Sarà mai possibile
indurre la magistratura ad aprire una nuova indagine sulla morte di
Giuseppe Pinelli? Tutti gli spunti per farlo, in effetti,
sussisterebbero, corroborati da testimonianze e documenti ora
minuziosamente esposti in questo libro appena pubblicato di Gabriele
Fuga ed Enrico Maltini, il cui titolo riprende una strofa del Lamento
per la morte di Giuseppe Pinelli di Franco Trincale («È a
finestra c'è la morti». Pinelli: chi c'era quella notte, pp.
168, euro 10, Edizioni Zero in condotta).
Non una novità assoluta
essendo tutti questi materiali da diversi anni giacenti presso i
tribunali. Il fatto è che, grazie a questa lavoro di raccolta (Fuga
è un noto penalista mentre Maltini, già nel 1969, faceva parte del
circolo Ponte della Ghisolfa), sono stati adesso riportati alla luce,
analizzati e resi pubblici. Molti nuovi elementi sono emersi
dall'imponente mole di carte del cosiddetto archivio «parallelo»,
ovvero nascosto, dell'Ufficio affari riservati (Uar), scoperto nel
1996 presso una caserma dei carabinieri sulla circonvallazione Appia
di Roma. Da esse si è appurato che almeno altre quattordici persone
si aggiravano nelle stanze della Questura di Milano, la notte in cui
Pinelli precipitò dalla finestra dell'ufficio del commissario Luigi
Calabresi, al quarto piano.
Indagini
precostituite
Chi erano? Perché
nessuno ne aveva mai parlato? Qualcuno di loro era forse presente in
quella stanza? Qualche risposta c'è già. Erano funzionari, alcuni
di altissimo livello, dell'Ufficio affari riservati inviati dal
ministero dell'Interno subito dopo la strage alla Banca nazionale
dell'agricoltura. Avevano il potere di imporre ordini e decidere
l'indirizzo delle indagini. Rispetto a essi i funzionari della
questura erano «gerarchicamente dipendenti». Tra loro, anche
Silvano Russomanno, all'epoca direttore della IV sezione, con un
passato nella Repubblica sociale italiana e addirittura di volontario
in una formazione tedesca, che secondo diverse testimonianze «prese
in mano la situazione» imponendo «la pista anarchica». A
supportare questa ricostruzione alcune deposizioni, rese tra il 1996
e il1997, anche da parte di alcuni di questi stessi funzionari,
ascoltati dai pm che indagavano sia su piazza Fontana sia su Argo 16
(nome in codice di un aereo dell'Aeronautica militare, utilizzato dai
servizi segreti, precipitato, forse per un sabotaggio, nel 1973).
Nelle loro parole la
certezza di come, a ogni costo, ancor prima di qualsiasi indizio, vi
fosse la decisione precostituita di incolpare gli anarchici per le
bombe del 12 dicembre. Così Pietro Valpreda, così Giuseppe Pinelli,
autentiche vittime predestinate. Una farsa quella delle indagini a
tutto campo. Clamoroso il racconto di Antonio Pagnozzi, commissario
di polizia, che ha rivelato come nelle ore successive alla strage,
per far «numero», fosse stata addirittura organizzata una retata di
vagabondi alla Stazione Centrale, ma soprattutto che «vi era una
pista prefabbricata originata non a Milano allorché, da Roma,
pervenne la comunicazione che era stato Valpreda a portare la valigia
con l'esplosivo». A ruota Guglielmo Carlucci, funzionario
dell'Ufficio affari riservati, presente nella Questura di Milano
subito dopo la strage, che aggiunse come «I nomi di Pinelli e
Valpreda erano stati segnalati subito». Vale a dire solo poche ore
dopo. Anche il riconoscimento, a questo punto, di Valpreda da parte
del tassista Rolandi, fu solo una messinscena. Tutto era già stato
deciso.
Non era stata, questo sì,
programmata la defenestrazione di Pinelli. Forse un incidente di
percorso. Illuminante, a questo proposito, l'interrogatorio, il 30
aprile 1997, di Giuseppe Mango, addetto alla segreteria dello Uar.
«Pinelli si era appoggiato di spalle alla finestra», a raccontarlo,
secondo Mango, fu Antonino Allegra, il capo dell'Ufficio politico
della Questura di Milano. «Al Pinelli era stata contestata una falsa
confessione di Valpreda, notizia questa improvvisamente portata da
qualcuno (…) il quale aveva fatto irruzione nella stanza». Una
pressione anche fisica, forse una spinta o un colpo. Da qui la caduta
nel vuoto all'indietro che spiegherebbe anche l'assenza di abrasioni
sulle sue mani e sulle sue braccia. Altro che «tuffo» o «balzo
felino»!
Ma chi irruppe durante
l'interrogatorio? Magari qualcuno dello Uar? Perché non indagare?
Tanti gli elementi da cui partire.
Un ridicolo
identikit
In appendice un capitolo
su una vicenda solo apparentemente singolare. Quella di un identikit
effettuato preso l'abitazione di un agente della polizia scientifica,
presenti Enrico Rovelli, spia infiltrata fra gli anarchici, il
brigadiere Vito Panessa e il commissario Luigi Calabresi. Siamo a
settembre del 1970 e il fatto strano è che la persona da ritrarre in
realtà era conosciutissima. Aveva in questura un fascicolo intestato
a suo nome con tanto di fotografia. Il personaggio in questione era
Jean-Pierre Duteuil, un anarchico, tra le figure più note del maggio
francese. L'identikit verrà pubblicato sui giornali solo dopo la
morte di Calabresi, per «l'evidente somiglianza con la figura
dell'omicida». Duteuil lo ha saputo quarant'anni dopo. È sbiancato.
Un fatto è certo: nella sede centrale dello Uar e nella Questura di
Milano, si costruivano per tempo a tavolino, buoni per ogni evenienza
e delitto, i colpevoli. Meglio se anarchici.
Il manifesto 11 aprile
2013
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