Leggo con ritardo i pezzi
che ho ritagliato, invogliato dai titoli, dalle immagini o dai
sommari; li leggo anche dopo mesi o dopo anni, quando ho tempo e
voglia. Questo articolo di Sorgi, pieno di destrismo (comunista e
anticomunista insieme – da stalinisti insomma) e di livore
antisessantottino, lo leggo solo ora e ne soffro. Contiene notizie
interessanti, che in parte non conoscevo e non trovo inutile
depositare nel blog, ma la lettura degli eventi è falsata da una
manifesta unilateralità e si giova di numerose, colpevoli omissioni.
Una di queste omissioni gli serve a costruire un falso: quello di una
sorta di generalizzata ostilità del Pci contro Guevara, le sue idee,
il suo esempio.
È vero che, senza
repliche troppo dure, almeno al vertice del partito, Giorgio Amendola
già nel '66 aveva attaccato “gli strateghi da farmacia” che
auspicavano molti Vietnam, con una evidente allusione al “pamphlet”
Creare due, tre, molti Vietnam,
da molti a ragione giudicato il testamento politico del Che; ma è
altrettanto vero che reazioni nei dibattiti nei Comitati federali non
mancarono e non solo da parte della Fgci, che di ammiratori di
Guevara era piena zeppa. Non sempre peraltro la base del partito
disponeva di informazioni sull'uomo, la sua storia, la sua battaglia:
so di segretari di sezione a cui il nome del grande rivoluzionario
latino-americano era ignoto.
È
letteralmente falsa la freddezza delle reazioni del Pci, dopo
l'assassinio del Che in Bolivia. La reazione fu lenta per l'iniziale
incertezza delle notizie, ma non si limitò di certo all'articolo di
Petruccioli. Come “l'Unità” di quei giorni documenta, Ernesto
Che Guevara venne commemorato in centinaia di riunioni a tutti i
livelli e in alcune città furono organizzate dal PCI manifestazioni
di massa, riparando così anche ai precedenti difetti di
informazione. Come avveniva solo nelle occasioni più solenni un
documento ufficiale di cordoglio venne diffuso a firma del Comitato
Centrale e venne fatto affiggere anche nei più sperduti paesini –
cosa che non veniva fatta dal tempo della morte di Togliatti – un
manifesto di lutto che piangeva il rivoluzionario, combattente per la
libertà e medico dei lebbrosi (S.L.L.)
Renato Guttuso nel suo studio con Giorgio Amendola |
Renato Guttuso s’era
preso una sbandata per il ’68. Sembra incredibile, pensando
all’austerità del pittore ufficiale del Pci scomparso nel 1987.
Guttuso, notoriamente filosovietico, era stato officiato del Premio
Lenin, veniva ricevuto a Mosca come un’autorità, considerato un
esempio tra i maggiori del «realismo socialista». Eppure, come
emerge dai documenti della mostra che si aprirà domani alla Gam di
Torino, con alcuni dei suoi più importanti dipinti politici, nella
primavera del Maggio francese il pittore visse una sorta di tormento
e un completo rivolgimento, personale ed esistenziale, prima che
politico. Qualcosa che lo portò in rotta di collisione con uno dei
suoi più grandi amici nel partito, il leader storico della destra
comunista Giorgio Amendola (immortalato, tra l’altro, in un
memorabile ritratto a olio). In uno scritto riservato ma assai
esplicito, espresse al «caro Giorgio» dubbi, perplessità e riserve
sulla linea di contrapposizione che il Pci aveva assunto verso il
Movimento studentesco.
La lettera è datata 14
giugno 1968. Meno di un mese prima, alle elezioni del 19 maggio, il
Pci aveva guadagnato quasi un milione di voti. Due mesi prima, il 19
aprile, Luigi Longo, il leggendario comandante partigiano «Gallo» e
allora segretario comunista, aveva ricevuto a Botteghe Oscure una
delegazione di studenti romani guidata da Oreste Scalzone (poi
coinvolto in indagini sui fiancheggiatori del terrorismo e latitante
a Parigi con Toni Negri per molti anni). Amendola, fiero oppositore
del movimento, di cui contestava quelli che ai suoi occhi apparivano
evidenti limiti, come l’approssimazione culturale, il marxismo
superficiale e i primi cedimenti alla violenza, per un po’ s’era
tenuto, trincerandosi in un silenzio che decise di rompere
all’improvviso il 7 giugno, con un fiammeggiante articolo su
Rinascita.
