2.4.19

Migrazioni. Palermo - New Orleans: dagli "ukilladucif" a Nick La Rocca (Mimmo Cangemi)



Poche vele messe al vento e il brigantino si scostava dalla banchina, spezzando il filo steso lento tra il ponte e i punti d’ormeggio sul molo. L’attimo in cui quel filo si tranciava, pendendo in due spezzoni, era il distacco definitivo, le vite che si separavano. Se il tratto fissato alla terraferma era più lungo, significava il ritorno. Teste invece chine alla rassegnazione se succedeva il contrario. A bordo, gli emigranti s’accalcavano alle balaustre per i saluti, per le ultime immagini da imprimere nella mente. Giù, i familiari raccolti a grumi. Sventolavano mani, fazzoletti, mischiavano muco e lacrime, senza staccare lo sguardo dal veliero che, nel prendere distanza e velocità, spartiva di prua l’acqua in due sbuffi uguali.
Fino agli ultimi decenni dell’800, i viaggi oceanici verso l’America li affrontavano quei vascelli di legno, veloci, facili alle manovre, con velatura grande e molto alta e con due alberi, di trinchetto e di maestro, a vele quadre, o tre, il terzo di mezzana a vele auriche.
Gli emigranti cominciarono ad andarsene dal 1870, per la povertà rimasta intatta, o peggio, e le speranze già deluse dall’Italia unita. Dal porto di Palermo partivano i brigantini Cinque Sorelle, Catarina, Elisabetta. Con un carico di disperati, siciliani di Girgenti, di Salaparuta, dei Nebrodi e delle Madonie, di Palermo, ammassati nelle stive da non venire da credere che vi fossero respiri bastevoli a saziare i polmoni di tutti. La destinazione era New Orleans, Louisiana. Toccava affidarsi al vento, ai suoi capricci, senza certezza di quanto sarebbe durata la traversata, non meno di 25 giorni, a volte più di 50. Un carico d’arance e di uomini all’andata. Un carico di cotone e di uomini al ritorno.
A osservare oggi Nave Italia, il brigantino più grande al mondo, lungo 61 metri, non ci si riempie gli occhi, si ricava l’impressione che i suoi antenati non potessero riuscire ad attraversare l’acqua interminabile, non fossero in grado di spuntarla sulla rabbia del mare se avesse deciso d’accanirsi sulle fiancate e non di limitarsi a rimbalzarne sconfitto, in una miriade di spruzzi, e avrebbero lamentato contorti gemiti legnosi fino a sfasciarsi e colare a picco. Ma così non era, se ce l’aveva fatta Cristoforo Colombo con le caravelle e i Vichinghi con i drakkar.
Già nel 1861, vi si erano stipati militari borbonici presi prigionieri e di cui la patria fresca di conio aveva fretta di disfarsi – un soffio sussurra che molti furono venduti. Li incorporarono nel battaglione Italian Guards del 10° e del 22° reggimento Louisiana dei Confederati. Si comportarono da eroi: del 10°, su 976 effettivi, sopravvissero 18. Altri combatterono per l’Unione, inquadrati nel 39° reggimento Garibaldi Guards. Si coprirono di disonore a Harpers Ferry, sul fiume Potomac, e furono sottoposti alla «marcia della vergogna» che toccava ai codardi. Resta che la guerra di casa nostra era proseguita in America.
Sul finire del XIX secolo, ai brigantini si sostituirono i piroscafi a vapore, che all’inizio conservarono alberatura e vela, da utilizzare in caso di avaria. Correvano più veloci e tenevano meglio il mare. Le ciminiere spandevano intorno una nuvola nera che imbrattava di polvere uomini e cose.
Da Palermo facevano la spola per New Orleans il California, il Manila, il Mosselia, il Liguria, il Vincenzo Florio, che durarono fino al 1904, e il Montebello, il più famoso, che non smise di discendere i paralleli dal 38°, il maledetto dalla collera sotterranea, che attraversa Reggio e Messina, San Francisco, Smirne, fino al 29° di New Orleans.

I nuovi schiavi
Vi giunsero numerosi dalla Sicilia. All’inizio si concentrarono nel quartiere subito annomato Little Palermo, dentro quattro isolati, malfamati, corrosi dalle malattie, assediati dai topi, con bordanti assiepati fino a dieci per stanza, e nelle baracche e ripari di fortuna sparsi in fondo a Vieux Carré. Erano i nuovi schiavi, svolgevano i lavori che i neri già rifiutavano, nei campi di cotone a raccogliere bambagia, nella prateria a costruire la ferrovia, e nelle piantagioni di canna da zucchero, lì una fatica distruttiva, per i danni ai reni dovuti alla disidratazione.
Nel 1891, degli ottantamila abitanti di New Orleans, dodicimila erano siciliani. Fu l’anno del linciaggio di undici di loro accusati d’aver ucciso «the Chief», il capo della polizia, ma risultati innocenti nel processo – ukilladucif fu uno dei nomignoli che i bianchi nativi appiopparono ai nostri, la storpiatura tra italiano e inglese di «they killed the Chief». Non fu l’unico linciaggio. E i colpevoli non fecero mai carcere. Risarcivano, e non sempre, la famiglia di una vittima con 2500 lire. E fece cronaca e rabbia una vignetta con una frase diventata famosa: «Costano tanto poco questi italiani che vale la pena di linciarli tutti».
Razzismo, allora. Li tacciavano d’essere negri camuffati da bianchi. Abbattevano l’odio e le rappresaglie legittimandoli con la colpa che fossero sporchi e cenciosi, attaccabrighe lesti a pungere le carni – da qui, il dago che li inquadrava italiani e indesiderati, da dagger, stiletto. In realtà, disturbava che fraternizzassero con gli afroamericani, che impiegassero poco a tirarsi su impiantando negozi, botteghe di artigiani, commercio all’ingrosso con l’importazione dall’Italia di arance, vino, olio, marsala, che presto avessero abbandonato i tuguri e abitato nel lusso del centro.

Nick La Rocca
A New Orleans fiorirono le bande musicali dei siciliani. Si esibivano la domenica nelle piazze più eleganti. E il jazz – «jass» il nome originario – fu l’incontro dei suoni delle opere sinfoniche e degli spiritual dei neri, da cui derivò una musica che conteneva la combinazione armonica e quella melodica, arricchita dall’improvvisazione, da rapidi cambi dei modelli di ritmo. E fu Nick La Rocca, cornettista nativo di New Orleans, ma con il padre di Salaparuta e la madre di Poggioreale, a portare il jazz alla ribalta nazionale, incidendo Livery Stable Blues, un grande successo di vendita e di critica. Ma qui siamo già oltre il disagio, qui è il riscatto di cui è sempre stata capace la nostra gente.

La Stampa, 23 luglio 2018

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