Gregor Johann Mendel |
Il libro Falsi profeti
di Alexander Kohn (Zanichelli,
1991) è stato pubblicato per la prima volta, in inglese, nel
1986. Ma già l’anno successivo l’autore, virologo all’università
di Tel Aviv, era costretto ad aggiungervi precipitosamente un altro
capitolo di aggiornamenti. E oggi, a quattro anni di distanza, si
sentirebbe addirittura il bisogno di raddoppiare il numero delle
pagine. Non è colpa di Alexander Kohn il cui saggio mantiene intatto
il suo interesse, ma del fatto che il fenomeno che egli illustra, con
ricchezza di esempi e un analisi meticolosa, ha conosciuto
un’accelerazione improvvisa. Falsi profeti tratta infatti di
«inganni e errori nella scienza», come recita il sottotitolo. O, a
essere più crudi, le frodi, le truffe, i comportamenti scorretti e
le manipolazioni dei risultati scientifici, a opera dei ricercatori.
Così oggi al libro di Kohn si dovrebbe aggiungere, almeno: 1) il
caso della dottoressa Teresa Imanishi Kari e del professor Baltimore,
già premio Nobel per la medicina; 2) la presunta «memoria
dell’acqua» del professor Benveniste; 3) il caso dei professori
Pons e Fleischman e dei loro esperimenti sulla cosidetta «fusione
nucleare fredda»; 4) i falsi fossili del paleontologo indiano
professor Gupta; 5) gli ultimi sviluppi, tuttora in corso, della
penosa storia del professor Gallo e del professor Montagnier a
proposito della scoperta del virus dell’Aids. L’elenco è
incompleto per difetto e giusto per non tediare il lettore: le
riviste scientifiche degli ultimi tre anni sono piene di altri
episodi del genere.
Il fenomeno, va detto, è
sempre esistito. Anzi, molte delle storie ricostruite con puntiglio
da Kohn affondano le radici ben indietro nel tempo. Come i dati
sperimentali del monaco Mendel, lo scopritore delle legge
dell'ereditarietà, che esaminati con più attenzione, risultarono
troppo belli per essere veri. L'ipotesi è che fosse stato il suo
assistente di laboratorio, anzi di giardino, ad aggiustarli un po’,
di modo che la trasmissione ereditaria dei caratteri genetici dei
piselli risultasse ben provata. Ma si può classificare come frode,
truffa, violazione dell'etica scientifica un caso del genere in cui i
dati scorretti sostengono una teoria poi dimostratisi vera? Oppure i
casi, assai più frequenti di quanto sembri, in cui un ricercatore,
convinto a priori della bontà della sua teoria o del suo modello,
inconsapevolmente aggiusta i risultati di un esperimento, senza
nemmeno rendersene conto?
Il dolo, ovvero
l’intenzione esplicita e consapevole di barare, è uno degli
elementi distintivi delle frodi scientifiche propriamente dette.
Molti casi, anche apparentemente minori, li racconta lo stesso Kohn,
che ha attinto a una bibliografia enorme. Altri fanno parte della
cronaca scientifica più recente. Quasi sempre la spinta a violare
consapevolmente le regole non scritte dell’etica scientifica viene
dall’abbinamento ambizione-pressione ambientale. L’ambizione del
ricercatore non è un male in sé; si può anzi pensare che senza una
certa dose di essa, molte scoperte non sarebbero mai avvenute. La
pressione ambientale deriva da quell’insieme di meccanismi interni
alla macchina della ricerca scientifica che collegano la carriera con
il numero delle pubblicazioni scientifiche. È l’unico criterio
«oggettivo» di cui la comunità scientifica si è dotata per
valutare il merito (la comunità scientifica seria, naturalmente, non
quella italiana che nei concorsi a cattedra sorvola con disinvoltura
i meriti e fa valere invece le parentele, i legami di cordata o
politici; le ultime scandalose bocciature nei concorsi italiani,
raccolte anche dai quotidiani, sono lì a testimoniarlo). Ma è un
meccanismo assai pericoloso, tuttavia: lì infatti stanno le ragioni
pratiche di molti articoli scientifici a firma multipla, dove
l’autore vero (e magari anche l’autore degli aggiustamenti
fraudolenti) è il giovane ricercatore che deve sfondare a tutti i
costi, e le altre firme sono di colleghi più anziani che lo coprono,
magari avendo discusso con lui solo la filosofia generale
dell’esperimento e nulla più. Se tutto va bene, nessuno se ne
accorge e tutti i firmatari riscuotono il loro vantaggio. Se invece
qualche collega si accorge della frode, allora ci si imbatte in
penose lettere di scuse alla comunità della scienza, come quella
scritta dal Nobel David Baltimore sul numero di Nature del 9 maggio
scorso.
L’atteggiamento di Kohn
rispetto al fenomeno non è moralista a oltranza: realisticamente
egli dà per scontato che i casi di manipolazione o di alterazione
dei risultati sperimentali siano più diffusi di quanto si pensi.
Specialmente nelle scienze biologiche o in quelle psicologiche dove
la riproducibilità degli esperimenti non è così semplice. Non
nasconde tuttavia un certo ottimismo, basato sulla convinzione che in
fondo, se la truffa riguarda una scoperta veramente importante, essa
verrà inevitabilmente smascherata, dato che molti altri «colleghi»
si butteranno su quella tecnica o su quel fenomeno, per ripeterli o
migliorarli. Si può dare per scontato invece che nel caso di
pubblicazioni marginali, o di scarso interesse, nessuno mai tenterà
di nuovo la prova, e gli autori del falso (o della manipolazione)
potranno vivere tranquilli: quel loro lavoro infatti è un tassello
del tutto secondario, e cadrà assai rapidamente nel dimenticatoio;
il suo unico effetto sarà di aiutare la carriera degli autori, senza
produrre un danno sociale particolarmente alto (se non quello di
portare finanziamenti e carriera a chi non se lo merita).
È un atteggiamento
realistico, anche se poco allegro: i quattro cardini dell’etica
della ricerca, dettati a suo tempo da Robert Merton, uno dei pionieri
della sociologia della scienza, appaiono davvero in disuso. Essi
erano universalismo, disinteresse, scettiscismo e comunanza. Tutti
sono stati intaccati anche profondamente, dall’intreccio tra
scienza e mercato e dal mercato delle carriere. Non c’è forse da
strapparsi i capelli, né da condannare in blocco tutta la scienza
moderna. Ma occorre saperlo, per non attribuire agli uomini e alle
istituzioni di scienza delle virtù che non si meritano più di
tanto.
"il manifesto", 6 dicembre 1991
Nessun commento:
Posta un commento