Nei testi parla di
tempo, morte, amori perduti, ma non c’è mai l’ostentazione del
dolore tipico del rock: il motivo?
«Cerco di andare più a
fondo. Se la morte è la fine, l’esortazione è a lasciare cose
belle: canzoni, libri e film. Per questo difendo la lingua italiana».
Gli altri non lo
fanno?
«Noto un lessico povero.
Il problema non è chi oggi canta di droga, ma la poetica che manca.
Di droghe cantavano anche Stones e Velvet Underground, con urgenza
espressiva senza rampantismo. Nei ’70 vedevo gente consumata dalla
vita interiore che si faceva di eroina. Non erano i più stupidi, ma
i più fragili e angosciati».
Di droghe fece uso
anche lei.
«Volevo non dormire per
mordere la vita, ma frequentavo gente che non stimavo e smisi»
“Il Messaggero”, 25
aprile 2019
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