Contro Robert De Niro
aveva boxato un centinaio di round. Tanto per fargli capire come
funzionava. «Nel film sembro uno cattivo», digrignò quando “Toro
Scatenato”, uno dei capolavori di Martin Scorsese, uscì nei cinema
nel 1980. «Ma ho capito che è la verità. Ero un bastardo, un
niente di buono. Non è così che sono, adesso. Ma allora ero così».
Allora Giacobbe “Jake” La Motta aveva 59 anni. Ieri, quando il
Toro del Bronx si è spento per le complicazioni di una polmonite
nella casa di cura in cui era ricoverato, erano diventati 95:
sporchi, travolgenti, irascibili, maleducati. Mai banali.
Prima e dopo il ring Jake
la Motta è stato tante cose. Un ragazzino capace di prendere a
sprangate gli adulti per strada, figlio di un immigrato di Messina
con un banchetto di frutta che a sua volta picchiava lui e la madre.
Comico, gestore di night-club finito in prigione per prostituzione
minorile, gallina dalle uova d’oro della mafia. L’eroe di quelli
che non mollano mai e l’attore di strada capace di recitare in 15
film e persino a fianco di Paul Newman, una particina, nello
Spaccone.
Alla boxe che conta era
arrivato in fretta, a 19 anni. Peso medio anomalo, rognoso,
irriducibile. Uno stile primitivo, imparato in strada: «esci
dall’angolo e colpisci, colpisci, colpisci. Prendi tutte le botte
che l’altro può darti, ma resta in piedi. E picchia, picchia,
picchia». Ray Arcel, uno dei più famosi allenatori di allora:
«quando saliva sul ring era come se fosse dentro una gabbia a
combattere per la sua vita».
A 21 anni, nel 1942, il
primo dei sei match contro Ray Sugar Robinson che hanno costruito la
sua leggenda di toro impossibile da abbattere (“ho incontrato tante
volte Sugar che è un miracolo se non ho il diabete»). La prima
sconfitta di Sugar dopo 41 match da professionista, l’unica
vittoria di Jake. L’ultimo, il 14 febbraio 1951, il “Massacro di
San Valentino”, con quel 13esimo round da macelleria diventato la
scena madre del film: De Niro ridotto a una maschera di sangue,
appeso alle corde, che irride Robinson e non va mai giù. «Era lì,
con la testa che ciondolava, e improvvisamente con un gancio sinistro
quasi mi spaccò lo stomaco», ha scritto Robinson nelle sue memorie.
«Quella sera capii che La Motta era una specie di animale».
Quella sera Jake perse il
titolo mondiale che aveva vinto nel 1949 per k.o. tecnico contro
Marcel Cerdan, il fidanzato di Edith Piaf che si schiantò in aereo
prima di avere la rivincita. Per arrivarci aveva regalato anche un
match a Billy Fox, nel 1947. Un piacere dovuto a Blinky Palermo, il
manager del suo avversario, uno dei capibastone di Philadelphia come
del resto il suo, di manager, Frankie Garbo. Tutti lo davano
vincente, perse in quattro round e ci rimise 1.000 dollari di multa e
una sospensione di sette mesi per averla fatta troppo sporca. «Se
non avessi perso non sarei mai arrivato a battermi per il titolo»,
ammise nel 1960 davanti alla commissione antimafia del Senato.
Nel 1950 il titolo lo
difese senza mai rischiare contro Tiberio Mitri, il suo doppio
italiano – belle donne, jet set, galera – al Madison di New York.
Dopo la mattanza con Robinson arrivò il declino. Passò ai Massimi
leggeri dove nel 1952 rimediò l’unico k.o. della sua carriera,
contro Danny Nardico.
Nel 1954 si ritirò, con
un record di 83 vittorie (30 k.o.) 19 sconfitte, 4 pareggi,
continuando però a collezionare mogli, sei in totale, una, Vikky, la
bionda del film, ancora adolescente. E poi accuse, denunce, condanne.
Si trasformò in showman, una mezza icona pop con il naso appiattito
dalle botte. «Non c’è verso che io vada giù, con nessuno»,
diceva. «E in tutta la carriera nessuno mi ha veramente fatto male.
Le uniche che mi hanno fatto male sono state le mie mogli».
dl sito "Curiosi di sport"
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