Risale a più di 35 anni
l'articolo qui postato, quando – sia pure per vezzo – Defoe si
scriveva anche De Foe e Franco Miracco scriveva ancora sul
“manifesto” non solo di belle arti, ma anche di letteratura e di
cucina. (S.L.L.)
Daniel Defoe ( o De Foe) |
Ho iniziato a leggerlo in
treno e ad un certo momento, sotto le prime cento pagine, all’altezza
di un prato dove pascolavano i bufali, di scatto mi sono sentito
mentre controllavo se il mio portafoglio fosse ancora al suo posto.
Sì, Le avventure del colonnello Jack ovvero The history of
the life and adventures of colonel Jack di Daniel De Foe si
aprono con una turbine di portafogli rubati, di sconvenienti passaggi
di mano, di cacce ostinate e di fughe selvagge; insomma, di tutto il
necessario per un veleggiare disonesto verso cambiali di oreficeria,
assicurazioni, gioielli, sterline. Fin da subito, cioè
dall’infanzia, il motivo dominante, vera categoria del propagarsi
del furto, è il furto — la difesa del furto — il successo o lo
scacco, e in questo caso: tortura, forca, oppure prigione e
schiavitù. L’erudizione di questo universale e pietrificato «stare
insieme» di gentiluomini e ladri, di mercanti e pirati, si muove
lentamente ma inesorabilmente lungo un bipolarismo economico
provveduto soltanto dal denaro, dalla moneta in quanto tale, che si
ha o non si ha, e l’accentuazione degli stati d’animo o delle
delicatezze psicologiche, compresi i pentimenti, non appartengono che
a quell'incessante dondolio monetario: da me a te e viceversa.
E questo fiume di denaro,
di sterline, di scellini, scorre passando alla «nostra avventura
successiva», correndo per le strade di Londra, uscendo da una
bottega rimanendo in una tasca o in una borsa non più di un attimo,
transitando da una taverna ad un mercato, cadendo da un tavolo in
chissà cosa, gonfiando per un giorno un vestito elegante o un lurido
berretto. Così, nascosto negli stracci, infilato nel tronco di un
albero, portato ovunque, da una mano all'altra, sottratto a questo e
a quello, lasciato andar via da Lombard Street fino ad un prato
(oltre la periferia, ma è già periferia?); ogni elemento di quel
fiume, nell’ordine del denaro, s’intende, seguita a correre
soltanto dal primo (vero?) padrone al nuovo (vero?) padrone, dal
ladro all’apprendista, tra la notte e le lacrime, tra una gioia
folle e spaventi terribili, comunque, sempre in mezzo alla strada,
per la strada, fino a quel prato dove si fanno i conti.
Il colonnello Jack, già
dal primo rigo, mette all'origine della propria storia il fatto «che
la mia vita è stato un campo di gioco per la natura» e, davvero, la
realtà del giovanissimo ladro sembra coincidere totalmente con gli
scopi della pallina nel flipper: ottenere il maggior numero di punti,
conservarsi in movimento, crescere lungo i tracciati del «campo di
gioco», adempiere ai soli comandi o impulsi del gioco, intendere il
medesimo quasi in relazione al metodo del cronista («sapevo dare un
resoconto discreto di quello che era successo») o al suo personale
patrimonio di buona e di cattiva fortuna.
D’altra parte, se è
«un campo di gioco», non possiamo che vedere all’opera la fortuna
ed è nella sfera di questa parola, detta e ridetta, che si fanno le
prime esperienze.
Ma la stessa città di
Londra è un flipper e il gioco del ladro, che è poi quello del
guadagno, si manifesta in una sicura conoscenza della città, di
giorno e di notte, da un punto all’altro: «...e via di gran
carriera, e io dietro tutto d’un fiato, senza neanche guardarci
alle spalle, nientemeno fino a Fenchurch Street, poi su per Lime
Street, fino a Leadenhall Street, e lungo St Mary Axe fino al muro di
Londra, poi attraverso Bi-shopsgate é giù per Old Bedlam finché
fummo a Moorfields».
Ma la fuga non è finita,
la corsa riprende: «E così mi tirò per Long Alley e Cross Hog Lane
e Holloway Lane fino in mezzo al prato grande che poi fu chiamato il
campo della Farthing Piehouse. Volevamo sederci lì, ma era tutto
pieno d’acqua, sicché andammo oltre attraversando la strada a
Anniseed Cleer ed entrammo nel prato dove ora è il grande ospedale.
Trovato un posto solitario, ci sedemmo ed egli tirò fuori la borsa».
