Edmondo De Amicis |
Sullo scorcio del mille
ottocento sessantasei si sperava m Italia che il colera, da cui molte
province erano state invase in quell’anno, non sarebbe ritornato
nell'anno successivo. Ritornò invece, come tutti sanno, e più fiero
c più ostinato di prima, e fra tutte le provincie italiane quella
che ne patì più gravi danni fu la Sicilia, della quale scriverò
quasi esclusivamente, per riuscire più ordinato e più breve.
Nei mesi di gennaio e
febbraio del sessantasette il colèra mietè qualche vittima nelle
vicinanze di Girgenti, e specialmente in Porto Empedocle; donde, nel
mese di marzo, si sparse per tutta la provincia, e da questa,
nell’aprile, in quella di Caltanisetta, e crebbe poi
fierissimamente in entrambe durante il mese di maggio, favorito dai
calori estivi che si fecero sentire un mese prima a cagione della
lunga siccità. Nè scemò punto nel giugno, eccetto che nella città
di Caltanisetta, in cui decrebbe rapidamente; chè anzi, nei primi
giorni di quell’istesso mese, invase la provincia di Trapani,
quella di Catania, quella di Siracusa, e sul cominciar di luglio
Palermo, e sul cominciar d’agosto Messina. Intanto si era propagato
per quasi tutte le altre provincie d’Italia, e particolarmente in
quelle del mezzogiorno, e più che in ogni altra in quella di Reggio,
dove menò la sua ultima e più spaventevole strage sul cadere
dell’anno.
Fin dai primi indizi che
si manifestarono nelle provincie di Girgenti e di Caltanisetta, il
generale Medici, comandante della divisione di Palermo, quasi
antivedendo il terribile corso dell’epidemia, rimise in vigore
tutte le cautele igieniche prescritte dal Ministero della guerra nel
sessantacinque; divise i corpi in un numero maggiore di distaccamenti
perché nessuna città e nessun villaggio ne rimanessero privi;
ordinò che dappertutto si aprissero ospedali militari pei colerosi,
infermerie pei sospetti e case di convalescenza nei punti più
appartati e salubri; istituì in ogni presìdio una commissione di
sorveglianza sanitaria; prescrisse nettezza rigorosa e accurate e
frequenti disinfezioni in tutte le caserme; sospese ogni movimento di
truppa dai luoghi infetti agli immuni; impose ad ogni corpo e ad ogni
distaccamento di prestarsi prontamente e largamente a qualunque
richiesta delle autorità civili per il servizio dei cordoni sanitari
e per sussidiare le guardie nazionali nella tutela della pubblica
sicurezza; ingiunse che si cercassero e si preparassero nelle
vicinanze delle città principali i luoghi più adatti ad accamparvi
le truppe nel caso che se ne fosse presentata la necessità; migliorò
il vitto dei soldati con distribuzioni quotidiane di vino e di caffè;
infine esortò gli ufficiali a preparare gli animi dei soldati a
quella vita di sacrifizi, di perìcoli e di stenti che ciascuno in
cuor suo già presentiva ed aspettava coll’animo rassegnato e
fortificato dall’esperienza dell’anno precedente. Altrettali
provvedimenti prendevano nello stesso tempo la più parte dei
comandanti divisionali dell’altre provincie italiane, e dappertutto
si allestivano ospedali, si disinfettavano caserme, ed era un
affaccendarsi continuo di medici e d’ufficiali, un continuo dare e
ricever ordini, un insolito rimescolìo d’uomini e di cose come
all’aprirsi d’una guerra; in una parola, quella viva agitazione
degli animi che suol precedere i grandi avvenimenti, e che ognuno
esprime così bene a sè stesso colle parole: — Ci siamo!
Ma per quanto fossero
disposti a fare pel bene del paese l’esercito e i cittadini animosi
ed onesti, tre grandi forze nemiche dovevano rendere per molta parte
e per lungo tempo inefficace l’opera loro; la superstizione, la
paura, la miseria, assidue compagne della morìa presso tutti i
popoli e in tutti i tempi.
Nel maggior numero dei
paesi, e particolarmente nei più piccoli, i sindaci e molti altri
pubblici officiali abbandonavano il proprio posto al primo apparir
del colèra, e da qualche paese disertavano tutti ad un tempo colle
famiglie e gli averi. I ricchi, gli agiati, tutti coloro che
avrebbero potuto soccorrere più efficacemente le plebi, fuggivano
dalla città e si rifugiavano nelle ville. In pochi giorni tutte le
case della campagna erano ingombre di cittadini fuggiaschi, e non
solo di ricchi, ma di chiunque possedesse tanto da poter vivere
qualche giorno senza lavorare, e prendere a pigione, anche a costo di
gravissimi sacrifici, un abituro, una capanna, un qualunque
bugigattolo, pur che fosse lontano dalla città e appartato, quanto
era possibile, da ogni abitazione.
