Su un numero dell'anno scorso de “l'Indice” trovo questa
recensione di un libro sul reddito di cittadinanza (quello vero, cioè
incondizionato, non il pastrocchio che oggi in Italia è presentato
come tale). Elena Granaglia, che insegna scienza delle finanze
all’Università di Roma Tre, che ottimamente ne sintetizza alcune
proposte ed argomentazioni lo presenta come un libro importante,
utilissimo al dialogo democratico. Resto “lavorista” e perciò
contrario a una ipotesi che mi è sempre parsa coerente con il
“liberismo” dominante, ma mi procurerò il libro e lo leggerò
con la dovuta attenzione, visto che – per quel che mi è dato di
capire – non è caratterizzato da eccessivi tecnicismi. (S.L.L.)
Philippe Van Parijs |
Dopo il seminale lavoro del 1995, Real Freedom for All (Oxford
University Press), Philippe Van Parijs torna a offrire un importante
contributo sul reddito di base, Basic Income. A Radical Proposal
for a Free Society and a Sane Economy (Harvard University Press,
2017). Il volume, scritto con Yannick Vander-borght, è oggi
disponibile anche in lingua italiana, Il reddito di base. Una
proposta radicale (pp. 488, € 29, il Mulino, Bologna 2017). Il
nuovo contributo si contraddistingue dal precedente per l’intento
più nettamente politico: l’obiettivo è convincere i cittadini,
non solo altri studiosi, sull’importanza di un reddito di base,
ossia, di un trasferimento individuale erogato a tutti
indipendentemente dalle risorse detenute e dalla disponibilità a
lavorare. Centrale, nell’opera di convincimento, è la messa a
fuoco delle ragioni etiche a favore del reddito di base. Al riguardo,
il valore centrale è la libertà sostanziale per tutti. Il reddito
di base permette di dire no a ricatti e abusi di potere da parte di
familiari, dai quali dovremmo altrimenti dipendere. Permette di dire
no a datori di lavoro che offrono condizioni di lavoro ritenuti
incivili. Evita i rischi d’intrusione, arbitrarietà e imposizione
di comportamenti presenti negli schemi di reddito minimo. Questi
ultimi, infatti, hanno tipicamente la famiglia come unità di
riferimento (per evitare di trasferire denaro a soggetti
individualmente poveri, i quali vivono però in famiglie non povere)
e sono ormai tutti condizionati alla disponibilità a lavorare. Il
che richiede di accertare come si vive e come si dovrebbe vivere.
La libertà è, però, non solo “libertà da”. È,
contestualmente, “libertà di”. Sotto questo pro#lo, il reddito
di cittadinanza offre a ciascuno una base di sicurezze, qualsiasi
siano le condizioni in cui ci si trovi e qualsiasi sia il progetto di
vita che si desideri intraprendere.
Peraltro, anche qualora costretti a convivenze forzate, il reddito di
base offre una soglia di risorse di cui disporre. Ancora, il reddito
di base permette di tenere insieme “portafogli” di attività
diverse, siano esse perseguite per denaro oppure per finalità di
cura (familiare o per la più complessiva comunità). La sicurezza,
inoltre, sarebbe esente da qualsiasi buco nelle coperture, derivi
esso dai tempi di espletamento delle prove dei mezzi o da barriere
all’accesso causate da stigma o carenza di informazione. Questi
contributi appaiono particolarmente attraenti in una situazione, come
quella attuale, di famiglie e occupazioni sempre più instabili. Ma
non è tutto. Il reddito di base supera anche quelli che Van Parjis e
Vanderborght definiscono i suoi cugini.
Diversamente dal salario alle casalinghe, favorisce l’equità nella
ripartizione fra lavoro produttivo e riproduttivo: è accessibile a
chi s’impegna nelle responsabilità di cura, ma lo è anche a chi
decide di lavorare sul mercato. Diversamente dalla riduzione uniforme
e generalizzata dell’orario di lavoro, permette libertà nella
scelta delle ore di lavoro. Ancora, evita i rischi” di “assunzioni
forzate e lavoro forzoso” presenti nella prospettiva dello stato
come datore di lavoro di ultima istanza (e, dunque, dell’offerta a
tutti di un lavoro anziché di un reddito) e associati
all’impossibilità “di coniugare le qualifiche e le aspirazioni
dei disoccupati. È, inoltre, erogato ex ante e continuativamente, a
differenza dell’imposta negativa, erogata ex post, a conguaglio sui
redditi percepiti, o dei trasferimenti, ancorché universali, di
capitale, erogati una tantum e, dunque, esposti al rischio di
sperpero.
Ma non sarebbe violata almeno una libertà, quella di coloro che più
si sforzano sul mercato, che sarebbero tassati a favore di oziosi che
producono nulla?
La risposta di Van Parijs e Vanderborght è netta. Affermano i due
autori: “Noi tutti in modi diversi, ma principalmente attraverso il
reddito da lavoro, beneficiamo in misura estremamente ineguale di ciò
che riceviamo gratuitamente dalla natura, dal progresso tecnologico,
dall’accumulazione del capitale, dall’organizzazione sociale,
dalle norme di buona educazione e così via. Il reddito di base
assicura che ciascuno riceva una quota equa del patrimonio che
nessuno di noi ha contribuito a creare, dell’ingombrante presente
incorporato nei nostri redditi in modo assai disomogeneo”. Detto in
altri termini, le remunerazioni di mercato incorporano una parte di
valore che, lungi dall’essere attribuibile ai singoli, deriva da un
insieme svariato di fattori su cui i singoli non possono vantare
alcun titolo di merito. Tale parte rappresenta un regalo/una rendita,
da considerare risorsa comune. Se così, lungi dal favorire il
parassitismo, il reddito di base rimedia al parassitismo oggi
esistente di chi si appropria di risorse comuni che andrebbero fra
tutti ripartite.
