4.4.19

Tequila. Lo spirito santo del Messico (Giulia De Luca)


«La tequila, signori, più che un liquore è una magia/Allontana la tristezza e calma i dolori/Rende esperto l’amante e raffinato il cantante/Ti riscalda d’inverno/D’estate ti esalta e sempre ti offre conforto e speranza». Versi come questi corrono di bocca in bocca nello Stato messicano di Jalisco, terra dell’agave, la pianta base per l’elaborazione della tequila. E sono ormai diventati parte dell’identità nazionale. Ma non è stato sempre così.
Disprezzato dalle classi alte, prima vietato e poi legalizzato, il “vino de mezcal” o tequila ha una storia di proibizioni e liberalizzazioni che riflettono la parabola stessa del Messico, passando dal disprezzo al trionfo con il ritrovato nazionalismo della rivoluzione messicana (1910-1917).
«Ci accompagna nei momenti più solenni, che siano tristi o di grande felicità, per questo si dice che per ogni tipo di male c’è il mezcal, e per ogni tipo di bene anche», racconta a pagina99 lo storico e professore messicano José María Muriá, membro dell’Accademia messicana della Storia e autore del saggio El famoso tequila. Muriá è un appassionato studioso e bevitore di tequila e il suo amore per il distillato è tale che ci rimise addirittura una fidanzata, proprio per quel pregiudizio che circondava i consumatori della bevanda. «Il padre della mia ragazza non vedeva di buon occhio che io bevessi tequila, era una bevanda associata alle persone di classe bassa: la gente per bene, diceva, beveva cognac. Avrei potuto abbandonare la tequila, però fu più facile cambiare fidanzata».
La storia di alti e bassi della tequila comincia tra il XVI e il XVII secolo, quando i colonizzatori spagnoli scoprirono una specie di caramella che gli indios ricavavano dal cuore dell’agave tequilera. Accortisi che conteneva zucchero sufficiente, gli spagnoli «che volevano bere», ricorda il professor Muriá, «cominciarono a pressarlo e distillarlo per farne un aguardiente; poco dopo però lo proibiscono per evitare la concorrenza con quelle di produzione spagnola, inventandosi che è un prodotto del demonio».
A quel punto la produzione si sposta in luoghi nascosti dove vivevano gli indios, che rapidamente diventano i produttori del proibito mezcal. Nel corso della storia, il governo proibiva o meno la tequila secondo necessità: se si doveva affrontare una grande spesa, si legalizzava monetizzandone il monopolio.
Anche a livello internazionale la tequila è andata in altalena: innaffiò la corsa all’oro in California fino all’arrivo del nazionale bourbon; poi il proibizionismo statunitense ne fece prosperare il traffico illegale. «Durante la Seconda guerra mondiale, poiché i Paesi cosiddetti occidentali erano in guerra e non potevano produrre alcolici, la tequila fu esportata in quantità enormi. Quando la guerra finì si passò dai cinque milioni di litri esportati nel 1944 ai 9 mila litri del 1948. C’è anche da sottolineare», aggiunge il professor Muriá, «che dalla metà degli anni ’80 la qualità della produzione è migliorata molto, abbassando la gradazione alcolica (originariamente di 48°) per offrirsi anche a palati più delicati». Inoltre è stato cambiato un dettaglio nella produzione: «In passato, dovendo tenere in movimento per qualche ora il mosto dell’agave durante la fermentazione, vi si immergeva fino alla vita un uomo nudo che muoveva il mosto per migliorare il processo. La temperatura calda del mosto, però, rendeva difficile trattenere la pipì, che quindi si univa al processo di fermentazione insieme al sudore dell’uomo. Eppure gli anziani dicono che quella tequila era più buona e forse non avevano tutti i torti. Oggi infatti durante la fermentazione si aggiunge al mosto dell’urea prodotta in laboratorio. Quindi probabilmente, in passato, il sudore e gli altri fluidi dell’uomo aggiungevano urea alla tequila dandogli un sapore migliore. Certo, non era proprio raccomandabile per l’igiene…».
Oggi, la tequila è considerato la più messicana delle bevande. Non a caso, un’altra canzone sostiene che «la Santa Madre Chiesa dovrebbe dichiararla seconda bevanda benedetta, per non dire sacra, e usarla nei battesimi come crisma di grazia e nelle estreme unzioni affinché l’anima esca contenta e senza dolore da questa valle di lacrime». Dall’olio santo alla santa tequila il passo potrebbe essere breve.

Pagina 99, 9 aprile 2016

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