Abbandonata a se stessa e
impaurita dall’altrui paura e dalla solitudine in cui veniva
lasciata, la povera gente fuggiva anch’essa ed errava a frotte per
la campagna, traendo miseramente la vita fra i languori dela fame. Il
generale terrore veniva accresciuto dal ricordo delle grandi sventure
patite negli anni andati; se ne predicevano, come sempre accade,
delle peggiori; si reputavano già tali fin dal loro cominciamento;
in ciascuna provincia si esageravano favolosamente le stragi delle
altre; in campagna si narravano orrori della morìa delle città; in
città altrettanto della campagna.
Come si trovasse ridotta
la popolazione che rimaneva ne’paesi è facile immaginarlo. Tranne
poche città, essendo dappertutto abbandonate o disordinate le
amministrazioni comunali, si trascuravano i provvedimenti igienici di
più imperiosa necessità. Talora le popolazioni, reputando
fermamente che quei provvedimenti fossero inutili, ricusavano di
prestarvi l’opera propria, senza la quale essi riuscivano
inefficaci, per quanto fosse il buon volere delle Autorità e lo zelo
dei pochi cittadini che pensavano ed operavano dirittamente.
S’aggiunga che molti paesi erano rimasti senza medici, senza
farmacisti, e tutti poi, anche i più grandi, erano desolati dalla
miseria che la carestìa dell’anno precedente aveva prodotto, e lo
scarso ricolto di quell’anno, e l’enorme mortalità avvenuta
negli armenti, accresciuto. Falliti gran parte dei negozianti;
interrotta la costruzione delle strade ferrate; lasciate a mezzo
molte opere pubbliche provinciali e comunali; molti opifici chiusi;
gli operai senza lavoro; serrate dapprima le botteghe di oggetti di
lusso, da ultimo moltissime delle più necessarie; le officine
abbandonate; centinaia di famiglie ridotte a non vivere d’altro che
d’erbe e di fichi d’India; in ogni parte la fame, lo
scoraggiamento e lo squallore.
Per colmo di sventura si
propagava ogni dì più e metteva radici profonde nel popolo l’antica
superstizione che il colèra fosse effetto di veleni sparsi per
ordine del governo, che il volgo di gran parte dei paesi del
mezzogiorno , per uso contratto sotto l’oppressione del governo
cessato, tiene in conto d’un nemico continuamente e nascostamente
inteso a fargli danno per necessità di sua conservazione. In
Sicilia, questa superstizione era avvalorata dal convincimento che il
governo si volesse vendicare della ribellione del settembre, e però
una gran parte dei provvedimenti sanitari presi dalle Autorità
governative incontravano nella plebe un’opposizione accanita, ogni
atto aveva il colore d’un attentato , in ogni ordine si sospettava
una mira scellerata, da ogni menomo indizio si traeva argomento a
conferma del veneficio, in ogni nonnulla se ne vedeva una prova. Gli
ospedali, le disinfezioni, le visite dei pubblici officiali, tutto
era oggetto di diffidenza, di paura, di abborrimento. I poveri non si
risolvevano a lasciarsi trasportare negli spedali che nei momenti
estremi, quando ogni cura riusciva inefficace. Morivano la più
parte, e per ciò appunto si credeva più fermamente dal volgo che le
medicine fossero veleni, e i medici assassini. Preferivano morire
abbandonati, senza soccorsi, senza conforti. Non credevano al
contagio, e però abitavano insieme alla rinfusa sani ed infermi,
famiglie numerose in angusti e immondi abituri, terribili focolari di
pestilenza. Occultavano i cadaveri per non esser posti in isolamento,
o perché ripugnavano dal vederli seppelliti nei campisanti, invece
che nelle chiese, come è uso in molti di quei paesi; o per la stolta
opinione che sovente gli attaccati dal colèra paiano, ma non siano
morti davvero, e rinvengano dopo qualche tempo. Si poneva ogni cura a
deludere le ricerche delle Autorità. Spesso si resisteva colla forza
agli agenti pubblici che venivano per trarre dalle case i cadaveri
corrotti; si gettavano questi cadaveri nei pozzi, si sotterravano
segretamente nell’ interno delle case. In alcuni paesi, per
trascuranza delle Autorità o per difetto di gente che si volesse
prestare al pietoso ufficio, i cadaveri, comunque non contesi dai
parenti, si lasciavano più giorni abbandonati nelle case, o venivano
gettati e lasciati scoperti nei cimiteri, o si ricoprivano di poche
palate di terra, così che intorno intorno ne riusciva ammorbata
1’aria, e non si trovava più chi volesse avvicinarsi a que’
luoghi, e bisognava scegliere altri terreni alle sepolture.
