Durante un’epidemia di
colera, morì di quella “scomodità” che i napoletani chiamano
“’a cacarella”. Questo è risaputo e oggi non fa più effetto
svelare che Giacomo Leopardi spirasse andando incontro al "suo
infinito" seduto sul vaso. Ma quando con impertinente poesia e
complicità di goloso, il 28 gennaio 1939, Alberto Savinio lo diffuse
con un articolo intitolato Il sorbetto di Leopardi, “lo
svelamento” costò la vita al settimanale “Omnibus” su cui era
pubblicato.
«Chi di noi non ha
pianto sulle miserie fisiche di Giacomo Leopardi? Tanto più
profondamente ferisce la nostra poetica compassione la notizia che
parte di quelle miserie era dovuta alla irrefrenabile ingordigia del
contino. Leopardi era grande amatore di gelati, sorbetti, mantecati,
spumoni, cassate e cremolati».
Per questa sonora
marachella uno dei più bei settimanali ideati da Longanesi uscì
dalla comune. Al regime d’allora dava fastidio che vi fosse un
periodico fatto da gente intelligente, capace di pensare con la
propria testa, che sapeva scrivere e giocare con miti: tipacci come
Barilli, Missiroli, Landolfi, Brancati, Moravia, Patti, Vittorini;
inoltre Pannunzio, il futuro e mitico direttore del «Mondo»; e
Benedetti anch’egli futuro direttore di alcuni tra i più
importanti settimanali politico-culturali del dopoguerra. Giornalisti
e scrittori che alla traumatica infungibilità di “Omnibus” si
convinsero che dovesse “passare la nottata”. Bisognava aspettare
con pazienza che non soltanto si dissolvesse il “regime politico”,
ma sbollisse la canea della marmaglia di scemi, analfabeti,
illetterati, stelline e vedettes che aveva occupato la scena con
fastidiosa caciara. Le storie ogni qualche tempo si ripetono e
occorre pazientare con fede.
Quando “Omnibus” nel
lontano gennaio 1939 fu chiuso per irrispettosità nei riguardi d’una
gloria italiana, l’arguto Savinio e il volitivo Longanesi chinarono
la testa di fronte all’ineluttabile. Savinio però volendo
difendere l’onore della facezia, avrebbe potuto dimostrare
filologicamente, carta alla mano, che già il contino, con nel cuore
la «ginestra», si dilettava di «critica gastronomia». Insomma che
non era il cupastro imbalsamato dalle accademie, ma un delizioso e
scatenato goloso. Sarebbe bastato recarsi alla Biblioteca Nazionale
di Napoli. In quel sublime e babelico universo cartaceo partenopeo i
manoscritti di Leopardi erano stati depositati dagli eredi di Antonio
Ranieri il quale doveva la sua fama al fatto d’aver sostenuto ampia
fronte di Giacomo durane i tremblor di stomaco successivi a
qualche augusta gavazzata; ed essersene fatto vanto in un memoriale.
Una fama di badante,
quella di Ranieri.
Ebbene tra le carte da
lui raccolte e affidate alla magnanima cura dei posteri, tra i
manoscritti eccelsi di Leopardi – dall’Infinito a Silvia,
dallo Zibaldone alle Operette Morali – un foglietto
di 159 millimetri per 58, con l’elegantissima e ineffabilmente
chiara grafia del contino, sotto il titolo Lista di cibi,
elenca le prelibatezze che facevano percepire a Giacomo gli infiniti
piaceri del palato: numerati con ostinata goduria bodin di latte,
frittelle di mele e pere, bignés, raviolini, pan dorato, carciofi
fritti al burro, con salsa d’uova, eccetera eccetera segnalati al
cuoco, nel pieno dell’infuriare dell’epidemia di colera che aveva
investito Napoli, quando Leopardi era ospite della sorella di
Ranieri, Enrichetta e del marito di lei Amerigo, alla villa De
Gennaro Ferrigni di Torre del Greco. Uno strepitoso sibaritismo per
il cibo confermato nello Zibaldone: «... voglio mangiare a
grand’agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi anche che il
tempo sia male impegnato in questo, come par che stimino molti, che
si affrettano d’ingoiar ogni cosa, e di levarsi su, quasi che
questo momento fosse il più bello del desinare)...».
La Stampa, 10 luglio 2004
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