Memoria storica della
sinistra: «Il Partito democratico è stata una fusione a freddo di
stati maggiori, senza la spinta popolare. Infatti è finita come
avevo previsto»
Lo sguardo ha
attraversato un secolo e punta dritto al futuro. Giovedì 21 marzo
compirà 95 anni, eppure Emanuele Macaluso, «grande vecchio» e
memoria storica della sinistra italiana, ha ancora l’energia, la
lucidità e la passione politica per arrabbiarsi quando parla
dell’Italia di oggi e indirizzare le giovani generazioni verso
l’Italia di domani. Io sono in uscita dalla vita, ma guardo avanti,
perché il momento è più che drammatico e mi angoscia pensare a
come lascerò questo Paese. «La mia battaglia politica — ricorda
col suo eterno accento siciliano — cominciò nel 1941 a 17 anni,
quando entrai nella lotta clandestina. Ho cercato di dare quello che
ho potuto. Ho fatto anche degli errori, ma non mi sono mai
risparmiato. Ho sempre lottato per costruire la sinistra e per un
Paese che contasse nel mondo. Sono preoccupato, guardo all’avvenire
e mi chiedo, dove andiamo?».
Bilocale
zeppo di libri
Rione Testaccio, sabato
pomeriggio. Macaluso vive al quinto piano in un bilocale zeppo di
ricordi e di libri: «Ne ho accumulati talmente tanti che ho dovuto
foderare il garage e regalarne molti alle biblioteche. La mia casa è
piccolissima». Soggiornino, camera da letto, cucina, bagno, il tutto
lontano anni luce da ogni idea di casta o privilegio: «Questo non è
un quartiere, è un paese. Chi abita qui non si chiama romano, ma
testaccino». In tv sta per iniziare Spal-Roma e la signora Enza, la
moglie dal cuore giallorosso che ha 81 anni e li porta alla grande,
stacca gli occhi dallo schermo per il tempo dei saluti: «Queste
riprese dentro gli spogliatoi io le detesto, non le guardo. Sono
bruttissime». Macaluso ride e va a sedersi in cucina, sotto una luce
fioca: «Adesso lei deve vedersi la partita, io no, non sono
romanista, sono per il Napoli da quando ero un ragazzo. Perché? È
una storia lunga». E tutte queste medicine? «Qualche problema di
cuore, qualche problema di stomaco... Vizi di gioventù».
Padre
operario delle ferrovie
Nato nel ‘24 a
Caltanissetta da mamma casalinga e padre operaio delle ferrovie, si
iscrive al Pci prima della caduta del regime fascista. Nel ‘47
diventa segretario regionale della Cgil, nel ‘56 Togliatti lo
chiama nel comitato centrale del Pci. Eletto alla Camera dei deputati
nel ‘63, sarà parlamentare per sette legislature senza mai
rinnegare l’appartenenza alla corrente migliorista, la stessa di
Napolitano. Giornalista, scrittore e da qualche tempo anche blogger,
ha diretto “l’Unità” e “Il Riformista” e scritto per anni,
come recita il titolo di uno dei sui libri, «un corsivo al giorno».
Si è pentito di aver
creduto nel comunismo?
«La parola sinistra oggi
suona quasi come un’offesa, per non dire del socialismo. Ma io non
sono un comunista pentito. Ho capito quale svolgimento doveva avere
la storia della sinistra e del Pci e penso che il modo in cui
Occhetto fece la svolta della Bolognina poteva essere diverso. Ci
voleva un partito che unificasse tutta la sinistra, già dopo la
Liberazione bisognava costruirlo».
Ha votato alle primarie
del Pd?
«Mia moglie vota, io no.
Non sono iscritto e credo che le primarie vadano bene per eleggere il
candidato premier, non il segretario, che in tutto il mondo è eletto
dagli iscritti. Se con 2 euro e un certificato chiunque può votare,
viene fuori un partito liquido. È questa la prima riforma che
Zingaretti deve fare. Io non ho mai aderito al Pd, perché penso sia
stata una fusione a freddo di stati maggiori, senza spinta popolare.
E infatti è finita come avevo previsto nel libro “Al capolinea”.
Zingaretti viene dalla sinistra, è stato segretario dei giovani del
Pci e parlamentare europeo. È saggio ed è un buon amministratore».
Il nuovo segretario vuole
rifare la «ditta» Pci-Pds-Ds?
«Questa parola mi
indigna un po’, quando la sento mi inc... A parlare di ditta fu
Aldo Tortorella per dire che noi dovevamo stare sempre dalla parte
del Pci. Adesso la usano in senso spregiativo, perché non conoscono
le cose. Io avrò tanti difetti, ma non sono così cretino da pensare
che si possa rifare il Pci».
Lei in quale direzione
andrebbe?
«Io ho 95 anni, ma chi
ha l’età per battersi deve costruire un partito per le nuove
generazioni, insediato nel territorio. I circoli sono quasi tutti
chiusi, il Pd non fa opposizione».
Personalità come
Gentiloni e Veltroni hanno ancora qualcosa da dire?
«Nel Pd ci sono persone
che hanno una storia politica, ma la mia critica è molto seria e
parte dalla fine dei partiti e del Pci. L’obiettivo fondamentale di
D’Alema, Fassino, Veltroni e tutti gli altri era portare al governo
una forza che non c’era mai stata, senza avere un disegno politico
nella società. Ma un partito che non si ponga questo problema non
può fare argine alla destra».
