Tra i
“diari minimi” che nei tardi 50 e primi 60 Umberto Eco scriveva,
questo – basato sulla tecnica dello straniamento – non ha la
notorietà dell'Elogio di Franti o della Fenomenologia di
Mike Bongiorno. A me pare in verità un piccolo capolavoro,
godibile anche dai più giovani che non sono in grado di intendere tutte
le allusioni, godibilissimo per chi lo usa anche per rievocare un
“tempo perduto”. (S.L.L.)
IV Congresso
Intergalattico di Studi Archeologici — Sirio, 4° Sezione del 121°
Anno Matematico.
Relazione del Ch. Prof.
Anouk Ooma del Centro Universitario Archeologico della Terra del
Principe Giuseppe — Artide-Terra.
Chiarissimi colleghi,
non vi è ignoto che da
gran tempo gli studiosi artici conducono appassionate ricerche per
trarre alla luce le vestigia di quella antichissima civiltà che
fiorì nelle zone temperate e tropicali del nostro pianeta prima che
la catastrofe avvenuta nel cosiddetto anno 1980 dell'era antica, anno
Uno dell'Esplosione, vi cancellasse ogni traccia di vita, in quelle
zone che per millenni rimasero a tal punto contaminate dalla
radioattività che solo da pochi decenni le nostre spedizioni possono
avventurarvisi senza soverchio pericolo per cercare di rivelare alla
Galassia intera il grado di civiltà raggiunto dai nostri antenati.
Rimarrà sempre un mistero come degli esseri umani potessero abitare
plaghe così insopportabilmente torride e come quelle genti si siano
potute adattare al pazzesco sistema di vita imposto dal vertiginoso
alternarsi di brevissimi periodi di luce a brevissimi periodi di
oscurità; eppure sappiamo che gli antichi terrestri, in questo
abbacinante carosello d'ombre e di luci, seppero trovare ritmi di
vita ed edificare una civiltà ricca e articolata. Quando, circa 70
anni fa (era l'anno 1745 dell'Esplosione), dalla base avanzata di
Reykjavik - il leggendario Avamposto Sud della civiltà terrestre -
la spedizione del Prof. Amaa A. Kroak si spinse sino alla landa detta
di France, il mai dimenticato studioso stabilì inequivocabilmente
come l'azione combinata della radioattività e del tempo avesse
distrutto ogni traccia fossile. Già si disperava dunque di conoscere
qualcosa circa i nostri lontani progenitori quando nel 1710 d. E. la
spedizione del Prof. Ulak Amjacoa, avvalendosi dei ricchissimi mezzi
messi a disposizione dalla Alpha Centauri Foundation, facendo dei
sondaggi nelle acque radioattive del lago di Lochness, reperiva
quella che viene oggi comunemente indicata come la prima
"criptobiblioteca" degli antichi terrestri. Murata in un
enorme blocco di cemento stava una cassa di zinco recante incisa la
scritta: "Bertrandus Russel submersit anno domini MCMLI".
La cassa, come voi ben sapete, conteneva i volumi dell'Enciclopedia
Britannica, e ci fornì finalmente quella enorme mole di notizie
sulla cultura scomparsa, su cui basiamo oggi gran parte delle nostre
conoscenze storiche. Ben presto altre criptobiblioteche venivano
ritrovate in altri paesi (celebre quella trovata in Terra di
Deutschland, in una cassa murata che recava l'iscrizione "Tenebra
appropinquante"), in modo che ci si rese ben presto conto di
come gli uomini di cultura fossero stati gli unici, tra gli antichi
terrestri, ad intuire l'approssimarsi della tragedia, e gli unici a
porvi rimedio nell'unico modo che fosse loro consentito, salvando
cioè per i posteri (e quale atto di fede fu quello di prevedere,
malgrado tutto, una posterità!) i tesori della loro cultura.
Grazie a queste pagine,
che non possiamo sfogliare senza un fremito di commozione, noi oggi,
illustri colleghi, siamo in grado di sapere cosa quel mondo pensasse,
cosa facesse, come sia giunto al dramma finale. Oh, ben so che la
parola scritta è sempre insufficiente testimone del mondo che la
espresse, ma come rimaniamo sconcertati quando ci manca anche questo
preziosissimo aiuto! Tipico è il caso del "problema italiano",
di questo enigma che ha appassionato archeologi e storici, nessuno
dei quali ha saputo sinora rispondere alla ben nota domanda: come
avvenne che in questo paese, che pure sappiamo di antica civiltà -
come ci è testimoniato dai libri ritrovati in altre terre - come
avvenne, dicevo, che non fu possibile reperire alcuna
criptobiblioteca? Voi sapete che le ipotesi in proposito sono tanto
numerose quanto insoddisfacenti, e ve le ricordo a puro titolo di
preterizione:
1. Ipotesi Aakon-Sturg
(così dottamente illustrata nel libro La Esplosione nel bacino
mediterraneo, Baffing, 1750 d. E.): per un concorso di fenomeni
termonucleari la criptobiblioteca italiana è stata distrutta;
ipotesi sostenuta da solidi argomenti, perché sappiamo che la
penisola italica fu la più battuta dalle esplosioni in quanto dalle
coste adriatiche partirono i primi missili a testata atomica dando
appunto inizio al conflitto totale.
