1.4.19

Una restituzione di risorse comuni. Dal Belgio la più completa e argomentata difesa del reddito di cittadinanza (Elena Granaglia)

Su un numero dell'anno scorso de “l'Indice” trovo questa recensione di un libro sul reddito di cittadinanza (quello vero, cioè incondizionato, non il pastrocchio che oggi in Italia è presentato come tale). Elena Granaglia, che insegna scienza delle finanze all’Università di Roma Tre, che ottimamente ne sintetizza alcune proposte ed argomentazioni lo presenta come un libro importante, utilissimo al dialogo democratico. Resto “lavorista” e perciò contrario a una ipotesi che mi è sempre parsa coerente con il “liberismo” dominante, ma mi procurerò il libro e lo leggerò con la dovuta attenzione, visto che – per quel che mi è dato di capire – non è caratterizzato da eccessivi tecnicismi. (S.L.L.)

Philippe Van Parijs

Dopo il seminale lavoro del 1995, Real Freedom for All (Oxford University Press), Philippe Van Parijs torna a offrire un importante contributo sul reddito di base, Basic Income. A Radical Proposal for a Free Society and a Sane Economy (Harvard University Press, 2017). Il volume, scritto con Yannick Vander-borght, è oggi disponibile anche in lingua italiana, Il reddito di base. Una proposta radicale (pp. 488, € 29, il Mulino, Bologna 2017). Il nuovo contributo si contraddistingue dal precedente per l’intento più nettamente politico: l’obiettivo è convincere i cittadini, non solo altri studiosi, sull’importanza di un reddito di base, ossia, di un trasferimento individuale erogato a tutti indipendentemente dalle risorse detenute e dalla disponibilità a lavorare. Centrale, nell’opera di convincimento, è la messa a fuoco delle ragioni etiche a favore del reddito di base. Al riguardo, il valore centrale è la libertà sostanziale per tutti. Il reddito di base permette di dire no a ricatti e abusi di potere da parte di familiari, dai quali dovremmo altrimenti dipendere. Permette di dire no a datori di lavoro che offrono condizioni di lavoro ritenuti incivili. Evita i rischi d’intrusione, arbitrarietà e imposizione di comportamenti presenti negli schemi di reddito minimo. Questi ultimi, infatti, hanno tipicamente la famiglia come unità di riferimento (per evitare di trasferire denaro a soggetti individualmente poveri, i quali vivono però in famiglie non povere) e sono ormai tutti condizionati alla disponibilità a lavorare. Il che richiede di accertare come si vive e come si dovrebbe vivere.
La libertà è, però, non solo “libertà da”. È, contestualmente, “libertà di”. Sotto questo pro#lo, il reddito di cittadinanza offre a ciascuno una base di sicurezze, qualsiasi siano le condizioni in cui ci si trovi e qualsiasi sia il progetto di vita che si desideri intraprendere.
Peraltro, anche qualora costretti a convivenze forzate, il reddito di base offre una soglia di risorse di cui disporre. Ancora, il reddito di base permette di tenere insieme “portafogli” di attività diverse, siano esse perseguite per denaro oppure per finalità di cura (familiare o per la più complessiva comunità). La sicurezza, inoltre, sarebbe esente da qualsiasi buco nelle coperture, derivi esso dai tempi di espletamento delle prove dei mezzi o da barriere all’accesso causate da stigma o carenza di informazione. Questi contributi appaiono particolarmente attraenti in una situazione, come quella attuale, di famiglie e occupazioni sempre più instabili. Ma non è tutto. Il reddito di base supera anche quelli che Van Parjis e Vanderborght definiscono i suoi cugini.
Diversamente dal salario alle casalinghe, favorisce l’equità nella ripartizione fra lavoro produttivo e riproduttivo: è accessibile a chi s’impegna nelle responsabilità di cura, ma lo è anche a chi decide di lavorare sul mercato. Diversamente dalla riduzione uniforme e generalizzata dell’orario di lavoro, permette libertà nella scelta delle ore di lavoro. Ancora, evita i rischi” di “assunzioni forzate e lavoro forzoso” presenti nella prospettiva dello stato come datore di lavoro di ultima istanza (e, dunque, dell’offerta a tutti di un lavoro anziché di un reddito) e associati all’impossibilità “di coniugare le qualifiche e le aspirazioni dei disoccupati. È, inoltre, erogato ex ante e continuativamente, a differenza dell’imposta negativa, erogata ex post, a conguaglio sui redditi percepiti, o dei trasferimenti, ancorché universali, di capitale, erogati una tantum e, dunque, esposti al rischio di sperpero.
Ma non sarebbe violata almeno una libertà, quella di coloro che più si sforzano sul mercato, che sarebbero tassati a favore di oziosi che producono nulla?
La risposta di Van Parijs e Vanderborght è netta. Affermano i due autori: “Noi tutti in modi diversi, ma principalmente attraverso il reddito da lavoro, beneficiamo in misura estremamente ineguale di ciò che riceviamo gratuitamente dalla natura, dal progresso tecnologico, dall’accumulazione del capitale, dall’organizzazione sociale, dalle norme di buona educazione e così via. Il reddito di base assicura che ciascuno riceva una quota equa del patrimonio che nessuno di noi ha contribuito a creare, dell’ingombrante presente incorporato nei nostri redditi in modo assai disomogeneo”. Detto in altri termini, le remunerazioni di mercato incorporano una parte di valore che, lungi dall’essere attribuibile ai singoli, deriva da un insieme svariato di fattori su cui i singoli non possono vantare alcun titolo di merito. Tale parte rappresenta un regalo/una rendita, da considerare risorsa comune. Se così, lungi dal favorire il parassitismo, il reddito di base rimedia al parassitismo oggi esistente di chi si appropria di risorse comuni che andrebbero fra tutti ripartite.
