«La tequila, signori,
più che un liquore è una magia/Allontana la tristezza e calma i
dolori/Rende esperto l’amante e raffinato il cantante/Ti riscalda
d’inverno/D’estate ti esalta e sempre ti offre conforto e
speranza». Versi come questi corrono di bocca in bocca nello Stato
messicano di Jalisco, terra dell’agave, la pianta base per
l’elaborazione della tequila. E sono ormai diventati parte
dell’identità nazionale. Ma non è stato sempre così.
Disprezzato dalle classi
alte, prima vietato e poi legalizzato, il “vino de mezcal” o
tequila ha una storia di proibizioni e liberalizzazioni che
riflettono la parabola stessa del Messico, passando dal disprezzo al
trionfo con il ritrovato nazionalismo della rivoluzione messicana
(1910-1917).
«Ci accompagna nei
momenti più solenni, che siano tristi o di grande felicità, per
questo si dice che per ogni tipo di male c’è il mezcal, e per ogni
tipo di bene anche», racconta a pagina99 lo storico e professore
messicano José María Muriá, membro dell’Accademia messicana
della Storia e autore del saggio El famoso tequila. Muriá è
un appassionato studioso e bevitore di tequila e il suo amore per il
distillato è tale che ci rimise addirittura una fidanzata, proprio
per quel pregiudizio che circondava i consumatori della bevanda. «Il
padre della mia ragazza non vedeva di buon occhio che io bevessi
tequila, era una bevanda associata alle persone di classe bassa: la
gente per bene, diceva, beveva cognac. Avrei potuto abbandonare la
tequila, però fu più facile cambiare fidanzata».
La storia di alti e bassi
della tequila comincia tra il XVI e il XVII secolo, quando i
colonizzatori spagnoli scoprirono una specie di caramella che gli
indios ricavavano dal cuore dell’agave tequilera. Accortisi che
conteneva zucchero sufficiente, gli spagnoli «che volevano bere»,
ricorda il professor Muriá, «cominciarono a pressarlo e distillarlo
per farne un aguardiente; poco dopo però lo proibiscono per evitare
la concorrenza con quelle di produzione spagnola, inventandosi che è
un prodotto del demonio».
A quel punto la
produzione si sposta in luoghi nascosti dove vivevano gli indios, che
rapidamente diventano i produttori del proibito mezcal. Nel corso
della storia, il governo proibiva o meno la tequila secondo
necessità: se si doveva affrontare una grande spesa, si legalizzava
monetizzandone il monopolio.
Anche a livello
internazionale la tequila è andata in altalena: innaffiò la corsa
all’oro in California fino all’arrivo del nazionale bourbon; poi
il proibizionismo statunitense ne fece prosperare il traffico
illegale. «Durante la Seconda guerra mondiale, poiché i Paesi
cosiddetti occidentali erano in guerra e non potevano produrre
alcolici, la tequila fu esportata in quantità enormi. Quando la
guerra finì si passò dai cinque milioni di litri esportati nel 1944
ai 9 mila litri del 1948. C’è anche da sottolineare», aggiunge il
professor Muriá, «che dalla metà degli anni ’80 la qualità
della produzione è migliorata molto, abbassando la gradazione
alcolica (originariamente di 48°) per offrirsi anche a palati più
delicati». Inoltre è stato cambiato un dettaglio nella produzione:
«In passato, dovendo tenere in movimento per qualche ora il mosto
dell’agave durante la fermentazione, vi si immergeva fino alla vita
un uomo nudo che muoveva il mosto per migliorare il processo. La
temperatura calda del mosto, però, rendeva difficile trattenere la
pipì, che quindi si univa al processo di fermentazione insieme al
sudore dell’uomo. Eppure gli anziani dicono che quella tequila era
più buona e forse non avevano tutti i torti. Oggi infatti durante la
fermentazione si aggiunge al mosto dell’urea prodotta in
laboratorio. Quindi probabilmente, in passato, il sudore e gli altri
fluidi dell’uomo aggiungevano urea alla tequila dandogli un sapore
migliore. Certo, non era proprio raccomandabile per l’igiene…».
Oggi, la tequila è
considerato la più messicana delle bevande. Non a caso, un’altra
canzone sostiene che «la Santa Madre Chiesa dovrebbe dichiararla
seconda bevanda benedetta, per non dire sacra, e usarla nei battesimi
come crisma di grazia e nelle estreme unzioni affinché l’anima
esca contenta e senza dolore da questa valle di lacrime». Dall’olio
santo alla santa tequila il passo potrebbe essere breve.
Pagina 99, 9 aprile 2016
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