Il fatto che si tratti di restituzione di risorse comuni suffraga
ulteriormente la richiesta di non condizionalità. Come siamo liberi
di fare ciò che vogliamo con i regali ricevuti in eredità dai
nostri familiari, così dovremmo esserlo nei confronti delle quote di
risorse comuni. Le difficoltà di distinguere fra regalo e
remunerazione dell’impegno profuso, di cui siamo legittimi
titolari, potrebbe, però, comportare scelte inefficienti, oltre che
inique, le quali mettono a repentaglio la stessa sostenibilità
economica del reddito di base. A ciò si aggiungono i rischi che
alcuni lavorino comunque meno di quanto lavorerebbero in assenza di
reddito di base. Pur riconoscendo i tanti limiti del Pil come misura
del benessere economico, Van Parjis e Vanderborght non sono ciechi
alla questione della sostenibilità economica. La affrontano,
proponendo di fissare il reddito di base al più alto livello
sostenibile. Nel ragionare su tale livello, invitano, però, a non
sopravalutare i rischi di insostenibilità. Da un lato, il reddito di
base, essendo indipendente dalle risorse detenute, è immune dai
disincentivi al lavoro che affliggono gli schemi selettivi di reddito
minimo. Peraltro, una base incondizionata potrebbe favorire le
transizioni fra i diversi lavori e fra il lavoro in generale e la
formazione, transizioni anch’esse oggi particolarmente apprezzate.
Dall’altro, il reddito di base potrebbe favorire l’assunzione di
rischi e la più complessiva propensione a attivarsi.
Inoltre, il reddito di base sostituirebbe molti dei trasferimenti
attuali (per i quali già paghiamo). Van Pa-rijs e Vanderborght non
sono liberisti che difendono il reddito di base quale sostituto di
tutti servizi oggi erogati dallo stato sociale. Servizi sociali e
investimenti in beni pubblici, quali quartieri decenti, dovrebbero
continuare a essere finanziati. Lo stesso vale per trasferimenti
monetari rivolti alla soddisfazione di bisogni particolari. Ciò
nondimeno, il reddito di base sostituirebbe una parte rilevante degli
attuali trasferimenti monetari. Il reddito di base permette pure di
risparmiare i costi amministrativi dei trasferimenti selettivi.
Il libro aggiunge molte altre interessanti osservazioni.
Ricostruisce, con grande ricchezza di citazioni bibliografiche, le
tante difese del reddito di cittadinanza sviluppatesi dal Settecento
a oggi; discute le possibili resistenze politiche alla sua
introduzione, indicando possibili alleati e oppositori, e affronta
sia le nuove sfide poste dalla globalizzazione, sia le opportunità
offerte dallo spazio comune europeo. Di fronte alle possibili
difficoltà, presenta una proposta concreta. Si tratta, da un lato,
di mantenere il reddito di base come ideale utopico, nel senso sia di
non ancora realizzato, sia di desiderabile, nel pieno riconoscimento
che molte utopie di ieri sono realtà di oggi e, dall’altro, di
ricercare, nel breve, soluzioni “dalla porta sul retro”. In
questa prospettiva, il favore va a un reddito di base parziale, nel
senso di importo limitato, ad esempio, pari al 25% del reddito pro
capite dei diversi paesi. Non posso entrare in questi aspetti. Vorrei
chiudere ponendo una domanda critica e sottolineando alcuni meriti
ulteriori del volume, oltre a quello di offrirci una delle più
complete difese del reddito di base finora formulate.
La domanda è: la proposta del reddito di base non dimentica forse un
ambito importante della giustizia sociale, quello della rego-lazione
della struttura complessiva dei mercati e delle imprese? Van Parjis e
Vanderborght non ignorano del tutto il tema. Secondo loro, il reddito
di base favorirebbe un processo bottom up di cambiamento
attivato dalla possibilità di dire no ai cattivi lavori. Tale
processo, tuttavia, è strettamente dipendente dall’importo del
reddito di base ed è limitato alla parte bassa della distribuzione.
Iniquità quali quelle dovute alla concentrazione dei mercati (oggi
resa possibile dalle tecnologie del consumo non rivale e da diritti
di proprietà intellettuale, che conferiscono privilegi ben oltre le
ricompense necessarie a stimolare l’innovazione), alla
deregolazione finanziaria e a una governance dell’impresa
sempre più finalizzata alla mera massimizzazione del valore delle
azioni re-stano sottovalutate. Aggiungo che più si cercasse di
contrastare queste disuguaglianze strutturali, più diminuirebbe il
valore dei regali e, con esso, quello del reddito di base.
I meriti ulteriori includono la messa in discussione di alcuni luoghi
comuni diffusi nel dibattito pubblico. Penso alle visioni dei
trasferimenti monetari come inevitabilmente passivizzanti e
dell’uguaglianza di risorse come inevitabilmente appiattente e
omogeneizzante, nella sottovalutazione delle connessioni, potenti,
con la libertà. Includono, altresì, l’offerta di una lezione più
generale sul significato di dialogo democratico. Oggi l’arena
pubblica è spesso sede di contrapposizioni fra posizioni difese come
se fossero gusti di cui non si discute e di vittorie attribuite sulla
base dei rapporti di forza. Van Parijs e Vanderborght ci ricordano,
invece, l’importanza di uno stile argomentativo attento alle
motivazioni etiche, ai vincoli di contesto, alle implicazioni
economiche e alle ragioni altrui.
L'Indice, Aprile 2018
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