Poche vele messe al vento
e il brigantino si scostava dalla banchina, spezzando il filo steso
lento tra il ponte e i punti d’ormeggio sul molo. L’attimo in cui
quel filo si tranciava, pendendo in due spezzoni, era il distacco
definitivo, le vite che si separavano. Se il tratto fissato alla
terraferma era più lungo, significava il ritorno. Teste invece chine
alla rassegnazione se succedeva il contrario. A bordo, gli emigranti
s’accalcavano alle balaustre per i saluti, per le ultime immagini
da imprimere nella mente. Giù, i familiari raccolti a grumi.
Sventolavano mani, fazzoletti, mischiavano muco e lacrime, senza
staccare lo sguardo dal veliero che, nel prendere distanza e
velocità, spartiva di prua l’acqua in due sbuffi uguali.
Fino agli ultimi decenni
dell’800, i viaggi oceanici verso l’America li affrontavano quei
vascelli di legno, veloci, facili alle manovre, con velatura grande e
molto alta e con due alberi, di trinchetto e di maestro, a vele
quadre, o tre, il terzo di mezzana a vele auriche.
Gli emigranti
cominciarono ad andarsene dal 1870, per la povertà rimasta intatta,
o peggio, e le speranze già deluse dall’Italia unita. Dal porto di
Palermo partivano i brigantini Cinque Sorelle, Catarina, Elisabetta.
Con un carico di disperati, siciliani di Girgenti, di Salaparuta, dei
Nebrodi e delle Madonie, di Palermo, ammassati nelle stive da non
venire da credere che vi fossero respiri bastevoli a saziare i
polmoni di tutti. La destinazione era New Orleans, Louisiana. Toccava
affidarsi al vento, ai suoi capricci, senza certezza di quanto
sarebbe durata la traversata, non meno di 25 giorni, a volte più di
50. Un carico d’arance e di uomini all’andata. Un carico di
cotone e di uomini al ritorno.
A osservare oggi Nave
Italia, il brigantino più grande al mondo, lungo 61 metri, non ci si
riempie gli occhi, si ricava l’impressione che i suoi antenati non
potessero riuscire ad attraversare l’acqua interminabile, non
fossero in grado di spuntarla sulla rabbia del mare se avesse deciso
d’accanirsi sulle fiancate e non di limitarsi a rimbalzarne
sconfitto, in una miriade di spruzzi, e avrebbero lamentato contorti
gemiti legnosi fino a sfasciarsi e colare a picco. Ma così non era,
se ce l’aveva fatta Cristoforo Colombo con le caravelle e i
Vichinghi con i drakkar.
Già nel 1861, vi si
erano stipati militari borbonici presi prigionieri e di cui la patria
fresca di conio aveva fretta di disfarsi – un soffio sussurra che
molti furono venduti. Li incorporarono nel battaglione Italian Guards
del 10° e del 22° reggimento Louisiana dei Confederati. Si
comportarono da eroi: del 10°, su 976 effettivi, sopravvissero 18.
Altri combatterono per l’Unione, inquadrati nel 39° reggimento
Garibaldi Guards. Si coprirono di disonore a Harpers Ferry, sul fiume
Potomac, e furono sottoposti alla «marcia della vergogna» che
toccava ai codardi. Resta che la guerra di casa nostra era proseguita
in America.
Sul finire del XIX
secolo, ai brigantini si sostituirono i piroscafi a vapore, che
all’inizio conservarono alberatura e vela, da utilizzare in caso di
avaria. Correvano più veloci e tenevano meglio il mare. Le ciminiere
spandevano intorno una nuvola nera che imbrattava di polvere uomini e
cose.
Da Palermo facevano la
spola per New Orleans il California, il Manila, il Mosselia, il
Liguria, il Vincenzo Florio, che durarono fino al 1904, e il
Montebello, il più famoso, che non smise di discendere i paralleli
dal 38°, il maledetto dalla collera sotterranea, che attraversa
Reggio e Messina, San Francisco, Smirne, fino al 29° di New Orleans.
I nuovi schiavi
Vi giunsero numerosi
dalla Sicilia. All’inizio si concentrarono nel quartiere subito
annomato Little Palermo, dentro quattro isolati, malfamati, corrosi
dalle malattie, assediati dai topi, con bordanti assiepati fino a
dieci per stanza, e nelle baracche e ripari di fortuna sparsi in
fondo a Vieux Carré. Erano i nuovi schiavi, svolgevano i lavori che
i neri già rifiutavano, nei campi di cotone a raccogliere bambagia,
nella prateria a costruire la ferrovia, e nelle piantagioni di canna
da zucchero, lì una fatica distruttiva, per i danni ai reni dovuti
alla disidratazione.
Nel 1891, degli
ottantamila abitanti di New Orleans, dodicimila erano siciliani. Fu
l’anno del linciaggio di undici di loro accusati d’aver ucciso
«the Chief», il capo della polizia, ma risultati innocenti nel
processo – ukilladucif fu uno dei nomignoli che i bianchi nativi
appiopparono ai nostri, la storpiatura tra italiano e inglese di
«they killed the Chief». Non fu l’unico linciaggio. E i colpevoli
non fecero mai carcere. Risarcivano, e non sempre, la famiglia di una
vittima con 2500 lire. E fece cronaca e rabbia una vignetta con una
frase diventata famosa: «Costano tanto poco questi italiani che vale
la pena di linciarli tutti».
Razzismo, allora. Li
tacciavano d’essere negri camuffati da bianchi. Abbattevano l’odio
e le rappresaglie legittimandoli con la colpa che fossero sporchi e
cenciosi, attaccabrighe lesti a pungere le carni – da qui, il dago
che li inquadrava italiani e indesiderati, da dagger, stiletto. In
realtà, disturbava che fraternizzassero con gli afroamericani, che
impiegassero poco a tirarsi su impiantando negozi, botteghe di
artigiani, commercio all’ingrosso con l’importazione dall’Italia
di arance, vino, olio, marsala, che presto avessero abbandonato i
tuguri e abitato nel lusso del centro.
Nick La Rocca
A New Orleans fiorirono
le bande musicali dei siciliani. Si esibivano la domenica nelle
piazze più eleganti. E il jazz – «jass» il nome originario –
fu l’incontro dei suoni delle opere sinfoniche e degli spiritual
dei neri, da cui derivò una musica che conteneva la combinazione
armonica e quella melodica, arricchita dall’improvvisazione, da
rapidi cambi dei modelli di ritmo. E fu Nick La Rocca, cornettista
nativo di New Orleans, ma con il padre di Salaparuta e la madre di
Poggioreale, a portare il jazz alla ribalta nazionale, incidendo
Livery Stable Blues, un grande successo di vendita e di
critica. Ma qui siamo già oltre il disagio, qui è il riscatto di
cui è sempre stata capace la nostra gente.
La Stampa, 23 luglio 2018
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