze per l’American Field Service in Italia, a
Napoli e nei dintorni, e percorse parte dell’ex Jugoslavia.
Il fotografo statunitense
ha sempre alternato soggetti forti a situazioni più frivole e ben
remunerate. A partire dagli anni Cinquanta si lanciò nelle campagne
pubblicitarie: tra i clienti, General Foods, De Beers e le grandi
case di cosmetica come Clinique e L’Oréal. In mostra è presente
la magnifica bocca piena di rossetti realizzata nel 1986, una foto
attualissima.
Truman Capote |
Ci sono aspetti di grande
modernità nel modo di fotografare di Penn. Ad esempio fu tra i primi
a epurare, cioè a scegliere semplici fondali bianchi o grigi per far
risaltare il soggetto, che spesso posizionava davanti a due fondali
disposti ad angolo: lo fece con Georgia O’Keeffe, Martha Graham,
Marcel Duchamp e Igor Stravinskij. Inoltre, è stato uno
sperimentatore anche nel modo di stampare utilizzando varie tecniche.
Durante la mostra ci sono
in programma anche alcuni incontri pubblici: uno dei più
interessanti, per chi capita a New York il 25 aprile, è quello con
con Leonard Lauder, l’ex presidente della Estée Lauder. Il magnate
dei cosmetici racconterà il rapporto di amicizia e lavoro con il
fotografo; per assistere alla conferenza si pagherà un biglietto di
45 dollari, un modo per aiutare il Metropolitan. Il museo fu molto
amato da Irving Penn, che morì otto anni fa, ultranovantenne, a
pochi isolati da qui.
Pagina 99, 21 aprile 2017
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