Tea Ranno, di Melilli
(Siracusa), vinse nel 2005 con Cenere il
prestigioso Premio Italo Calvino e si è rivelata, anche con i
romanzi successivi, scrittrice di grande forza espressiva. Il suo
narrare è quasi sempre centrato su figure di donne, ma la
riflessione che segue non riguarda solo il suo lavoro, ma tutta la
nuova narrativa siciliana, non esclusivamente femminile e non escluso
il grande, popolare e un po' seriale Camilleri. (S.L.L.)
Sono tante le
protagoniste dei romanzi che si sono scavate una nicchia nella mia
mente per abitarvi senza possibilità di sfratto. Alcune di queste
sono le donne raccontate dagli scrittori siciliani di cui leggevo
quand’ero adolescente, e che proprio in quel periodo sono diventate
parte di me: le capivo, non mi era difficile collocarle nell’ambiente
in cui si muovevano – stessa mia terra, sole, mare, odori, lingua
–, né mi era difficile riconoscerle come tipi: le vecchie avvolte
negli scialli, le ragazze sottomesse ai padri, le mogli soggette ai
mariti, le scostumate che facevano una mala fine, le zitelle acide,
le povere che diventavano ricche, le femmine allupate, le pettegole
sfascia famiglie. Tipi messi in scena da Verga, Sciascia, Pirandello,
Vittorini, De Roberto, Patti, D’Arrigo… Scrittori amatissimi che
rappresentavano nelle loro pagine la tipologia femminile che mi
vedevo vivere intorno e che – ancora troppo piccola – non capivo
nelle sue peculiarità.
Una tipologia, appunto.
Che cominciò a sgretolarsi nel momento in cui, lasciata
l’adolescenza, mi ritrovai nel corpo, nei pensieri e nelle emozioni
di una donna. E, soprattutto, quando mi avventurai dentro le pagine
di donne che raccontavano le donne. Fu allora che avvertii sempre più
forte l’impressione che le eroine create da quegli scrittori
indossassero non vesti tagliate e cucite loro addosso da sarti di
pregio, ma abiti standard, presi a stock nei grandi magazzini e
adattati, di volta in volta, al personaggio.
Non solo, leggendo e
rileggendo, mi parve che fossero standard anche gli stampi in cui
veniva colata la sostanza che componeva quelle donne. Due stampi: la
santa (moglie, madre, sorella, figlia) e la buttana (la moglie, la
madre, la figlia, la sorella degli altri). Naturalmente, poi, ogni
scrittore, forte della propria sensibilità e della propria penna,
riusciva a creare le giuste alchimie perché il personaggio fosse
credibile. E ci riusciva, certo, tanto che quelle Angelica, Bianca,
gnà Pina, Nedda, Marta, Cata, Maruzza e via discorrendo, si sono
incise nella mia memoria. Un taglia e cuci che si perdeva le
sottigliezze psicologiche, le emozioni che non fossero slanci
uterini, le reazioni che non fossero botte d’isteria, i dolori che
non fossero patetici, le dolenti che non fossero prefiche, le madri
che non fossero disposte a darsi in pasto alle belve pur di salvare i
figli.
Ma torniamo agli stampi:
sante o buttane, dunque, le femmine siciliane? In queste poche righe
tratte da La Lupa di Verga, se ne potrebbe trovare un esempio: “Le
donne – le sante – si facevano la croce quando la vedevano
passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e
sospettoso della lupa affamata; ella – la buttana – si spolpava i
loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio con le sue
labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a
guardarli con quegli occhi da satanasso”.
Le buttane sono lupe
fameliche, le sante sono mogli e madri con la corona del rosario in
mano. Ma pure le sante possono – nel gioco a vestire o svestire gli
abiti di scena – cambiarsi in lupe. Consideriamo Luisa, la vedova
Roscio di cui ci racconta Sciascia in A ciascuno il suo. È nipote
d’arciprete, è bella – “il volto in cui le labbra disegnavano
broncio ed offerta, la massa dei capelli, il profumo che appena
velava un afrore di letto” –, è una santa femmina che tuttavia,
come ci avverte l’autore, incarna il male “nel suo farsi
oscuramente e splendidamente sesso”: sarà lei, infatti, la lupa
che sbranerà quel professor Laurana così caparbiamente intento a
risolvere l’assassinio del dottore da rimetterci la pelle.
Dunque il sesso come
male, che giustifica la dicotomia: santa (buona), buttana (cattiva).
Non è un caso, dunque, che a una processione di femmine immolate
sull’altare della famiglia, della convenienza e dell’onore, si
affianchi il corteo di lussuriose che portano alla rovina varie
stirpi d’uomini: Nino concupito da sua zia Cettina (Un bellissimo
novembre di Ercole Patti), i marinai della Regia Marina sedotti dalle
femminote che commerciano in sale e piacere a bordo dei ferribò
(Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo), solo per citarne un paio.
E adesso? Rotti gli
stampi? Scuciti i vestiti standard? Recuperata la libertà di essere
donne a tutto tondo che si esprimono nella voluttà e nella
trascendenza, nell’intimità come in piazza o davanti ai fornelli,
o con le dita sulla tastiera di un computer? Sì. Le donne che
abitano i romanzi – scritti dagli uomini (uno per tutti: Camilleri)
o dalle donne siciliani – sono polimorfe, camaleontiche, più
simili a quella complessità di carattere che nessuno stereotipo può
ormai semplificare, e più vicine a quella verità che le rende vive
e non marionette con la faccia pittata che un cambio d’abito
trasforma in sé o nel contrario di sé.
il Fatto Quotidiano, 6
aprile 2019
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