Trovo nel bel sito di
“Volere la luna” un articolo di Francesco Pallante, professore
associato di Diritto Costituzionale a Torino, che sul “manifesto”
mi era sfuggito. Denuncia non solo la crudeltà, ma anche
l'incostituzionalità di certe politiche sanitarie. Situazioni come
quella descritta, infatti, non sono infatti presenti solo in Umbria.
(S.L.L.)
Per quanto nota, la
ferocia della dittatura del denaro non cessa di stupire.
Ne giunge riprova dalla
Regione Umbria, dove il ricovero delle persone anziane malate
croniche non autosufficienti nelle residenze sanitarie assistenziali
(RSA) a carico del Servizio sanitario regionale è, per ragioni di
costo, prefissato in massimo 90 giorni, decorsi i quali il paziente
«deve rendersi pienamente disponibile alla dimissione» (così si
legge nelle comunicazioni rivolte ai malati), a prescindere dalla
circostanza che sia o meno guarito – e, anzi, persino nel caso in
cui le stesse strutture sanitarie ragionali dovessero accertarne la
persistente condizione di malattia.
Un caso recente è
particolarmente significativo.
Riguarda il quasi
novantenne signor G.S., che, raggiunti gli 88 giorni di ricovero –
peraltro non continuativi – in una RSA di Terni, si vede recapitata
una lettera in cui gli viene intimato di prepararsi alle dimissioni,
mentre, nel contempo, l’Equipe Centro di Salute 1 di Terni
(appartenente alla Usl Umbria 2) ne certifica il disastroso quadro
clinico.
A leggere la
documentazione c’è da rimanere senza parole: il signor G.S. «è
invalido al 100%» ed è afflitto da patologie quali «scompenso
cardiaco con fibrillazione arteriale persistente», «insufficienza
respiratoria cronica», «spondiloartrosi diffusa», «frattura
vertebrale», «esofagite erosiva con grave anemizzazione», «litiasi
vescicale con idroureteronefrosi bilaterale», «trombosi venosa
profonda all’arto inferiore sinistro», «gozzo tossico»,
«attacchi ischemici transitori ricorrenti», «lesioni da decubito»,
«declino cognitivo», «depressione». Dato il quadro, la
conclusione è scontata: «il signor G. S. non è autonomo né nei
trasferimenti né nell’utilizzo della sedia a rotelle», «è
completamente dipendente nell’igiene personale e nella vestizione»,
«necessita di controlli accurati alla diuresi» con «corretta
gestione del catetere» e «sostituzione periodica dello stesso»,
«necessita di cibo adeguatamente preparato per la somministrazione»,
«non è in grado di assumere farmaci autonomamente», «necessita di
prelievi periodici» per determinare il dosaggio dei farmaci stessi.
In poche parole: «necessita di assistenza continua nelle 24 ore».
Come possa il sistema
sanitario pubblico pretendere di dimettere un paziente in queste
condizioni – assicurandogli, oltre all’assistenza infermieristica
strettamente necessaria, l’assistenza domiciliare per appena un’ora
al giorno e per soli sei giorni a settimana – è incomprensibile.
L’articolo 2 della
legge n. 833 del 1978, attuativa dell’articolo 32 della
Costituzione, individua quali compiti della sanità «la diagnosi e
la cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la
fenomenologia e la durata». La precisazione sulla durata non è
senza significato, perché – come nel caso del signor G. S. –
esistono malattie che non sono guaribili, ma rimangono pur sempre
curabili.
La sanità umbra viene
consapevolmente meno al dovere di cura, se è vero che nel medesimo
documento le sue strutture affermano che il paziente ha necessità di
assistenza continua nelle 24 ore e s’impegnano a intervenire per
un’ora al giorno e nemmeno tutti giorni della settimana. E per le
restanti 23 ore giornaliere? Evidentemente dovranno pensarci i
parenti, che – pur non avendo obblighi di prestare cure sanitarie e
socio-sanitarie – dovranno rinunciare a lavorare e dar fondo ai
propri (eventuali) risparmi.
A fronte dell’opposizione
alle dimissioni presentata dai congiunti del signor G.S., l’USL
Umbria 2 ha inviato loro la fattura delle spese derivanti dal
prolungamento della degenza nella RSA, pari a 135 euro al giorno. Per
un anno si raggiunge la cifra di 49.275 euro. L’assistenza
domiciliare sarebbe meno onerosa, ma costerebbe comunque decine di
migliaia di euro all’anno. C’è di che mandare in rovina una
famiglia.
A questo siamo giunti? Al
punto che per curare un congiunto malato le famiglie devono
rovinarsi? Spinta alle estreme conseguenze, l’aziendalizzazione
della sanità divora il diritto alla salute, invertendo l’ordine
delle priorità costituzionali, che – come recentemente ribadito
dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 275 del 2016) – alle
esigenze dei bilanci antepone quelle dei diritti.
In “il manifesto”, 3
aprile 2019 e nel sito “Volere la luna”
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