Dunque, globo, denaro,
fortuna, fuga, le funzioni di scorrimento veloce delle strade
inscindibili dallo scorrimento altrettanto veloce del denaro, anche
perché tutto il resto appare estraneo a queste spinte fondamentali,
sembrano quasi essere il processo di estensione della città, il suo
stesso giustificarsi, oppure il suo trasmettersi nella vita del ladro
in quanto vera struttura di un movimento primario, cioè quello dello
«scambio» monetario. Incredibile: nel prato si fanno i conti, ma
quel prato è provvisorio, precario, anch’esso si trasformerà, si
sta trasformando in città e, quindi, in opportune occasioni per Jack
e i suoi fratelli, che andranno a verificare il guadagno in un altro
prato e così di nuovo, ancora... È un fuoco questo, che si suscita
in qualunque punto della città. I suoi spostamenti sono
frequentissimi, interagisce con altri fuochi, simili a lui o diversi
da lui per qualità di assorbimento e orientamento, e qualsiasi
istante è buono per far passare di mano il fuoco, laddove ve ne
siano le condizioni. Il fuoco può essere posto dappertutto e
l’incendio può avvenire in qualsiasi posto e a provocarlo può
essere chiunque. Ladro e derubato procedono verso bordi diversi,
stanno su parti opposte, ma la barca è la stessa.
Il percorso di De Foe, in
ogni pagina di questo libro, non si separa mai da una assoluta
dualità, dalla complementarietà dei duellanti, del pirata con il
mercante, dello schiavo con il padrone, del bianco con il negro,
della donna con l’uomo. Senza «i duellanti», nulla avrebbe più
senso e pertanto, ogni cosa si realizza nella simmetria, muovendo da
situazioni ampiamente determinate, da condizioni identiche, secondo
raggruppamenti simbolici, lungo piani, appunto, di generalizzazione.
Infatti, i Jack, che tali
non sono all’inizio, diventano tre, sono tre. Dice il futuro
colonello: «...così non mi restò che chiamarmi signor Chiunque,
cioè come meglio mi piaceva e come il tempo e la mia sorte mi
avrebbero dato occasione di scegliere». Più chiaro di così:
Chiunque-Jack. Simmetria, pendolo, oscillazioni e le oscillazioni si
fanno sempre più estese, e a partire da Londra: il viaggio
labirintico verso la Scozia, ma poi l’inganno e l’attraversata
dell’oceano, il salto in Virginia, la schiavitù, il riscatto, la
fortuna, le navi, il ritorno, il continente europeo, persino le
guerre in Italia, nel 1701 con il principe Eugenio di Savoia, e via
con i duelli, i matrimoni, uno dopo l’altro come i divorzi o le
morti, le sconfitte contrattuali-sentimentali, di nuovo l’Atlantico,
le Indie occidentali, Cuba e il Messico, la piantagione americana,
l’ultimo matrimonio (il quinto, cioè ci si risposa con la prima
donna), e dopo, ancora altri rischi, nuovi pentimenti, dalla
religione alla politica. Ma ecco l’ultima tappa: Londra.
Il teorema di De Foe ha
una dimensione planetaria proprio perché ha una logica da teorema e
quindi può sostenere qualunque collegamento, qualunque incontro. Ma
queste storie d’amore e di locanda, di guerre e di tesori, di
sfortune sentimentali e di spietate risalite (la fortuna?) sia
sociali che psicologiche, sono emesse da un occhio atlantico. Se «la
verità sta in fondo all’abisso», l’abisso è essenzialmente
occidentale.
Elementi del teorema: c’è
sempre un «prato» in cui si cade o si fa sosta, ma da cui si
riparte. Conclusione e ripresa: la Scozia, una nave, la Virginia, un
incontro, un'ostessa, un sorso di rum, una parola, compresa la morte.
C’è addirittura, il momento estremo della condizione del «prato»,
quando si precipita nella condizione di schiavo e, a quel punto,
scompare persino il denaro, ciò che conta è il tuo stesso corpo,
vali per quello che sei, in assoluto. Ed è da questa spietata
nudità, da questa fisicità senza alcuna altra storia, da questa
animalità senza filosofia, che non sia quella del rapporto
schiavo-padrone, che si può e si deve ripartire.
Daniel De Foe raccontò
tutto nell’arco «di quegli straordinari sei anni» (1719-1724)
come li chiamò Cesare Pavese, che, esattamente trent’anni fa, in
prefazione al Moll Flanders scrisse che De Foe ebbe una vita
«provata da persecuzioni, incarceramenti, estenuanti fatiche a
tavolino, e soprattutto miseria». Paolo Amalfitano, che ha curato
questa edizione delle avventure del colonnello Jack, ricorda che il
libro fu «pubblicato nel 1722, nello stesso anno di Moll
Flanders, di A Journal of the plague year, di Religious
Courtship».
In De Foe tutti gli
affari sono detti fin dal principio o quasi. Quella che è stata la
formula di una vita viene confessata, dichiarata in parterza, è
spesso, riassunta nei primi capitoli. In definitiva, non possono
esserci impensabili novità, digressioni, capovolgimenti di fini e di
mezzi, perché tanto, una volta finita la battaglia «monetaria»,
ciò che è stato raccontato non è nient’altro che il racconto di
una moneta. Pertanto, ci sono monete che si perdono e monete che si
salvano, monete false e monete di valore, ecc. In breve, si sa com’è
una moneta o no?
L’edizione napoletana
si avvale della traduzione di Nemi D’Agostino e del saggio
introduttivo La scrittura di Daniel De Foe, di Paolo
Amalfitano, particolarmente interessante per la capacità dì
stabilire la ricchezza e la novità dei motivi aperti dall’opera
del grande scrittore inglese.
“il manifesto”, 6
luglio 1984
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