Pubblio Virgilio Marone in un'immagine del V secolo dal Codice Vaticano dell'Eneide |
Il guaio di Gesù Cristo
era che non aveva letto i poeti latini. D’altra parte neppure
Ponzio Pilato aveva letto molta poesia. Se l’avesse fatto e in
particolare se avesse letto le egloghe di Virgilio, pubblicate più
di sessant’anni prima dei fatti di Gerusalemme, avrebbe sicuramente
seguito con maggiore attenzione la storia che Gesù Cristo gli
raccontava. Avrebbe potuto riconoscere nell’uomo portato al suo
cospetto colui il cui avvento era stato profetizzato nella quarta
egloga e forse risparmiargli la vita. D’altronde Gesù stesso, se
avesse conosciuto quei versi, avrebbe potuto presentare meglio il
proprio caso. Ma così capita: quelli che potrebbero leggere non
leggono e quelli che leggono non contano. Nessuno di quei personaggi
conosceva la quarta egloga ed è anche per questo che oggi siamo quel
che siamo.
Ma se non ha salvato
Gesù, è stato lui, Virgilio, col VI libro dell’Eneide ad
ispirare la Commedia di Dante. E così in certo qual modo si
compensa l’ignoranza di Cristo e di Pilato.
Virgilio nacque
nell’anno 70 a.C. a Mantova e morì a Brindisi all’età di 49
anni, esattamente duemila anni fa. Era dunque più vecchio del
Cristianesimo. Ottaviano Augusto, benché di sei anni più giovane
del poeta, è stato suo compagno di scuola, Orazio e Ovidio sono
stati suoi contemporanei. Di lui abbiamo un solo ritratto, quel
mosaico su un pavimento a Susa in Tunisia, creato circa un secolo
dopo la sua morte. Alto, snello, coi capelli tagliati corti, sembra
una combinazione di Anthony Perkins e Max von Sydow.
Josif Brodsky |
Di tutti i poeti romani
egli è l’autore più fertile di fatti: la massa di azione,
rapportata alla media dei versi, è maggiore nell’Eneide che
perfino nelle Metamorfosi di Ovidio. E’ un gran piacere
leggere Virgilio, se non altro perché un mucchio di cose accadono
nei suoi versi e, di conseguenza, nell’immaginazione del lettore.
In un certo senso Virgilio è autore più interessante di Omero, da
lui ovviamente imitato; Omero è esageratamente descrittivo e qualche
volta, i suoi aggettivi composti sono davvero una noia. Naturalmente
Virgilio aveva il vantaggio di scrivere sette secoli più tardi,
durante i quali le arti visive s’erano sviluppate abbastanza da far
risparmiare ai poeti la necessità di descrivere la facciata
esistenziale dell’uomo con la stessa precisione del suo paesaggio
intimo.
È vero: sia nelle
Bucoliche che nelle Georgiche Virgilio si è applicato
molto alla descrizione della natura. Tuttavia nel suo caso la natura
era un terreno concreto, arabile, non lo sfondo di qualche atto
eroico. Il suo modo di trattare il mondo circostante differisce
radicalmente non soltanto da quello di Omero, ma anche da quello di
Teocrito. I miti pastori e le loro ninfe, entrati con Teocrito nella
letteratura mondiale, in Virgilio acquistano i tratti mortali dei
contadini italiani. Certamente conversano a lungo di amore e di
poesia, ma sono inusitatamente impegnati in questioni di proprietà
terriera.
La seconda metà del I
secolo avanti Cristo, con cui coincide la carriera poetica di
Virgilio, è stato un periodo di tremendi conflitti civili a Roma
(devastazioni, guerre, epurazioni, confische di proprietà). La gente
agognava alla pace e alla stabilità; è probabilmente per questo che
Virgilio scelse uno sfondo pastorale, cioè rurale, per le proprie
espressioni poetiche e per abituale dimora. La terra era la sola
certezza disponibile e nell’adesione del poeta alla filosofia del
"vivere secondo natura”, risuona una nota di quella
disperazione, che è madre di saggezza.
