Inghilterra, seconda metà
dell’Ottocento. L’epoca vittoriana si incammina verso la
decadenza, ma i suoi aristocratici ancora vogliono divertirsi: troppo
poco inclini al dramma borghese, troppo poco autocritici per leggere
Conrad o Hardy, troppo aristocratici per giocare a tennis durante la
brutta stagione. Proprio a imitazione di questo, allora, concepiscono
il tennistavolo. Una fila di libri a mo’ di rete, i coperchi delle
scatole (spesso di sigari) come racchette, un tappo di sughero o una
matassa di filo al posto della pallina. Fra quel passatempo e la
disciplina che oggi conosciamo si trovano l’invenzione della sfera
di celluloide e, soprattutto, la geniale intuizione di Hiroji Sato,
pongista giapponese che ricoprì nel 1952 la sua hardbat in
legno con due strati di gommapiuma. Entra in scena lo spin, la
rotazione impressa alla pallina; ed entra in scena l’Asia. Da
questo momento, il tennistavolo assume il valore trascendentale di
motore verso la pura forma. Diventa mistica.
O almeno questa è
l’intuizione che ha portato Guido Mina di Sospiro a scrivere La
metafisica del ping pong, appena uscito in Italia per Ponte alle
Grazie. Secondo lo scrittore – nato a Buenos Aires, cresciuto a
Milano e residente da molti anni negli Usa – questo sport,
attraverso un cammino iniziatico, può condurre l’adepto a scoprire
se stesso e la dimensione metafisica della realtà. Proprio a partire
dallo spin.
«La rotazione interviene
in tutti gli sport che abbiano una palla, ma nel tennistavolo agisce
in maniera massiccia perché questa è piccola e leggera. Si possono
imprimere fino a 150 rotazioni al secondo, una cosa mostruosa a cui
non si avvicina nessun’altra disciplina», dice Mina di Sospiro a
pagina99. «Il ping pong ha cambiato la sua natura negli anni ’50
con la cosiddetta racchetta sandwich. Le racchette precedenti
producevano un gioco piatto e prevedibile. In una parola, euclideo.
Con lo spin è intervenuta la geometria non euclidea, dato che la
rotazione può esercitarsi in quattro direzioni. La pallina reagisce
nei modi più diversi a causa dell’effetto Magnus, ed è
ingannevole per l’avversario che riceve capire quale tipo di
effetto abbia. Il tutto rende questo sport molto cervellotico, almeno
all’inizio».
La capacità del ping
pong di forzare le leggi della fisica è l’aspetto decisivo che ha
illuminato lo scrittore, studioso di forme alternative di conoscenza
quali il sufismo e il taoismo, percorsi di evasione dalle prigioni
del pensiero lineare. Anche il tennistavolo sarebbe una disciplina
capace di aprire vie di fuga dal determinismo; una possibilità che
non tutti colgono. Per l’autore, infatti, i pongisti si dividono in
due categorie: i metafisici e gli empiristi. Mentre i primi si
sforzano di padroneggiare l’arte dello spin per ritrovarsi
proiettati platonicamente fuori dalla caverna, i secondi – quelli
provvisti di gomme antispin o i cosiddetti “re degli scantinati”
– sono paghi di rimanere nel mondo del loro gioco piatto, dominato
dal nesso di causalità.
«Gli empiristi
rinunciano allo stile corretto del tennistavolo e a volare in
un’altra dimensione», afferma Mina di Sospiro. «I metafisici
invece spesso riescono in delle cose di cui si stupiscono per primi.
C’è uno squarcio di un mondo della forma che riescono a
intravedere. Una metafora quindi anche per altre esplorazioni
filosofiche, normalmente non percorse in Occidente».
Questa è la ragione
principale che rende i cinesi i più forti giocatori al mondo.
«I cinesi hanno un
atteggiamento molto diverso dal nostro. Se un occidentale fa un bel
punto, lo pensa come colpo di bravura; mentre l’orientale lo
considera un colpo di fortuna, dato che è a bassa probabilità di
riuscita. Loro sono molto interessati all’accidentalità e non alla
causalità, come invece è l’Occidente da Aristotele in poi. L’I
Ching (il primo dei testi classici cinesi, considerato da
Confucio libro di saggezza e a livello popolare testo divinatorio,
ndr) ci dice che i cinesi da 5000 anni sono affascinati dagli aspetti
accidentali degli avvenimenti. Per questa mentalità il nesso
causa-effetto è una cosa troppo ovvia per essere trattata
filosoficamente. A differenza di quanto si pensi, sono un popolo
molto spirituale, che intravede in questo sport, da loro praticato ai
massimi livelli, qualcosa che va al di là dello sport stesso e ha a
che fare con le arti marziali e la calligrafia».
