Lorenzo Lotto, Triplice ritratto di orefice |
«Nella età, e solo,
senza fidel governo et molto inquieto dela mente». Così il 25 marzo
1546 Lorenzo Lotto si predisponeva a dettare il suo testamento.
Poteva avere intorno ai sessantacinque anni (non conosciamo con
precisione l’anno di nascita), ma all’epoca Tiziano, che aveva
circa la stessa età (nemmeno la sua è certa), dipingeva all’apice
della fama i ritratti dei due uomini più potenti al mondo: il papa
Paolo III e l'imperatore Carlo V.
L’inquieto Lotto,
invece, senza «la dona da ben de governo... e la massara », privo
di moglie, figli e persino di un garzone fedele, e «maxime che de
l’arte non guadagnava da spesarmi », sta in quegli anni
girovagando tra Venezia, sua città natale, dove trova ospitalità
presso un nipote, Mario d’Armano, e Treviso. Qui viene accolto
dalla famiglia dell’amico Giovanni dal Saon, nella cui casa spera
di trovare «fidelissimo governo in tute le comodità honeste al
bisogno humano e quiete de l’animo». Ma le cose vanno diversamente
e lamentandosi vittima di maldicenze, riprende la strada per Venezia
per fermarsi, questa volta, a casa dell’orefice amico Bartolomeo
Carpan (di cui esegue il triplice ritratto) che lo assiste durante
una malattia. Insomma è sempre in fuga, senza fissa dimora, e a
disagio con tutti.
Eppure a Treviso Lotto
aveva cominciato una carriera promettente quando, riconosciuto
intorno ai venticinque anni già come «pittore famosissimo», il
vescovo Bartolomeo de’ Rossi gli commissionava il ritratto. Bravo,
dunque, ma non quanto il coetaneo Raffaello (che forse era persino di
poco più giovane), chiamato assieme a lui a Roma da Giulio II per
affrescare le Stanze dei nuovi appartamenti in Vaticano.
Lorenzo Lotto, Trionfo della castità |
Mentre per il bel
Raffaello, l’amato dalle donne, andò così bene che il papa gli
affidò tutte le Stanze, per Lotto quel prestigioso incarico si
rivelò un fiasco perché pochi anni dopo il suo lavoro fu
cancellato.
Non andava diversamente
nella sua Venezia dove al confronto con Tiziano, la sua pittura
appariva, anche lì, mancante di misura classica, di monumentalità
nelle figure e di magniloquenza. Così come anche le sue donne
dipinte non avevano mai la bellezza sfrontata di quelle di Tiziano,
capelli sciolti o vestiti scollati, ma erano tutte addirittura un po’
bruttine perché a Lotto non piaceva idealizzare e detestava le bugie
della retorica. Il suo era un sermo humilis e più dei soldi e
della gloria, lo interessavano gli studi ermetici e alchemici o
dissertare de rebus coelestibus con Battista Suardi, il nobile
bergamasco che gli commissionò gli affreschi di una piccola cappella
a Trescore nel 1923, quando nell’intera Europa correva il panico
per il diluvio di acque previsto a causa della grande congiunzione
dei pianeti nel segno dei Pesci e dell’avvento dell’Anticristo
Lutero, «diluvio de la Chiexia». Eppure Lotto aveva dipinto anche
il ritratto di Lutero e della ex suora diventata sua moglie; aveva
avuto rapporti con personaggi poi inquisiti per eresia, ma lavorò
tutta la vita per i domenicani, i cani di Dio, ovvero i guardiani
dell’ortodossia contro tutte le eresie, specialmente quelle che
arrivavano in Italia attraverso i confini a Nord. Aveva anche fatto
un primo testamento a favore dell’Ospedale dei derelitti, un
istituto di carità annesso alla chiesa domenicana dei Santi Giovanni
e Paolo dove chiedeva di venir sepolto, vestito con il saio.
Dunque della sincera
religiosità di Lotto non si poteva dubitare. Tanto che quella serpe
dell’Aretino, che tirava la volata al successo di Tiziano, riuscì
ad affossarlo proprio lodando la sua devozione, superiore all’arte
di dipingere.
Vasari fece il resto e
scrisse il De profundis dedicando al Lotto una smilza paginetta fra
la vita di Palma il Vecchio e quella del Rondinello, oscuro seguace
di Bellini. Nessun complimento uscì dalla sua penna, ma ancora una
volta solo la sottolineatura che Lotto «era vivuto costumatamente e
buon cristiano, così morì, rendendo l’anima al Signore Dio».
Dal 1540 fino alla morte
tutti i conti, le peregrinazioni, le spese per i quadri, le date, i
nomi dei committenti e anche i soldi pagati per poter spogliare una
modella, «solo veder », insomma tutto il grigiore quotidiano della
vita del Lotto sono minuziosamente annotati nel «Libro di spese
diverse».
Gli ultimi anni
trascorsero per lo più nelle Marche dove già da giovane aveva
lavorato con successo, ma pur sempre di provincia. Nel 1550, a corto
di soldi e clienti, organizzò un’asta ad Ancona di quarantasei
dipinti che si era stancato di portare avanti e indietro per
l’Italia. La vendita fu un insuccesso e Lotto si dovette
accontentare del ricavato di solo sette quadri. Quattro anni dopo
«per non andarmi advolgendo più in mia vecchiaia ho voluto quetar
la mia vita in questo santo loco» scriveva il 15 agosto 1554 ed
entrava come oblato nella comunità religiosa della «Santa casa di
Loreto» impegnandosi a dedicare il resto della vita al servizio di
quella.
Un documento del 9 luglio
1557 ci informa che quel pittore ansioso, ipersensibile, melanconico
e pessimista, era già deceduto.
Corriere della Sera, 2
marzo 2011
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