Il fatto che si tratti di restituzione di risorse comuni suffraga ulteriormente la richiesta di non condizionalità. Come siamo liberi di fare ciò che vogliamo con i regali ricevuti in eredità dai nostri familiari, così dovremmo esserlo nei confronti delle quote di risorse comuni. Le difficoltà di distinguere fra regalo e remunerazione dell’impegno profuso, di cui siamo legittimi titolari, potrebbe, però, comportare scelte inefficienti, oltre che inique, le quali mettono a repentaglio la stessa sostenibilità economica del reddito di base. A ciò si aggiungono i rischi che alcuni lavorino comunque meno di quanto lavorerebbero in assenza di reddito di base. Pur riconoscendo i tanti limiti del Pil come misura del benessere economico, Van Parjis e Vanderborght non sono ciechi alla questione della sostenibilità economica. La affrontano, proponendo di fissare il reddito di base al più alto livello sostenibile. Nel ragionare su tale livello, invitano, però, a non sopravalutare i rischi di insostenibilità. Da un lato, il reddito di base, essendo indipendente dalle risorse detenute, è immune dai disincentivi al lavoro che affliggono gli schemi selettivi di reddito minimo. Peraltro, una base incondizionata potrebbe favorire le transizioni fra i diversi lavori e fra il lavoro in generale e la formazione, transizioni anch’esse oggi particolarmente apprezzate. Dall’altro, il reddito di base potrebbe favorire l’assunzione di rischi e la più complessiva propensione a attivarsi.
Inoltre, il reddito di base sostituirebbe molti dei trasferimenti attuali (per i quali già paghiamo). Van Pa-rijs e Vanderborght non sono liberisti che difendono il reddito di base quale sostituto di tutti servizi oggi erogati dallo stato sociale. Servizi sociali e investimenti in beni pubblici, quali quartieri decenti, dovrebbero continuare a essere finanziati. Lo stesso vale per trasferimenti monetari rivolti alla soddisfazione di bisogni particolari. Ciò nondimeno, il reddito di base sostituirebbe una parte rilevante degli attuali trasferimenti monetari. Il reddito di base permette pure di risparmiare i costi amministrativi dei trasferimenti selettivi.
Il libro aggiunge molte altre interessanti osservazioni. Ricostruisce, con grande ricchezza di citazioni bibliografiche, le tante difese del reddito di cittadinanza sviluppatesi dal Settecento a oggi; discute le possibili resistenze politiche alla sua introduzione, indicando possibili alleati e oppositori, e affronta sia le nuove sfide poste dalla globalizzazione, sia le opportunità offerte dallo spazio comune europeo. Di fronte alle possibili difficoltà, presenta una proposta concreta. Si tratta, da un lato, di mantenere il reddito di base come ideale utopico, nel senso sia di non ancora realizzato, sia di desiderabile, nel pieno riconoscimento che molte utopie di ieri sono realtà di oggi e, dall’altro, di ricercare, nel breve, soluzioni “dalla porta sul retro”. In questa prospettiva, il favore va a un reddito di base parziale, nel senso di importo limitato, ad esempio, pari al 25% del reddito pro capite dei diversi paesi. Non posso entrare in questi aspetti. Vorrei chiudere ponendo una domanda critica e sottolineando alcuni meriti ulteriori del volume, oltre a quello di offrirci una delle più complete difese del reddito di base finora formulate.
La domanda è: la proposta del reddito di base non dimentica forse un ambito importante della giustizia sociale, quello della rego-lazione della struttura complessiva dei mercati e delle imprese? Van Parjis e Vanderborght non ignorano del tutto il tema. Secondo loro, il reddito di base favorirebbe un processo bottom up di cambiamento attivato dalla possibilità di dire no ai cattivi lavori. Tale processo, tuttavia, è strettamente dipendente dall’importo del reddito di base ed è limitato alla parte bassa della distribuzione. Iniquità quali quelle dovute alla concentrazione dei mercati (oggi resa possibile dalle tecnologie del consumo non rivale e da diritti di proprietà intellettuale, che conferiscono privilegi ben oltre le ricompense necessarie a stimolare l’innovazione), alla deregolazione finanziaria e a una governance dell’impresa sempre più finalizzata alla mera massimizzazione del valore delle azioni re-stano sottovalutate. Aggiungo che più si cercasse di contrastare queste disuguaglianze strutturali, più diminuirebbe il valore dei regali e, con esso, quello del reddito di base.
I meriti ulteriori includono la messa in discussione di alcuni luoghi comuni diffusi nel dibattito pubblico. Penso alle visioni dei trasferimenti monetari come inevitabilmente passivizzanti e dell’uguaglianza di risorse come inevitabilmente appiattente e omogeneizzante, nella sottovalutazione delle connessioni, potenti, con la libertà. Includono, altresì, l’offerta di una lezione più generale sul significato di dialogo democratico. Oggi l’arena pubblica è spesso sede di contrapposizioni fra posizioni difese come se fossero gusti di cui non si discute e di vittorie attribuite sulla base dei rapporti di forza. Van Parijs e Vanderborght ci ricordano, invece, l’importanza di uno stile argomentativo attento alle motivazioni etiche, ai vincoli di contesto, alle implicazioni economiche e alle ragioni altrui.

L'Indice, Aprile 2018

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