L’ultimo capitolo del
libro vede il suo autore entrare nella Città Proibita di Pechino e
meravigliarsi di fronte all’arte millenaria di un esperto
calligrafo. Qui Mina di Sospiro ha trovato la conferma decisiva alla
sua idea: «Tanto per la calligrafia quanto per il ping pong, ci
vogliono una pratica infinita e la ripetizione di movimenti precisi
che devono diventare istintivi, fino ad arrivare alla forma perfetta.
Ora, nel nostro vocabolario questa parola è stata svilita (pro
forma, formalità). In realtà la forma è l’essenza. I cinesi
raggiungono la forma perfetta e un gioco ineccepibile, e a questo
punto la vittoria diventa un suo corollario».
Ma il tennistavolo non è
soltanto una metafora della vita o di una via di ricerca spirituale.
Leggere La metafisica del ping pong è anche scoprire
un’infinità di storie, di personaggi venuti da ogni parte del
mondo per radunarsi intorno a un tavolo con racchette e pallina. C’è
Joe, che accoglie i neofiti al circolo di Arlington ed è un ottimo
giocatore nonostante la perdita di un occhio: «Smise di giocare a
ping pong perché non credeva fosse possibile continuare, normale
dato che non si ha più il senso della profondità», racconta lo
scrittore. «Comunque Joe non si è fatto abbattere, è riuscito a
sistemare tante cose nella sua vita e alla fine ha deciso di
ricominciare a giocare; a tutt’oggi lo fa abbastanza bene, fatto
miracoloso, e ha un atteggiamento sempre allegro». C’è Hien, il
vietnamita torturato per 8 anni in prigione e che gioca come fosse un
bambino, col sorriso sulle labbra; oppure Alex il russo, malmenato
ripetutamente in Siberia dai soldati sovietici perché ebreo e
fuggito prima in Israele e poi negli Usa, un orso capace di
trasformarsi in gentiluomo di fronte alle signorine del club. «Il
ping pong è uno sport che attira gli eccentrici».
E poi si fa la conoscenza
di Jaime, dominicano che tra i ’70 e gli ’80 partecipò a
Olimpiadi e Mondiali, arrivando tra i primi 20 giocatori al mondo.
«Jaime è ancora il mio maestro, ma il nostro è un rapporto
particolare. Lui ha un modo di giocare altamente atletico e un po’
datato, con uno stile che predilige il dritto e considera il rovescio
un’armita (armetta). Oggi i giocatori professionisti non fanno
differenza di colpi. Questo ci diversifica. Comunque, ancora non l’ho
battuto».
Ping pong e metafisica.
Una corrispondenza che ricorda in qualche modo quella tra bowling e
dudeismo, la religione ispirata a Jeffrey “Drugo” Lebowski che
non a caso si nutre di elementi platonici, buddhisti e taoisti. The
Dude sa che il mondo non è euclideo, che bisogna fare i conti
con l’imponderabile; lui la prende come viene, non lavora, pratica
il tai chi, fuma e fa il bagno mettendo in sottofondo i versi delle
balene; il caos, l’accidente lo va a cercare, ma il Drugo conosce
una dimensione superiore. Uno stato di grazia raggiunto, ad esempio,
quando si stende per terra e manda nelle cuffiette la registrazione
delle giocate di bowling – solo i suoni dei lanci e dei birilli
colpiti – col sorriso beato del mistico che si allarga sulla
faccia. Una suggestione troppo ardita?
«Niente affatto»,
ribatte Mina di Sospiro ridendo. «Ho scritto due saggi su The big
Lebowski e lo ritengo il miglior film della storia del cinema. Il
bowling, poi, ha un po’ di spin anche lui. Un giorno stavo salendo
le scale del mio club e ho sentito il rumore delle palline sui tavoli
da gioco, e anche a me questa sensazione sonora ha messo il sorriso
sulle labbra. Quello di chi tocca un’altra dimensione».
Pagina 99, 16 aprile 2016
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