2.4.19

Einstein. La grande immaginazione per unire ciò che altri avevano diviso (Gianfranco Bangone)



Nel bagaglio dello scienziato che posto occupa la metafora e l’analogia, e quanta libertà ha un ricercatore di superare i condizionamenti culturali della sua epoca mentre abbozza una nuova teoria che descriva la natura? Gerald Holton ha dedicato buona parte dell’ultimo decennio ad esaminare quella che chiama l’immaginazione scientifica, ossia quei misteriosi percorsi attraverso cui l’intuizione si trasforma in una struttura formalizzata. A luglio Holton era al festival di Spoleto per tenervi una conferenza e nella conclusione, in modo provocatorio e sottile, ha sostenuto che «Non possiamo spiegare Galileo o Fermi, più di quanto non si possa fare per Mozart o Verdi. Su questo punto Einstein ha ancora l’ultima parola: qui si trova il senso del miracolo che cresce sempre più, come lo sviluppo della conoscenza stessa cresce».
Holton aveva teso questo tranello finale per distanziarsi dall’uso improprio del suo lavoro sull’immaginazione: da una parte c’è il pericolo di una antropologia sul «fare scienza», dall’altra di mutuare dalla creatività artistica contesti che mal si prestano all’applicazione nel pensiero scientifico. Nonostante questa specificità la storia della scienza è lastricata da incidenti di percorso e lo stesso «metodo» è largamente disatteso.
Ad esempio nella valutazione dei dati sperimentali l’attitudine scientifica allo scetticismo lascia il posto a professioni di fede. Holton sostiene che vi è una «sospensione dell’incredulità» (Suspension of Disbelief), un termine preso a prestito dalla Biographia Literaria di Samuel Taylor Coleridge: «Una parvenza di verità sufficiente a procurare a questi fantasmi dell’immaginazione una sospensione dell’incredulità per quel momento che costituisce la fede poetica». Dalton e Mendel rifiutavano di accettare dati che potessero contraddire le loro supposizioni, i diari di laboratorio di Millikan - che misurò la carica elettrica dell’elettrone - dimostrano quanto poco tenesse in considerazione valori difformi da quelli che utilizzò per la pubblicazione del suo lavoro. In questa forzatura non vi è dubbio che allo scetticismo si sia sovrapposta una immaginazione tematica che condiziona i risultati.
Sulla falsariga dei suoi precedenti lavori Gerald Holton ha dedicato un lungo saggio a Einstein e alla cultura scientifica del XX secolo. Il volume del Mulino (1991) corrisponde alle prime due parti dell’opera originale - pubblicata dalla Cambridge University Press nell’86 - mentre la terza parte è uscita lo scorso anno (sempre per il Mulino e con il titolo Scienza, educazione e interesse pubblico). Einstein rimase ostinatamente fedele alle sue idee, è noto che rifiutò di accettare teorie come la meccanica quantistica di Bohr, che risultavano ben sorrette dalla base fenomenica, ma basate su presupposti antitetici ai propri. Non vi è dubbio che la libertà di uno scienziato sia strettamente circoscritta da un particolare insieme di temi (Holton li chiama themata) propri di uno scienziato: tale insieme ne condiziona lo stile, la direzione e il ritmo di sviluppo della ricerca. E nella misura in cui le mappe di themata dei singoli scienziati coincidono, ne risulta parimenti condizionato o indirizzato il cosiddetto progresso della comunità scientifica in quanto gruppo. D’altra parte le connotazioni intrinsecamente anarchiche della «libertà» potrebbero di fatto disperdere lo sforzo complessivo.
In occasione del conferimento del Nobel Einstein riconobbe che la relatività speciale comportava dei progressi: riconciliava la meccanica con l’elettrodinamica, ovvero le rispettive basi dei Weltbilder (o immagini del mondo) dell’epoca. La teoria riduceva anche il numero di ipotesi logicamente indipendenti e imponeva l’esigenza di una chiarificazione dei concetti fondamentali in termini epistemologici (ad esempio unificava quantità di moto e principi di energia, dimostrava l’identità di natura fra massa ed energia). Nel ’16 lo stesso Einstein riferisce in una lettera a de Sitter del suo «bisogno di generalizzare», e nel ’47 nelle sue Note autobiografiche torna a criticare il Weltbild dominante in fisica prima della relatività, a causa della sua assoluta rigidezza dogmatica: la convinzione che dio avesse creato le leggi newtoniane del moto, unitamente alle masse e alle forze necessarie, avrebbe potuto condurre gli scienziati assai lontano. I tentativi di fondare l’elettromagnetismo su questa struttura teorica erano destinati a fallire.
La propensione alla semplicità, tratto assai tipico nella personalità di Einstein, aveva portato a una teoria che apriva la porta a una serie di unificazioni. Nel contesto dell’elettrodinamica i fenomeni elettrici e magnetici potevano essere considerati la stessa cosa, vista da sistemi di riferimento diversi. Le antiche concezioni di spazio e tempo risultavano ormai prive del loro carattere di assolutezza e ridotte a sottoinsiemi di spazio-tempo. Con la scomparsa della nozione di simultaneità assoluta di eventi distanti, tutti i fenomeni dovevano essere descritti come propagati da funzioni spaziali continue. La teoria della relatività agiva come un filtro rigoroso: anziché imporre soltanto l’assunzione dei fondamentali concetti meccanici o elettromagnetici, o energetici - come richiesto dai precedenti Weltbilder - la relatività operava come una regola selettiva sulla forma e sul tipo delle leggi di natura.

Il manifesto 6 dicembre 1991

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