Fin dal titolo,
«Necessità della lotta su due fronti», il testo si presentava come
drastico raddrizzamento di una linea valutata troppo cedevole: dovere
del Pci, a suo giudizio, era condurre una battaglia parallela senza
esclusione di colpi contro «l’opportunismo socialdemocratico» e
«l’estremismo settario». Un estremismo, quello del Movimento, del
tutto inaccettabile, dagli attacchi al Pci all’assemblearismo, agli
slogan delle manifestazioni inneggianti alla violenza, ai non chiari
rapporti economici con la Cina, agli striscioni con la faccia di Che
Guevara – repulsione, quest’ultima, condivisa con il resto del
partito.
Si pensi che quando il Che era stato assassinato in Bolivia,
il 9 ottobre ‘67, non si trovò un solo dirigente comunista di
livello disposto a commemorarlo, e dovendosi pur pubblicare qualcosa
sull’Unità, fu precettato l’allora segretario della Fgci Claudio
Petruccioli. Che lo criticò garbatamente, come si fa con i morti, ma
fu egualmente stigmatizzato con una nota di rammarico dell’ambasciata
dell’Avana a Roma.
L’articolo di Amendola
aveva sollevato reazioni nella sinistra del partito, da Lucio
Lombardo Radice a Rossana Rossanda a Davide Lajolo. Ma una replica di
Guttuso, da sempre annoverato tra gli amendoliani e amico personale
del compagno Giorgio, non era immaginabile. Invece, a una settimana
dall’uscita di Rinascita, la busta vergata a mano con la
caratteristica grafia del pittore era stata recapitata a
destinazione.
Scusandosi per non poter
intervenire al dibattito sulla vittoria elettorale in Comitato
centrale, Guttuso contestava subito «la critica nei confronti del
Movimento studentesco» perché «non accompagnata da sufficiente
autocritica sulle esitazioni, i ritardi, i distinguo» del partito,
forse condizionato da «irrigidimenti postumi, specie da parte
sovietica», e non in grado di cogliere «i motivi profondi di
rivolta» sviluppatisi «senza attivo intervento dei comunisti, ai
quali è toccato spesso di far da freno».
Di qui il fendente più
vigoroso: «Noi abbiamo discusso sull’opportunità di portare in
giro la faccia, ma non sulla sballata ideologia di Guevara, Debré e
del loro maestro Althusser. Credi che la faccia di Garibaldi abbia
contato poco, ai suoi giorni?». Seguiva una presa in giro di
intellettuali come Adorno e Marcuse, del «vecchio Lukács», e delle
loro strane teorie, genere «oggi è l’Eros il fantasma che
percorre l’Europa», che si affermavano liberamente, perché chi
avrebbe dovuto contrastarle, come ad esempio il filosofo Cesare
Luporini, le condivideva dichiaratamente. La conclusione era che il
Pci si sarebbe dovuto aprire e confrontare con gli studenti. Come
appunto per la prima volta Guttuso confessava apertamente di aver
fatto.
All’epoca della
lettera, infatti, il pittore aveva pienamente maturato la sua
sbandata, tra Parigi e Roma. Imbevuto dell’atmosfera del Maggio e
della «Rive gauche», sentendosi ringiovanito, era entrato in
contatto con il gruppo situazionista degli «Uccelli», in cui
militava l’attuale direttore del Tgcom24 Paolo Liguori. Aveva
partecipato all’occupazione di Architettura a Valle Giulia,
illustrandone con un graffito la facciata, condividendo il progetto
di trasformarla in una comune agricola e finanziando personalmente
l’acquisto di un gregge di pecore, che vennero messe a pascolare
nel parco della facoltà, fino al duro intervento della forza
pubblica per liberare l’edificio, che ispirò a Pasolini la famosa
poesia a favore dei poliziotti e contro gli studenti.
Amendola, che rispose
blandamente alla lettera, forse consapevole del carattere ombroso dei
siciliani, la sua rivincita se la prese nel 1978. Celebrando il
decennale del ’68 in una lunga intervista sull’Unità, ripropose
pari pari le sue posizioni (peraltro oggettivate dall’escalation
del terrorismo) e concluse che anche Longo, ormai fuori gioco, sotto
sotto era d’accordo con lui: quegli studenti a Botteghe Oscure li
aveva ricevuti solo a scopo elettorale.
La Stampa, 22 febbraio
2018
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