Nel bagaglio dello
scienziato che posto occupa la metafora e l’analogia, e quanta
libertà ha un ricercatore di superare i condizionamenti culturali
della sua epoca mentre abbozza una nuova teoria che descriva la
natura? Gerald Holton ha dedicato buona parte dell’ultimo decennio
ad esaminare quella che chiama l’immaginazione scientifica, ossia
quei misteriosi percorsi attraverso cui l’intuizione si trasforma
in una struttura formalizzata. A luglio Holton era al festival di
Spoleto per tenervi una conferenza e nella conclusione, in modo
provocatorio e sottile, ha sostenuto che «Non possiamo spiegare
Galileo o Fermi, più di quanto non si possa fare per Mozart o Verdi.
Su questo punto Einstein ha ancora l’ultima parola: qui si trova il
senso del miracolo che cresce sempre più, come lo sviluppo della
conoscenza stessa cresce».
Holton aveva teso questo
tranello finale per distanziarsi dall’uso improprio del suo lavoro
sull’immaginazione: da una parte c’è il pericolo di una
antropologia sul «fare scienza», dall’altra di mutuare dalla
creatività artistica contesti che mal si prestano all’applicazione
nel pensiero scientifico. Nonostante questa specificità la storia
della scienza è lastricata da incidenti di percorso e lo stesso
«metodo» è largamente disatteso.
Ad esempio nella
valutazione dei dati sperimentali l’attitudine scientifica allo
scetticismo lascia il posto a professioni di fede. Holton sostiene
che vi è una «sospensione dell’incredulità» (Suspension of
Disbelief), un termine preso a prestito dalla Biographia
Literaria di Samuel Taylor Coleridge: «Una parvenza di verità
sufficiente a procurare a questi fantasmi dell’immaginazione una
sospensione dell’incredulità per quel momento che costituisce la
fede poetica». Dalton e Mendel rifiutavano di accettare dati che
potessero contraddire le loro supposizioni, i diari di laboratorio di
Millikan - che misurò la carica elettrica dell’elettrone -
dimostrano quanto poco tenesse in considerazione valori difformi da
quelli che utilizzò per la pubblicazione del suo lavoro. In questa
forzatura non vi è dubbio che allo scetticismo si sia sovrapposta
una immaginazione tematica che condiziona i risultati.
Sulla falsariga dei suoi
precedenti lavori Gerald Holton ha dedicato un lungo saggio a
Einstein e alla cultura scientifica del XX secolo. Il volume
del Mulino (1991) corrisponde alle prime due parti dell’opera
originale - pubblicata dalla Cambridge University Press nell’86 -
mentre la terza parte è uscita lo scorso anno (sempre per il Mulino
e con il titolo Scienza, educazione e interesse pubblico).
Einstein rimase ostinatamente fedele alle sue idee, è noto che
rifiutò di accettare teorie come la meccanica quantistica di Bohr,
che risultavano ben sorrette dalla base fenomenica, ma basate su
presupposti antitetici ai propri. Non vi è dubbio che la libertà di
uno scienziato sia strettamente circoscritta da un particolare
insieme di temi (Holton li chiama themata) propri di uno
scienziato: tale insieme ne condiziona lo stile, la direzione e il
ritmo di sviluppo della ricerca. E nella misura in cui le mappe di
themata dei singoli scienziati coincidono, ne risulta
parimenti condizionato o indirizzato il cosiddetto progresso della
comunità scientifica in quanto gruppo. D’altra parte le
connotazioni intrinsecamente anarchiche della «libertà» potrebbero
di fatto disperdere lo sforzo complessivo.
In occasione del
conferimento del Nobel Einstein riconobbe che la relatività speciale
comportava dei progressi: riconciliava la meccanica con
l’elettrodinamica, ovvero le rispettive basi dei Weltbilder
(o immagini del mondo) dell’epoca. La teoria riduceva anche il
numero di ipotesi logicamente indipendenti e imponeva l’esigenza di
una chiarificazione dei concetti fondamentali in termini
epistemologici (ad esempio unificava quantità di moto e principi di
energia, dimostrava l’identità di natura fra massa ed energia).
Nel ’16 lo stesso Einstein riferisce in una lettera a de Sitter del
suo «bisogno di generalizzare», e nel ’47 nelle sue Note
autobiografiche torna a criticare il Weltbild dominante in fisica
prima della relatività, a causa della sua assoluta rigidezza
dogmatica: la convinzione che dio avesse creato le leggi newtoniane
del moto, unitamente alle masse e alle forze necessarie, avrebbe
potuto condurre gli scienziati assai lontano. I tentativi di fondare
l’elettromagnetismo su questa struttura teorica erano destinati a
fallire.
La propensione alla
semplicità, tratto assai tipico nella personalità di Einstein,
aveva portato a una teoria che apriva la porta a una serie di
unificazioni. Nel contesto dell’elettrodinamica i fenomeni
elettrici e magnetici potevano essere considerati la stessa cosa,
vista da sistemi di riferimento diversi. Le antiche concezioni di
spazio e tempo risultavano ormai prive del loro carattere di
assolutezza e ridotte a sottoinsiemi di spazio-tempo. Con la
scomparsa della nozione di simultaneità assoluta di eventi distanti,
tutti i fenomeni dovevano essere descritti come propagati da funzioni
spaziali continue. La teoria della relatività agiva come un filtro
rigoroso: anziché imporre soltanto l’assunzione dei fondamentali
concetti meccanici o elettromagnetici, o energetici - come richiesto
dai precedenti Weltbilder - la relatività operava come una
regola selettiva sulla forma e sul tipo delle leggi di natura.
Il manifesto 6 dicembre
1991
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