Ci sono quelli che fanno
il bagno (con selfie) nella Fontana di Trevi. Quelli che girano nudi
nel tempio cambogiano di Angkor Wat. Quelli che non resistono alla
tentazione di sfregiare con un graffito il celebre Buddha sdraiato di
Nanzoin, in Giappone, di rubare un manifesto propagandistico in Nord
Corea o di deturpare con lo spray un muro di Auschwitz.
Sulle malefatte dei
turisti maleducati si potrebbero scrivere interi volumi. Ma quando
sui muri di Barcellona iniziano a comparire graffiti (deturpanti) che
recitano «Welcome refugees, tourist go home», è segno che la
misura è quasi colma. In effetti, scrive su “The Conversation”
Freya Higgins-Desbiolles, della University of South Australia, in
molte parti del mondo i turisti sono sempre meno ben accetti. Quasi
sempre per colpa loro. «Il problema è che il turismo è promosso
come un’attività di puro edonismo. Invece di essere incoraggiati a
vedere se stessi come cittadini globali che hanno sia diritti che
responsabilità, ai turisti viene venduta l’illusione di una
indulgenza illimitata. Vengono considerati consumatori, con privilegi
speciali». Autorizzati a tutto, anche al disprezzo degli usi e
costumi altrui (e persino dei propri, quando non sono a casa
propria).
Come esempio di possibile
rimedio, Higgins-Desbiolles indica la campagna neozelandese «The
Tiaki Promise» («proteggere, preservare» in lingua maori) per far
capire che la ricompensa del turista responsabile è l’accoglienza
a braccia aperte, ovvero «l’esperienza senza prezzo che deriva
dallo stare con la gente del posto, anziché imporsi ad essa». Non è
meglio di un graffito o un selfie?
Rassegna Corsera, 10 aprile 2019
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