"Sia pace all'ex
deportato 174517, che riposa all'ombra amica di un acero nel cimitero
ebraico di Torino". Si chiude con queste parole il saggio con
cui Ernesto Ferrero, romanziere, traduttore e da qualche anno
direttore della Fiera Internazionale del Libro di Torino, ha
ricostruito il percorso umano e creativo di Primo Levi, che si
suicidò l'11 aprile del 1987. Intitolato Primo Levi. La vita, le
opere, pubblicato da Einaudi, il volume sarà distribuito in
libreria in settimana. Sobrio e preciso, esauriente, restituisce la
complessità del Giusto che "sapeva tutto": “testimone,
poeta, narratore, saggista, storico, scienziato, chimico, analista,
moralista, antropologo, zoologo, linguista, amico discreto e generoso
che ci ha insegnato a ragionare e a distinguere".
A differenza di altri
Ferrero non partecipa, nel suo lavoro, ai «troppi pettegolezzi»
pavesiani sulla morte dello scrittore torinese, consapevole che «non
è lecito andare a cercarne i segni premonitori nelle sue opere.
Occorre scindere i suoi libri, che vivono una vita autonoma, dalla
sua fine, un fatto strettamente privato che riguarda soltanto lui».
La grandezza di Levi non ha certo bisogno di essere ricordata.
Ferrero lo considera «un Montaigne del Novecento, e non solo. Credo
che il suo I sommersi e i salvati sia il libro più importante
prodotto dall'antropologia moderna, scritto peraltro da uno che non
era antropologo, ma che ha saputo andare più in là di tutti nel
definire la zona grigia che segna la quasi totalità dei
comportamenti umani contemporanei. D'altra parte, quando uscì il
romanzo La chiave a stella, non a caso Claude Lévi-Strauss
gli diede il benvenuto nella schiera degli etnologi».
Non c'è aneddotica nel
saggio puntuale di Ernesto Ferrero. Qualcosa che gli assomiglia, e va
oltre, però, è ben presente nella sua memoria. È la memoria
dell'aprile di vent'anni fa, che si rinfresca per assicurare quanto
Levi fosse ormai vicino al premio Nobel: «Lo sentii telefonicamente,
per l'ultima volta, poco prima della sua scomparsa. Era un giovedì.
Nemmeno troppo scherzosamente gli dissi che bisognava prepararsi per
andare a noleggiare un tight, in vista della cerimonia di Stoccolma.
Lui rispose: "Stai scherzando?". Ed io: "Ma no.
Converrebbe anche a loro, dato che gli ultimi Nobel conferiti non
sono stati esaltanti. Così, con te, si possono rifare". Anche
oggi sono convinto che glielo avrebbero assegnato. A chi se non a
lui? Era praticamente ovvio».
Il Primo Levi di quella
primavera del 1987, tuttavia, sembrava indifferente rispetto alla
gloria letteraria, alle continue traduzioni delle sue opere. Erano i
giorni in cui Saul Bellow aveva dichiarato che Il sistema
periodico era il libro che avrebbe voluto scrivere, e Giulio
Einaudi gli offrì la presidenza della casa editrice, appena uscita
dal commissariamento. Primo si informò sui compiti che gli sarebbero
spettati, ne parlò con Norberto Bobbio, ma alla fine rifiutò».
Sulla morte di Primo
Levi, Ferrero annota nel suo libro: «Biografi, cronisti e testimoni
hanno accennato a crisi depressive, all'assillo delle cure parentali,
alla paura della sofferenza fisica e dell'impotenza intellettuale,
peraltro relativa, vista la qualità degli ultimi scritti. Non è
lecito andare oltre, interpretare e forzare i dati di una vicenda
privata che tale deve rimanere. La sua stessa fine, avvenuta nella
mattina dell'11 aprile 1987 nella casa torinese in cui era nato e
vissuto, non ha avuto testimoni diretti, e non può nemmeno essere
classificata come suicidio. La "nebulosa di spiegazioni"
(così lo stresso Levi a proposito del suicidio di Jean Amery,
avvenuto dieci anni prima) è bene che rimanga tale».
L' estremo incontro fra
Ferrero e Primo Levi avvenne a febbraio: «Ricordo che aveva un volto
molto sofferente. In seguito fu operato, ma non voleva che nessuno
andasse a trovarlo. In casa editrice eravamo tutti piuttosto
preoccupati, sapevamo della sua depressione molto marcata e dei
travagli per la malattia della madre. Einaudi gli propose di venire a
scrivere da noi, gli avrebbe dato una stanza tutta per lui. Ma non
accettò». Poi quella mattina di aprile. «Era una giornata come
queste, di una perfezione insopportabile. Alle dieci e mezzo del
mattino mi telefonò Guido Davico Bonino. Mi disse che Primo era
morto». Ernesto Ferrero desidera che ci sia pace per lui, per chi ci
ha insegnato «a conoscere i segreti dell'incredibile bellezza della
materia vivente, a fissare l'orrore senza disperare».
“la Repubblica”, 11
aprile 2007
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