2. Ipotesi Ugum-Noa Noa,
esposta nel notissimo Esistette l'Italia? (Barents City, 1712
d. E.) dove, sulla base di attente consultazioni dei verbali delle
conferenze politiche ad alto livello intercorse prima del conflitto
totale, si perviene alla conclusione che l'Italia non sia affatto
esistita; ipotesi che risolve il problema della criptobiblioteca, ma
urta contro una serie di testimonianze che le opere in lingua inglese
e tedesca ci danno sulla cultura di quel popolo (mentre quelle in
lingua francese, come è noto, paiono ignorare l'argomento,
suffragando parzialmente la tesi Ugum-Noa Noa).
3. Ipotesi del Prof.
Ixptt Adonis (cfr. Italia, Altair, 22' sezione del 120° Anno
Matematico), la più brillante senz'altro, ma la più debole, secondo
la quale al tempo dell'esplosione la Biblioteca Nazionale Italiana
era, per circostanze imprecisate, in uno stato di estrema decadenza,
e gli scienziati italiani, ancorché intesi a fondare biblioteche pel
futuro, erano seriamente preoccupati per quelle del presente e
dovevano ingegnarsi ad impedir lo sfacelo dello stesso edificio
contenente i volumi. Ora l'ipotesi rivela l'ingenuità di un
osservatore non terrestre, disposto ad avvolgere di un alone di
leggenda quanto concerne il nostro pianeta ed uso pensare i terrestri
come un popolo che vive beatamente mangiando pasticcio di foca e
suonando arpe di corna di renna: lo stato di avanzata civiltà cui
erano pervenuti gli antichi terrestri prima dell'Esplosione, fa sì
invece che sia impensabile una tale incuria, quando il panorama
offertoci dagli altri paesi cisequatoriali rivela l'esistenza di
avanzate tecniche di conservazione dei libri.
Col che si è al punto di
partenza, e il più fitto mistero ha sempre avvolto la cultura
italiana precedente l'esplosione, anche se per quella dei secoli
anteriori esistono sufficienti documentazioni nelle criptobiblioteche
di altri paesi. Si sono trovati - è vero - nel corso di scavi
accuratissimi, esili e incerti documenti. Ricorderò la striscia di
carta portata alla luce dal Kosamba, che contiene quello che egli
ragionevolmente ritiene il primo verso di un lunghissimo poema:
"M'illumino d'immenso..."; la copertina di quello che
doveva essere un trattato di psicotecnica o di sociologia del lavoro
("Lavorare stanca", di un certo Paves, o Pavesa, come
sostiene lo Sturg, questione peraltro controversa dato che la parte
superiore del cimelio è molto consunta). E ricorderemo come la
scienza italiana dell'epoca fosse indubbiamente progredita negli
studi di genetica, anche se quelle conoscenze erano probabilmente
usate ai fini di una eugenetica razzista, come è suggerito dal
coperchio di una scatola che doveva contenere un farmaco per il
miglioramento della razza, e che reca la scritta "Omo
(alterazione del latino Homo e contrazione argotica dell'italico
Uomo) più bianco del bianco". Ma è chiaro che nonostante tutti
questi documenti nessuno avrebbe mai potuto esattamente puntualizzare
la situazione spirituale di quel popolo, situazione che, mi sia
consentito di dirlo, chiarissimi colleghi, è palesata appieno solo
dalla parola poetica, dalla poesia quale coscienza fantastica di un
mondo e di una situazione storica.
E se vi ho tediato con
questi lunghi preliminari è per comunicarvi, ora, col cuore
commosso, come io ed il mio valoroso collega Baaka B.B. Baaka
A.S.P.Z., del Reale Istituto di Letteratura di Isola degli Orsi,
abbiamo ritrovato in una zona impervia della penisola italiana, a
tremila metri di profondità, racchiuso fortunosamente in una colata
di lava provvidamente inabissatasi in seno alla terra nel
rivolgimento spaventevole dell'Esplosione, consunto e slabbrato,
mutilo in innumerevoli punti, quasi illeggibile ma ancora ricco di
folgoranti rivelazioni, un libretto di dimessa apparenza e
proporzioni, che reca sul frontespizio il titolo Ritmi e Canzoni
d'oggi (e che noi, dal luogo del ritrovamento, abbiamo chiamato
Quaternulus Pompeianus). Ben sappiamo, illustri colleghi, che
canzone o canzona fu voce arcaica impiegata ad indicare
componimenti poetici trecenteschi, come ci ricorda l'Enciclopedia
Britannica; e sappiamo pure che ritmo, nozione comune alla musica e
alle scienze matematiche, ebbe anche presso vari popoli un impiego
filosofico e valse ad indicare una peculiare qualità delle strutture
artistiche (cfr., della Criptobiblioteca Nazionale di Parigi, M.
