2.8.11

Sentenza di morte per Umberto I. Arturo Labriola narra Bresci e il "re buono".

Arturo Labriola (1873-1959) fu economista, giornalista e socialista. Massone e simpatizzante in gioventù del sindacalismo rivoluzionario, negli anni Trenta, dopo un decennio d’esilio s’inchinò al fascismo pur senza svolgere ruoli istituzionali. Tornò all’attività politica nella Costituente e, da senatore, nel primo parlamento repubblicano (1948-53). Mostrò il suo acume di analista politico soprattutto nel libro Storia di dieci anni (1899-1909), pubblicato nel 1910, da cui è tratto il brano che segue, che mi è sembrato esemplare per rigore e analitico e chiarezza comunicativa. Non mi pare di aver mai trovato altrettanta capacità di sintesi nel delineare i tratti costitutivi dell’“umbertismo”. (S.L.L.)

Umberto I di Savoia
Da un mese sul capo di Umberto era sospesa una sentenza di morte. Colui che l’aveva pronunziata e si era assunto il tristo incarico d’eseguirla, un giovine tessitore italiano di Prato, Gaetano Bresci, era da un mese ritornato in Italia dagli Stati Uniti, dove era emigrato per occupazione. Come spiegò dopo ai giurati, le lodi indirizzate da Umberto al Bava Beccaris, in seguito alla repressione di Milano, lo avevano persuaso della responsabilità di Umberto in quei fatti. Ed egli aveva, come diceva, deciso di punirlo.
A soldo a soldo aveva messo da parte 1.200 lire per ritornare in Italia e uccidere il re. Aveva acquistato una rivoltella di precisione e si esercitava al tiro. Giunto in Italia, aveva continuato ad esercitarsi al tiro di rivoltella, poscia si era messo sulle tracce del re. avendo appreso dei giornali che il re sarebbe restato qualche tempo a Monza, si era recato in questa città. Aveva preso albergo in una cameretta a due franchi al giorno. Assunse qualche informazione sulle abitudini di Umberto. Saputo che il re, la sera dell’ultima domenica di luglio (1900), si sarebbe recato a presenziare una festa ginnastica in Monza decise di ucciderlo in quella circostanza. Non essendo riuscito ad avvicinarlo al momento in cui giunse, lo attese all’uscita. Il dottor Attilio Savio, assessore comunale di Monza che accompagnava il re, narra che, finita la festa, il re salutò tutti cordialmente  e prima di partire rivolse alcuni complimenti al deputato radicale Pennati presente alla festa. Poi salì in carrozza con i generali Avogadro e Ponzio-Vaglia fra grandi saluti della folla. All’improvviso un sconosciuto, dell’apparente età di trent’anni, si avvicinava alla carrozza, poscia con gesto fulmineo puntava sul re la rivoltella. La distanza fra lui e il re poteva essere di tra passi. Scattò il primo colpo.
Umberto portò rapidamente la mano al petto dove era stato colpito; poscia senza parlare cadde riverso sulla spalliera. Un secondo colpo echeggiò. Umberto riceveva una seconda palla nella gola. Ma l’impassibile regicida continuava. Si sentì un terzo colpo. Il cocchiere, superato troppo tardi il primo sbigottimento, dava una sferzata ai cavalli. Il terzo colpo si ficcava nella spalliera della carrozza. Ma Umberto era già moribondo.
Così finiva questo re, che dell’ufficio della regalità non aveva inteso bene se non la sola parte decorativa, desideroso com’era di concorrere a tutte le manifestazioni pubbliche in cui fosse di qualche convenienza o necessità la presenza del capo dello Stato. Sensuale e un po’ melanconico, come sono in generale i sensuali, avrebbe potuto chiudersi nel suo egoismo di gaudente e ridursi agli uffici meccanici, che il regime parlamentare pur lascia alla regalità. Fu sua sventura aver fortemente risentita l’influenza del Crispi, che gli pose in cuore propositi imperialistici e desideri di potere personale. Peggiore fu il frutto della sua intimità con l’imperatore tedesco e delle suggestioni che l’ambiente tedesco, impregnato di intenzioni e abitudini aristocratiche, esercitò su di lui. Né seppe sottrarsi ad influenze femminili illegittime, sia che venissero dalla moglie, alla quale la costituzione non riconosce nessun ufficio,ma che pure seppe determinare un indirizzo molto conservatore della politica e tentò varie volte di condurre Umberto ai piedi del papa; sia che venissero da sue private amicizie. Il suo regno legò il suo nome ai tre avvenimenti più disgraziati che abbiano colpito l’Italia risorta: gli scandali bancari, Adua e le repressioni di maggio. La sua sorte pietosa favorì lo scopo degli storiografi cortigiani, che non mancano mai di scoprire ogni specie di virtù nei re defunti. Un giudizio obiettivo sul suo regno costringerà sempre a riconoscere che egli voleva mutare a danno dell’elemento elettivo la natura degli istituti politici italiani e che anche quando il governo dovette ricorrere ad atti di repressione, egli credette di fregiare di distinzioni cavalleresche coloro che avevano sparso il sangue degli inermi.
L’indomani della morte di Umberto l’Italia dette uno spettacolo indescrivibile. Dappertutto è accaduto che qualche volta il capo dello Stato venisse colpito da mano omicida. Pochi mesi prima era stata uccisa l’imperatrice d’Austria, ch’era donna, straniera ai fasti e alle offese della regalità, liberissima di sentimenti, sollecita alle miserie umane. Con grande decoro le alte classi della società austriaca avevano sopportato la sciagura. In Italia sembrò che un delitto di empietà fosse stato consumato. Come tutti si fossero sentiti colpevoli gareggiavano di esagerazioni a purgarsi del delitto. Si vide in realtà che la rivoluzione liberale, che trasforma il suddito in cittadino e il re nl primo funzionario dello Stato, non aveva attraversata le’epidermide degli italiani, ma che, servi liberati a caso, riconoscevano la loro condizione servile prosternandosi senza dignità ai piedi del trono.




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