Sul finire degli anni 40
del secolo scorso Sibilla Aleramo, che quasi mezzo secolo prima aveva
pubblicato Una donna,
considerato un testo fondamentale della scrittura e della presa di
coscienza femminile nel nostro paese, tenne su “l'Unità” una
rubrica di corrispondenza con i lettori.
Posto qui il “colloquio”
del 10 aprile 1949, che mi pare testimonianza significativa non solo
dell'impegno civile di Sibilla nel Partito comunista, ma anche di un
tempo, di una situazione: il tempo in cui all'egemonia clericale, non
solo politica, che – nonostante il protagonismo femminile negli
anni della guerra e della Resistenza – puntava a una restaurazione
del patriarcato, si tentava di opporre, da sinistra, una volontà di
emancipazione tenace, ma prudente. (S.L.L.)
Una celebre immagine di Sibilla Aleramo |
Un'amica, la valorosa
scrittrice Anna Garofalo, nota agli ascoltatori della Rai per le sue
quindicinali Parole di una Donna, m’indirizza una cara
lettera nella quale si compiace per l’inizio di questa rubrica, poi
dice: “Oggi più che mai si tratta di fare appello a quella
necessità di porsi problemi, a quella consapevolezza che la donna
invero possiede e di cui ha dato prova in questi anni, ma di cui non
sempre è cosciente, per un atavico complesso d’inferiorità. La
donna manca ancora di fiducia in sé stessa, non di possibilità. Nel
momento in cui si porrà un problema, lo avrà, per metà almeno,
risolto. Occorre per questo liberare la donna dei lungo suo dipendere
dall’altrui volontà, dall’altrui legge, dall’altrui arbitrio.
Il timore vieta ogni slancio, ogni libera iniziativa”.
Così è, Anna.
Soprattutto nella mostra Italia, dove la soggezione femminile ha una
storia secolare, dove la donna per tanto tempo non ha osato prendere
la menoma deliberazione senza prima aver il consenso del padre o del
marito o del parroco o di tutti tre assieme, anche quando era certa
nell'animo suo che la deliberazione fosse onesta e giusta.
Situazione, fino a poco fa, deplorevole solo dal punto dì vista
dell’individualità della donna, così ostacolata nella sua
formazione. Ma oggi, che abbiamo il voto, oggi che la donna
finalmente è «cittadina», e. responsabile al pari dell’uomo
delle sorti del Paese, questa sua mancanza di libertà di giudizio e
d’opinione, è, ancor più che deplorevole, colpevole e
condannabile. Bisogna che le italiane, di ogni ceto, contadine e
intellettuali, operaie o ricche oziose, acquistino il senso del nuovo
dovere che hanno assunto (diritti e doveri, formulò Mazzini oltre un
secolo fa) ed esercitino la facoltà di decidere e agire secondo la
propria intima convinzione, per il maggior bene di tutti - per la
pace contro la guerra, per l’educazione dei figli, e anche, anche
per la loro stessa dignità di creature umane. Non sarà facile, ma è
necessario.
Rosabianca, di Roma, mi
pone un quesito molto grave: «Dopo alquanti tentennamenti mi sono
convinta che la vostra dottrina sia la sola che, in atto, potrebbe
appianare il troppo grave dislivello sociale che sempre più accentua
il malcontento della classe lavoratrice e nullatenente, e far sì che
si stia un po’ meglio tutti, senza posizioni privilegiate. Ora
però, Sibilla cara, vorrei che tu mi indicassi come può contenersi
una donna che pur volendo essere in pace con la propria coscienza,
intollerante di falsità, cioè sentendo la necessità di affermare
francamente le proprie idee, si trovi circondata da una schiera di
congiunti acerrimi avversari dell’idea socialista, e accanto a un
marito anch’egli ostile. Tacere le proprie convinzioni per amor di
pace si può qualche volta, ma si potrà poi sempre? D’altronde
immagini tu la guerra che potrebbe scatenarsi in famiglia e quale
nuovo contrasto nascere nei rapporti fra me e mio marito? Sibilla
mia, di cui ammiro tanto i libri, tenta di penetrare nel mio animo
anche se poco ti so spiegare a parole, e dimmi quale contegno credi
sia più appropriato al mio caso».
Sì, il quesito è grave.
E non è soltanto di Rosabianca, ma di migliaia e migliaia di donne
della piccola e anche della grande borghesia: figlie e mogli di
funzionari, di industriali, di agrari, di grossi commercianti... Che
cosa rispondere? Anzitutto, bisogna che Rosabianca si persuade che è
nella propria coscienza che il problema va dibattuto, con coraggiosa
tenacia, e risolto. Quando un’Idea è penetrata in noi saldamente,
dopo attendo e profondo esame, essa ci illumina e ci guida anche per
i nostri rapporti con tutto il resto dei viventi, dal prossimi al
lontani, dai famigliari ai cosiddetti estranei (ma nessuno
costituisce un estraneo dinanzi una coscienza socialista). Certo è
che occorre poi, caso per caso, agire con molta delicatezza per
condurre gli altri al punto cui noi siamo giunti; cercando di far
compiere ad essi il cammino da noi percorso, di far loro avere quelle
che son state le nostre esperienze decisive (incontri con libri, con
persone, con avvenimenti, ma quasi inavvertitamente, poco a poco, di
modo che essi abbiano il senso di scoprire via via da soli, per virtù
spontanea, la verità. Nella convivenza, ogni giorno, non con
dichiarazioni, diciamo così, polemiche, ma con il nostro
comportamento, anche di fronte ai fatti più modesti, mostrando
lealmente, senza iattanza né acrimonia, il nostro sentimento su
questo o quel fenomeno sociale, su ingiustizie piccole o grandi,
sulle miserie materiali o morali che purtroppo tutti incontriamo ad
ogni passo, quale azione continua, se pur pervasa di pazienza,
possiamo compiere sullo spirito di chi vi sta accanto? Specialmente,
cara Rosablanca, se chi vi sta accanto è tratto silenziosamente a
constatare come il nostro nuovo modo di vedere il volto e i1 destino
del mondo ci abbia migliorate e sempre più ci migliori, ci abbia
rese più umane, più vive, nel senso alto della parola, come certo
tu sei dacché hai compreso tante cose. È così, Rosabianca?
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