Ghyka, Essai sur le rythme, N.R.F. 1938): ciò induce a
riconoscere dunque nel nostro quaternulus una squisita
antologia dei componimenti poetici più validi di quella età, una
antologia di liriche e canti che ci aprono gli occhi della mente su
di un incomparabile panorama di bellezza e spiritualità.
La poesia italiana del xx
secolo dell'era antica, fu poesia della crisi, virilmente conscia del
destino incombente; e fu insieme poesia della fede, della purezza e
della grazia. Poesia della fede: abbiamo qui un verso, ahimè l'unico
leggibile, di quello che doveva essere un canto di lode dello Spirito
Santo: "Vola, colomba bianca vola..."; mentre subito dopo
ci colpiscono questi versi di un canto di giovinette: "Giovinezza,
Giovinezza - primavera di bellezza...", le cui dolcissime parole
ci evocano l'immagine di fanciulle avvolte in bianchi veli, danzanti
nel plenilunio di qualche magico pervigilium. Altrove,
troviamo invece senso di disperazione, di lucida coscienza della
crisi, come in questa spietata rappresentazione della solitudine e
della incomunicabilità che forse, se dobbiamo credere a quanto
l'Enciclopedia Britannica dicsto autore, dobbiamo ascrivere al
drammaturgo Luigi Pirandello: "Ma Pippo Pippo non lo sa — che
quando passa ride tutta la città..." (e non trova forse questa
immagine un suo non indegno corrispettivo in una poesia inglese della
stessa epoca, il canto di James Prufrock del poeta inglese Thomas
Stearns? ).
Furono forse questi
fremiti di angoscia che spinsero la poesia italiana a rifugiarsi nel
divertimento georgico e didascalico: ascoltate la pura bellezza di
questi versi: "Lo sai che i papaveri — son alti alti alti..."
(dove avete l'esitare timido dell'interrogativo, e poi la presenza
maestosa e sublime di questi fiori tropicali, carnosi e svettanti, e
questo senso dell'umana fragilità di fronte al mistero della natura)
e ammirate l'ardita personificazione di questa terzina ("È
primavera — svegliatevi bambine — dalle cascine messer Aprile fa
il rubacuor...") in cui è chiara la derivazione dai riti di
vegetazione — lo spirito della primavera e il sacrificio umano,
forse un cuore di fanciulla, offerto alla divinità fecondatrice —
riti a suo tempo analizzati in Terra di England nel volume di incerta
attribuzione, The Golden Bough, che altri vorrebbero, The
Golden Bowl (v. lo studio, non ancora tradotto, di Axbzz Eowrrsc,
"Golden Bough” orx "Golden Bowl” — xpt agrschh
clwoomai, Arturo, Sez., 1200 Anno Matematico).
