Sul finire del 2001 –
dopo l'attentato alle Torri Gemelle – si scatenò da parte della
stampa, non solo governativa (al governo c'era Berlusconi), ma anche
di opposizione una sorta di “caccia all'antiamericano”. In quella
temperie politica, percorsa da interventismi (dall'Afghanistan
all'Iraq) e da venti di guerra, Rossana Rossanda osò rivendicare il
proprio antiamericanismo. Scrissi in quell'occasione per “micropolis”
l'articolo che segue. Il compagno “filoamericano” di cui scrivo
come un maestro, pur senza farne il nove, è Maurizio Mori, che è
morto qualche anno fa. Manca moltissimo a me e a non pochi altri.
(S.L.L.)
Gli appassionati della
materia, purtroppo sempre meno numerosi, sanno che Marx riteneva
possibile nell'America democratica quella transizione pacifica al
socialismo, che giudicava assai improbabile negli stati europei. Non
era il solo del resto, in Europa, a considerare “speciali” gli
USA. A costruirne il mito aveva contribuito, tra i primi, Goethe, che
agli StatiUniti aveva dedicato un'ode:
America, a te va
meglio
che al nostro
continente, quello antico:
tu non hai castelli in
rovina,
e non hai basalti.
Te nell'intimo non
turbano,
quando è tempo di
vivere,
ricordi inutili e
contese vane.
Sii felice, nel
servirti del presente!
È qui concentrata
l'ideologia del “nuovo inizio”, il sogno della libertà che
sopprime, con le memorie, le gerarchie. Nel corso dell'Ottocento ne
ribadisce il fascino il libro fin troppo celebrato di Tocqueville
sulla democrazia americana, pieno di liberale diffidenza, ma anche di
ammirazione. Una svolta nell'immaginazione dell'America si compie
tuttavia verso la fine del secolo, come effetto della rivoluzione
industriale. A segnalarla è, tra gli altri, un testo celebre, un
discorso di Roosevelt del 1932, pubblicato con il titolo Sul
governo progressista. Il presidente del New Deal rievoca dapprima
Hamilton e Jefferson, tra loro in contrasto, ma solo per un diverso
approccio allo stesso problema, l'individuo e la sua libertà. Nel
loro tempo “non c'erano poveri” e alle depressioni economiche si
poteva reagire salendo su un carro coperto e spostandosi ad ovest,
ove le praterie vergini promettevano un paradiso. Gli States così
offrivano chances non solo ai residenti, ma anche ai poveri che da
tutto il mondo continuavano ad arrivare. Ma l'avanzata del vapore -
spiega Roosevelt - produce il nuovo sogno di “una macchina
industriale, capace di aumentare il livello di vita per tutti, di
portare il superfluo alla portata dei più umili”. Il mito del
benessere, della ricchezza si accompagna e, un po' per volta, si
sostituisce a quello della libertà. Ne nasce, per il celebre
presidente, una irrisolta contraddizione: per corroborare questo
sogno di sviluppo la politica sostiene le grandi compagnie
finanziarie e perfino i trusts, ma il risultato è l'aumento delle
disparità e delle povertà. Nel Novecento pertanto non esistono più
né l'originaria eguaglianza di opportunità, né un ovest da
colonizzare, né un'abbondanza senza fine da promettere ai poveri
d'Europa.
Il disegno storico di
Roosevelt risente di semplificazioni propagandistiche, ma non manca
di una sua verità interna, rintracciabile nei documenti più vari,
perfino nelle canzoni popolari italiane. Nell'Ottocento a quella
notissima del figlio che chiede alla mamma cento lire per andare in
America ne corrisponde un'altra che evoca l'“America allegra e
bella”, l'“America sorella”. È il tempo in cui negli USA,
oltre che in Brasile e in Argentina, emigrano dall'Italia non
soltanto i poveri genericamente intesi, ma i protagonisti delle
guerre civili striscianti che percorrono il neonato regno, capi del
brigantaggio meridionale, ex-garibaldini delusi, anarchici e
socialisti d'ogni regione, dopo le feroci repressioni. L'emigrazione
è insieme politica e sociale.
Nel Novecento la
situazione muta. I bastimenti partono per Nuova York ancora carichi
di poveri e di dissidenti, ma l'accoglienza è diversa. “E nce ne
costa lacreme st'America”, spiega la celebre canzonetta napoletana,
aggiungendo considerazioni sul “pane amaro”; un altra, siciliana,
ironizza sulla presunta facilità di guadagno (“Monì, monì, monì,
dov'è questa monì?”). Un testo poetico francese del 1911,
considerato con Zone di Apollinaire il capostipite del
modernismo novecentesco, La Pasqua a New York di Blaise
Cendrars, insieme a tante novità di linguaggio, fornisce un'immagine
in questo caso tradizionale, ma molto forte dei nuovi americani:
Signore, la folla dei
poveri per cui tu facesti il Sacrifizio,
È qui chiusa e
stabulata come bestiame, nell'ospizio.