L’onda verde che parte
dalla giovane Greta può risvegliare speranze?
«C’è qualcosa che sta
maturando, ma qual è lo sbocco politico? Esiste una forza che offra
possibilità di esprimere politicamente queste spinte sociali e
civili? Una forza in grado di portarsi dietro la storia del
socialismo italiano, innovandola e portandola nel futuro, ancora non
la vedo. Se Zingaretti non riforma il Pd, sbaglia. Dice che l’io è
finito e che ora c’è il noi. Ma questo noi deve organizzarlo,
basti solo dire che il Pd non ha mai fatto un congresso. In tutto il
mondo il congresso si fa sulle mozioni e sulla linea politica, non
certo con le primarie. Un partito che non ha organismi dirigenti veri
e propri e si basa sul leaderismo è un aggregato politico-elettorale
a servizio del capo. Se Renzi ha potuto fare l’opa, è perché non
c’era una struttura di partito».
Il suo giudizio su Renzi?
«È stato un problema
serio. Si vanta di aver distrutto il M5S e invece ha anticipato molte
cose dei grillini, dalla questione dei privilegi dei parlamentari,
alle polemiche contro le istituzioni. È arrivato persino a togliere
la bandiera europea e non ha mai creduto nel Pse. Infatti incontrò
il leader dei Ciudadanos spagnoli, quelli che fecero l’accordo con
la destra contro i socialisti. Renzi non sa cosa sia la sinistra,
mentre Zingaretti lo sa».
Zingaretti può tenere
testa a Salvini?
«Di certo non può
essere Di Maio a fare da argine, perché sorride, sorride, ma non ha
consistenza. Sono stati i grillini a dare gli strumenti del governo a
uno che si mette le giubbe e fa campagna continua. Conte poi è una
anomalia assoluta. Non è mai successo nel mondo che si possa entrare
in politica da presidente del Consiglio. Gli unici allenati al
governo sono i leghisti, a cominciare da Giorgetti, tanto che si sono
mangiati il M5S».
Cosa pensa del consenso
per Salvini?
«La Lega è da sempre un
partito aggrappato al potere. Ora Salvini sta facendo un’altra
cosa, un partito di destra razzista, che lucra consensi sulla paura.
Prima in Italia i razzisti erano al 7%, ora sono al 34%, perché
Salvini ha risvegliato sentimenti che le forze democratiche avevano
contenuto. Quali? Il razzismo brutale e antisemita del fascismo.
Questi istinti si espandono anche al sud, tra le stesse persone che i
leghisti volevano seppellire politicamente grazie all’aiuto
dell’Etna e del Vesuvio. Salvini ha sfondato sul terreno del
razzismo e del potere. Lui è l’uomo che vince e quindi i
disoccupati politici, in virtù del trasformismo, si riciclano con il
vincitore. La tentazione su cui non si riflette abbastanza, è il
modello Orban. E noi sappiamo che in Italia c’è stato un transito
verso il fascismo».
Pensa che il fascismo
possa tornare?
«No, non si ripetono i
fenomeni. Mi riferisco alla democratura, alla democrazia illiberale
del primo ministro ungherese Viktor Orban, alla sua insofferenza
verso la libera stampa, che ha imbavagliato. Ho una preoccupazione e
la debbo dire. Gli italiani considerano Salvini l’uomo forte, che
decide e fa le cose. Questa tendenza è pericolosa, perché di fronte
a una crisi economica e sociale può maturare».
Ma Salvini non è solo al
governo, c’è Di Maio e c’è Conte.
«Il presidente del
Consiglio non sa niente, l’Italia non ha una politica estera.
Questo governo va a tentoni, un po’ dentro la Ue e un po’ fuori,
un po’ con l’America e un po’ contro. E adesso vengono i
cinesi»».
La preoccupa anche
l’accordo economico sulla Via della Seta?
«Se un Paese ha una sua
politica estera chiara, le scelte economiche non devono preoccupare.
Ma in Italia il ministro degli Esteri cerca di barcamenarsi e il
problema è che poi parlano Salvini e Di Maio e così anche le
manovre economiche diventano poco chiare».
Perché gli intellettuali
non fanno sentire la loro voce?
«Lo scarso impegno degli
intellettuali nella battaglia politica e culturale mi angoscia molto.
Dopo la guerra si impegnarono tutti, socialisti, comunisti,
cattolici, azionisti. Un elenco straordinario di scrittori, pittori,
registi, professori universitari. Mi vengono in mente nomi come
Bobbio, Guttuso, Marchesi, De Filippo, Levi, Calvino, Moravia,
Rosi...».
E adesso?
«Silenzio».
Si è fatto buio, la Roma
sta prendendo «i suoi soliti gol del cavolo», Macaluso si alza e,
tra icone russe e antiche madonne siciliane, indica due quadri appesi
in salotto: «Quel manifesto Guttuso lo realizzò per me, quando feci
una elezione in Sicilia nel ‘55».
E quel disegno?
«Sempre di Guttuso. Me
lo regalò quando ero direttore dell’Unità, nel 1982, per la festa
del Primo Maggio. Quando i giornali (ride, con un guizzo negli occhi)
erano giornali».
"Corriere della sera", 17 marzo 2019
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