Agli stessi riti di
vegetazione, e più propriamente al rito frigio della morte di Attis,
fummo tentati dapprima di riportare un altro bel carme che iniziava
così: "È morto un bischero..." — carme trovato
manoscritto in margine al libretto. Ma a parte l'incomprensibilità
del sostantivo, ci colpirono i versi seguenti: "All'ospedale —
senza le bale — senza cojon", la cui apparente oscurità ci fu
chiarito dallo strano impiego della consonante "J",
solitamente assente dal lessico italiano. Per una felice intuizione
riconoscemmo in essa la "jota" spagnola e comprendemmo di
avere tra le mani la traduzione ancora incompleta di una poesia
iberica. Sappiamo come nessun testo spagnolo si sia mai salvato,
poiché, come riferisce l'Enciclopedia Britannica, un ventennio prima
dell'Esplosione le autorità religiose di quel paese avevano ordinato
il rogo per tutte le opere prive di un particolare nulla osta. Ma
attraverso le brevi citazioni reperite in libri stranieri si era da
tempo delineata con sufficiente chiarezza la figura del mitico bardo
catalano del XIX o del XX secolo, Federico Garcia, o, come vogliono
alcuni, Federico Lorca, barbaramente ucciso, narra una leggenda, da
venticinque donne che egli brutalmente sedusse. Le pagine critiche di
uno scrittore tedesco del 1966 (C. K. Dyroff, Lorca: Ein Beitrag
zum Duendegeschichte als Flamencowissenschaft) , ci parlano della
poesia di Lorca come di un "essere-per-la-morte-radicato-come-amore,
in cui lo spirito del tempo si nomina disvelando sé a sé per
cadenze funebri danzate sotto un cielo andaluso". Queste parole
si adattano singolarmente al testo citato e ci permettono anche di
attribuire allo stesso autore altri splendidi versi, caldi di
violenza iberica, stampati nel quaternulus: “Caramba yo
songo espagnolo — yo tiengo lo sangue calliente — Son
quell'espada che nella contrada vien chiamato Beppe Balzac...”. Mi
sia consentito di dire, illustri colleghi, che oggi, quando gli
spaziovisori riversano su di noi quotidianamente una tormenta di
torbida musica orridamente scimmiesca, oggi, quando irresponsabili
schiamazzatori di insulsaggini apprendono ai nostri figli canzoni dai
versi assurdi — e notava acutamente il Zoal Zoal nel suo saggio
Eclissi dell'uomo artico come un ignoto bandista sia giunto a
mettere in musica uno sconcio canto caratteristico dei marinai
ubbriachi ("No, non voglio vederlo — il sangue di Ignazio
sulla sabbia"), ultima tappa del nonsenso industriale — mi sia
dunque consentito di dire che queste parole immortali che ci giungono
dalla notte dei tempi testimoniano della grandezza morale e
intellettuale dell'uomo terrestre di duemila anni fa. Abbiamo sotto
gli occhi una poesia che, anziché fondarsi sulla fumosa ricerca
labirintica di un intelletto gonfio di cultura, si risolve in ritmi
spontanei ed elementari, in purissima grazia fanciullesca; ed è il
momento in cui si è portati a pensare che un Dio — non il
travaglio creatore — presieda a tanto miracolo. La grande poesia si
riconosce ovunque, signori: i suoi stilemi sono inconfondibili; si
danno cadenze che rivelano la loro fratellanza anche se suonano dai
poli opposti del cosmo. Ed è con gioia commossa che ho potuto infine
procedere ad una dotta collazione, chiarissimi colleghi, inserendo
alfine tre versi sparsi, rinvenuti su di un brandello di carta due
anni fa tra le rovine di una città del nord Italia, nel contesto di
un più disteso carme i cui elementi completi ritengo di aver trovato
su due distinte pagine del quaternulus. Composizione squisita,
ricca di letteratissime assonanze, gioiello dal sapore alessandrino,
perfetto in ogni sua voluta:
Grazie dei fiori.
Tra tutti gli altri li
ho riconosciuti:
son rose rosse e
parlano d'amore.
Fresche le mie parole
nella sera
ti sien come il
fruscio che fan le foglie
del gelso nella man di
chi le coglie...
Villa triste,
tra le mammole
nascoste
e il cespuglio di
ametiste
quante cose son
rimaste...
Ma il limite concessomi
per questa comunicazione, illustri colleghi, è scaduto. Altre cose
vorrei leggervi, ma è certo che avrò modo di pubblicare e tradurre,
una volta chiariti alcuni delicati problemi filologici, il frutto
della mia preziosa scoperta. Vorrei oggi lasciarvi con l'immagine di
questa civiltà ormai perduta che con occhio asciutto cantò la
dissoluzione dei valori, con ilare castità disse parole di diamante
fissando un mondo di grazia e di bellezza. E quando vi fu
presentimento della fine, esso non fu disgiunto da profetica
sensibilità; e dall'abisso insondabile e misterioso del passato,
dalle pagine rose e consunte del quaternulus pompeianus, in un
verso isolato su un foglio reso oscuro dalla rabbia delle radiazioni,
noi ritroviamo come un presagio di ciò che sarebbe accaduto. Alla
vigilia dell'Esplosione il poeta "vide" il destino della
popolazione terrestre che avrebbe edificato una nuova e più matura
civiltà sulla calotta polare e avrebbe trovato nel ceppo eschimese
la razza superiore di un pianeta rinnovato e felice: vide che le vie
del futuro avrebbero risolto in bene e progresso gli orrori
dell'Esplosione; e non poté più provare paura o rimorso, sì che il
suo canto si effuse in questo verso disteso come un salmo: "Cosa
mi importa se il mondo mi rese glacial...".
Un solo verso; ma a noi,
figli dell'Artide prospera e progressiva, giunge come un messaggio di
fiducia e solidarietà, dall'abisso di dolore, bellezza, morte e
rinascita nel quale intravvedemmo il volto vago ed amato dei nostri
padri.
1959
In
Diario minimo, Mondadori, 1963
1 commento:
Un frammento di geniale ironia nello sconfinato abisso del web.
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