I pregiudizi volgari
venivano segretamente fomentati dai borbonici e dai clericali. Eran
sospetti di veneficio tutti gli agenti della forza pubblica, i
carabinieri, i soldati, i percettori delle dogane, gli officiali
governativi. In alcuni paesi della Sicilia era sospetto di
avvelenamento qualunque italiano del continente; in qualche luogo
tutti indistintamente gli stranieri erano sospetti. Si spargevano e
si affiggevano per le vie proclami sediziosi, eccitanti alla vendetta
ed al sangue. Tratto tratto le popolazioni armate di falci, di
picche, di fucili, si assembravano, percorrevano tumultuosamente le
vie dei paesi cercando a morte gli avvelenatori; minacciavano o
assalivano le caserme dei carabinieri e dei soldati; irrompevano
nelle case dei medici, e le mettevano a sacco; si gettavano nelle
farmacie e vi distruggevano e disperdevano ogni cosa; invadevano
l’ufficio del comune, laceravano la bandiera nazionale,
abbruciavano i registri e le carte; costringevano le guardie
nazionali a batter con loro la campagna in traccia degli
avvelenatori; andavano a cercarli nelle case; credevano d’averli
rinvenuti, li costringevano coi pugnali alla gola a immaginare e
confessare dei complici, li trucidavano, ne straziavano i cadaveri e
li abbruciavano nelle vie e nelle piazze. Intere famiglie, accusate
di veneficio, venivano improvvisamente aggredite di notte da turbe di
popolani, e vecchi, donne, bambini cadevano sgozzati gli uni a piedi
degli altri senza aver tempo di scolparsi o di supplicare; e si
ardevano le case e se ne disperdevano lerovine. A Via Grande, a
Belpasso, a Gangi, a Menfi. a Monreale, a Rossano, a Morano, a
Frassineto, a Porcile, nel Potentino, nell’Avellinese, in cento
altri luoghi, continui assembramenti e ribellioni e delitti orrendi
di sangue.
Ogni giorno il popolo
trovava una pietra, un cencio, un oggetto qualsiasi, che credeva
intriso di veleno. Si recava in folla dal sindaco portando l’oggetto
avvelenato, faceva venir medici e farmacisti a sperimentarlo, e
voleva che i resultati dell’esperimento fossero com’ei riteneva
che dovessero essere, o dava in minaccie e in violenze. In alcuni
paesi la forsennatezza del volgo era giunta a tal segno, che gran
parte dei cittadini, dal continuo pericolo di venir accusati come
avvelenatori ed uccisi, s’eran trovati costretti a barricarsi in
casa con qualche provvisione di cibo, vivendo così nascosti e
rinchiusi come prigionieri. Ciò destava più forti i sospetti, si
assalivan le case, ne seguiva una lotta. Nei luoghi e ne’ giorni in
cui per la mitezza del morbo il volgo era meno brutalmente feroce,
gli accusati di veneficio eran soltanto vituperati e percossi, e poi
trascinati, lordi di sangue, al cospetto del sindaco. Alle volte i
funzionari municipali, impauriti dall’esasperazione della folla,
non ardivano tentar di distorla dai suoi propositi di sangue ed
esortarla a risparmiare quegli infelici, e rispondevano, come fecero
nel villaggio di San Nicola, che «se ne facesse ciò che pareva più
opportuno.» E la risposta non era ancor detta intera, che quegli
sventurati giacevano a terra immersi nel sangue, e non serbavano più
traccia di sembianza umana. I municipi, dove se ne eccettuino quei
delle città principali, minacciati com’erano e violentati ogni
giorno, avevan perduto ogni autorità, e riuscivano impotenti a
mettere in atto i provvedimenti più rigorosamente necessari alla
pubblica sanità; chè anzi erano costretti a prevenire e compiere
ogni desiderio o volere della plebe a fine di evitare più
deplorabili danni. Dapprima il popolo imponeva che non si lasciasse
entrare in paese anima viva, e il municipio stabiliva un rigoroso
cordone attorno al paese, e ogni commercio cessava; ma appena si
cominciavano a risentire i danni di questa cessazione di commercio,
il popolo voleva che il cordone fosse tolto; rincrudiva il morbo e
un’ altra volta si doveva porre il cordone. E lo stesso accadeva
per tutti gli altri provvedimenti, ora voluti, ora disvoluti, secondo
che la morìa cresceva o decresceva, secondo che la stravolta
fantasia del volgo, per il vario manifestarsi di qualche indizio
supposto, li reputava salutari o funesti.
Insomma ogni cosa era
sossopra; in ogni luogo un desolante spettacolo di miseria e di
spavento; le campagne corse da turbe d’accattoni e sparse d’infermi
abbandonati e di cadaveri; i villaggi mezzo spopolati; nelle città
cessata ogni frequenza di popolo, deserto ogni luogo di ritrovo
pubblico, spento in ogni parte lo strepito allegro della vita
operaia, le strade quasi deserte, le porte e le finestre in
lunghissimi tratti sbarrate, 1’aria impregnata del puzzo
nauseabondo delle materie disinfettanti di cui le strade erano
sparse; da per tutto un silenzio cupo, o un interrotto rammarichìo
di poveri e d’infermi, o guai di moribondi o grida di popolo
sedizioso. A tale si trovaron ridotte le popolazioni di molte
provincie della Sicilia e del basso Napoletano, e fors’anco il
quadro ch’io n’ho fatto non ritrae ch'assai pallidamente i
terribili colori della verità.
da La vita militare, Fratelli Treves, Milano 1888
da La vita militare, Fratelli Treves, Milano 1888
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