In altre parole, la
natura è stata per Virgilio un oggetto da osservare, anziché
un’entità simbolica, come è stata anche il soggetto della sua
personale fatica fisica. È stato il primo "gentiluomo-contadino”
di una lunga serie di poeti, che in questo secolo sembra chiudersi
con Robert Frost. Le informazioni pratiche su come trattare questa o
quella pianta, di cui sono piene le Georgiche, gli sono state
probabilmente fornite dai suoi schiavi e dai giardinieri, e talvolta
riescono scoordinate e grezze. Ma proprio questo salva Virgilio dal
rischio di parlare in prima persona. È un poeta che non usa quasi
mai il pronome "io”. Virgilio è il primo poeta "obiettivo",
che tratta l’uomo in sé e non come un "alter ego”. È tutto
meno che narcisista, è (inconsapevolmente) democratico, estremamente
umile. Perciò i suoi versi sono totalmente privi dell’autorità
aprioristica del "poeta” e perciò saranno letti per un altro
millennio, se un altro millennio ci sarà.
In quello che è ritenuto
il suo autoepitaffio, Virgilio afferma di aver «cantato pascoli,
campi e governanti». La parola-chiave è "cantato”: a
differenza del prosatore, il poeta non viene definito dal contenuto
delle sue opere. Un poeta ed il contenuto della sua opera sono
definiti dal timbro della sua voce, dalla sua dizione, dalla scelta e
dall’uso delle parole. In questo senso Virgilio è davvero uno
scrittore imprevedibile. La critica più comune nei suoi riguardi,
dopo la sua morte, era: «usava parole solite in modo insolito». È
un’osservazione sicuramente, suggerita dalle Georgiche, con
la loro dovizia di termini relativi alla tecnica agricola, fino ad
allora di rado incontrati in poesia. Egli letteralmente farcisce i
propri versi di aratri, vanghe, erpici, rastrelli, finimenti,
stanghe, alveari, e così via. E, quel che è peggio, non li usa
simbolicamente.
Virgilio è stato
soprattutto un realista.
Per lui il migliore —
se non l’unico — modo per comprendere il mondo era elencarne i
contenuti. Se qualcosa era rimasto fuori dalle "Bucoliche” e
dalle "Georgiche”, vi pose rimedio con l’"Eneide”. L’
effetto complessivo della sua poesia sul lettore è un inventario del
mondo, e davvero meticoloso. Che parli di piante, pianeti o campi, di
pensieri o di sentimenti, dei destini degli uomini o di Roma, le sue
inquadrature ravvicinate sono insieme avvincenti e sconvolgenti. Come
le cose stesse.
Il suo sforzo di spiegare
il mondo è stato tale da indurlo a scendere perfino negli Inferi. La
descrizione che ne fa è stranamente convincente, perché non è
legata a nessuna dottrina scolastica che miri ad abbellire ciò che
non esiste. Certamente la profezia pronunciata da Anchise suona
falsa, non trova eco al di là del periodo in cui visse il poeta,
Virgilio non fa che rimaneggiare in chiave apologetica il passato
conosciuto. Eppure l’orgoglio per il futuro di Roma che risuona
nella voce di quel vecchio non è soltanto l’orgoglio del poeta per
le conquiste di Roma. Vi si sente la speranza del pagano che —
dobbiamo ammetterlo — pare molto meno egocentrica e più tangibile
di quella del cristiano:
«Tu regere imperio
populos, Romane, memento;
Hae tibi erunt artes;
pacique imponere morem,
Parcere subiectis et
debellare superbos».
Tutto svanisce, eccetto i
sentimenti.
I sentimenti durano, e
rendono riconoscibili i vecchi autori. Il lettore moderno può usare
Virgilio allo stesso modo in cui l’usò Dante nel suo viaggio
attraverso l’Inferno e il Purgatorio: come guida.
L'Espresso, n.17, aprile 1981
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