Immensi battelli neri
vengono dagli orizzonti
E li sbarcano alla
rinfusa sopra i ponti.
Ci son Greci,
Spagnoli, si trovano Italiani,
Son Russi, sono
Bulgari, son Mongoli, Persiani.
Sono bestie da circo,
saltano i meridiani,
Gli gettano un
pezzetto di carne nera come ai cani.
All'autore, che
rappresenta la “morte di Dio” nel quadro di questa prima
mondializzazione, appare chiaro il dominio del capitale finanziario:
Signore, la Banca
illuminata è come una cassaforte
Ove si è coagulato il
Sangue della tua morte.
Se sfogliamo le Poesie di
Efrem Bartoletti pubblicate dal Comune di Costacciaro, che
“micropolis” ha già schedato, scopriamo in un autore autodidatta
e proletario la stessa idea. Bartoletti, in America, era arrivato
intorno al 1910, da clandestino. Da operaio è militante e dirigente
del mitico I.W.W (Industrial Workers of the World), espressione del
sindacalismo rivoluzionario, scrive poesie di lotta, che pubblica a
New York nel 1919, titolandole Nostalgie Proletarie. La
retorica è quella della poesia della rivolta tardo ottocentesca, ma
c'è l'intuizione di una realtà nuova, mirabile e mostruosa. Alcune
delle poesie rievocano l'Umbria nativa, ma altre più numerose
esprimono la protesta ed un sogno di riscatto. Una coppia di sonetti
è dedicata, ad esempio, “ai due giganti” Lenin e Trotzkji,
paragonati a Bruto e Collatino. Un'altra, intitolata XII Ottobre,
immagina il ritorno di Colombo, “bello e grande”, in America,
questa volta “ai liti di Manathan”:
De la Babel novella ei
così giunge
negli angiporti, tra
le folle oscure,
e dove a Creso Moloch
si congiunge
in ree congiure.
Vede cozzar miseria ed
opulenza,
e l'uom su l'uomo
consumar delitti,
e Amore, Pensier
libero e Coscienza
fuggir, proscritti.
L'America, nelle poesie
del nostro, terra di esuli affamati, di operai abbrutiti dalla
fatica, di pallidi e macilenti minatori ( “sepolta gente ... nata a
luce spenta”, che “sotterra suda e stenta e, paria invendicato,
muor sovente”), ma anche di eroi della rivolta, di proletari, figli
del Reno, del Tevere e del Po, del Tamigi, del Danubio, del Volga e
della Senna, che suonano la campana dei Vespri e realizzano l'ideale
di Carlo Marx nel nuovo mondo (Ai ribelli del Minnesota).
Bartoletti tornò in
Italia nel 1920 e, da socialista, fu eletto sindaco a Costacciaro,
ma, perseguitato dal fascismo, di nuovo riparò negli USA, terra di
conflitti, ma anche di libertà. Scrisse fino agli anni Cinquanta
altre poesie in cui continua a condannare il capitalismo e lo
sfruttamento d'oltreoceano, ma pure ad esaltare taluni aspetti della
libera America. Una è dedicata al presidente Roosevelt, che “frenò
gli stimoli... dei voracissimi banchieri ... con briglie federali”.
L'analisi socio-politica non è lucidissima, ma il sentimento è
autentico.
Abbiamo scelto di parlare
del sogno americano usando soprattutto poeti, ma avremmo potuto
seguire altri percorsi, parlare dei neri, degli ebrei, del cinema,
del jazz, del rock; ne sarebbe comunque scaturito un sentimento
ambivalente. È forse il caso di rifletterci. In un tempo in cui
siamo pieni di americanissimi, pronti ad esecrare ogni dissenso, ha
certamente fatto bene Rossanda a gridare sul manifesto il suo
antiamericanismo; ma credo non si sbagli neanche un nostro compagno
di lunga storia e memoria che ricorda come dagli USA gli giungesse
negli anni cupi del regime un vento di libertà e come, anche dopo,
nell'Italia repubblicana e democristiana, “eravamo noi
antiamericani i veri filoamericani, quelli che dell'America amavano
la letteratura, i film, la musica, la ricerca teorica”.
L'America è diventata
nel corso del Novecento il cuore di un modo di produrre e di vivere,
il centro di un impero che produce insieme ricchezza e miseria,
oppressione e libertà, lo specchio di una contraddizione che la
storia non ha ancora risolta. È certo che noi internazionalisti non
parteciperemo mai agli USA Day , che non sventoleremo mai bandiere a
stelle strisce per salutare con entusiasmo guerre e bombardamenti.
Non amiamo le bandiere, neanche il tricolore italiano, specie se
diventa arma di quelli che Efrem Bartoletti chiamava i
“lustrapatria”. Ma non c'è solo l'America dei generali e delle
multinazionali, c'è quella del meticciato, della protesta radicale e
delle libertà che rimane nei nostri cuori, nelle nostre menti e
nelle nostre biblioteche. Possiamo anche portarla alle
manifestazioni, se ce ne viene voglia.
"micropolis", novembre 2001
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