23.4.19

Morire di gelato. L'Omnibus, Savinio e Giacomo Leopardi (Giuseppe Marcenaro)



Durante un’epidemia di colera, morì di quella “scomodità” che i napoletani chiamano “’a cacarella”. Questo è risaputo e oggi non fa più effetto svelare che Giacomo Leopardi spirasse andando incontro al "suo infinito" seduto sul vaso. Ma quando con impertinente poesia e complicità di goloso, il 28 gennaio 1939, Alberto Savinio lo diffuse con un articolo intitolato Il sorbetto di Leopardi, “lo svelamento” costò la vita al settimanale “Omnibus” su cui era pubblicato.
«Chi di noi non ha pianto sulle miserie fisiche di Giacomo Leopardi? Tanto più profondamente ferisce la nostra poetica compassione la notizia che parte di quelle miserie era dovuta alla irrefrenabile ingordigia del contino. Leopardi era grande amatore di gelati, sorbetti, mantecati, spumoni, cassate e cremolati».
Per questa sonora marachella uno dei più bei settimanali ideati da Longanesi uscì dalla comune. Al regime d’allora dava fastidio che vi fosse un periodico fatto da gente intelligente, capace di pensare con la propria testa, che sapeva scrivere e giocare con miti: tipacci come Barilli, Missiroli, Landolfi, Brancati, Moravia, Patti, Vittorini; inoltre Pannunzio, il futuro e mitico direttore del «Mondo»; e Benedetti anch’egli futuro direttore di alcuni tra i più importanti settimanali politico-culturali del dopoguerra. Giornalisti e scrittori che alla traumatica infungibilità di “Omnibus” si convinsero che dovesse “passare la nottata”. Bisognava aspettare con pazienza che non soltanto si dissolvesse il “regime politico”, ma sbollisse la canea della marmaglia di scemi, analfabeti, illetterati, stelline e vedettes che aveva occupato la scena con fastidiosa caciara. Le storie ogni qualche tempo si ripetono e occorre pazientare con fede.
Quando “Omnibus” nel lontano gennaio 1939 fu chiuso per irrispettosità nei riguardi d’una gloria italiana, l’arguto Savinio e il volitivo Longanesi chinarono la testa di fronte all’ineluttabile. Savinio però volendo difendere l’onore della facezia, avrebbe potuto dimostrare filologicamente, carta alla mano, che già il contino, con nel cuore la «ginestra», si dilettava di «critica gastronomia». Insomma che non era il cupastro imbalsamato dalle accademie, ma un delizioso e scatenato goloso. Sarebbe bastato recarsi alla Biblioteca Nazionale di Napoli. In quel sublime e babelico universo cartaceo partenopeo i manoscritti di Leopardi erano stati depositati dagli eredi di Antonio Ranieri il quale doveva la sua fama al fatto d’aver sostenuto ampia fronte di Giacomo durane i tremblor di stomaco successivi a qualche augusta gavazzata; ed essersene fatto vanto in un memoriale.
Una fama di badante, quella di Ranieri.
Ebbene tra le carte da lui raccolte e affidate alla magnanima cura dei posteri, tra i manoscritti eccelsi di Leopardi – dall’Infinito a Silvia, dallo Zibaldone alle Operette Morali – un foglietto di 159 millimetri per 58, con l’elegantissima e ineffabilmente chiara grafia del contino, sotto il titolo Lista di cibi, elenca le prelibatezze che facevano percepire a Giacomo gli infiniti piaceri del palato: numerati con ostinata goduria bodin di latte, frittelle di mele e pere, bignés, raviolini, pan dorato, carciofi fritti al burro, con salsa d’uova, eccetera eccetera segnalati al cuoco, nel pieno dell’infuriare dell’epidemia di colera che aveva investito Napoli, quando Leopardi era ospite della sorella di Ranieri, Enrichetta e del marito di lei Amerigo, alla villa De Gennaro Ferrigni di Torre del Greco. Uno strepitoso sibaritismo per il cibo confermato nello Zibaldone: «... voglio mangiare a grand’agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi anche che il tempo sia male impegnato in questo, come par che stimino molti, che si affrettano d’ingoiar ogni cosa, e di levarsi su, quasi che questo momento fosse il più bello del desinare)...».

La Stampa, 10 luglio 2004

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