Vittorio Gorresio |
Ho tratto il brano che
segue dall'autobiografia di Vittorio Gorresio, giornalista e
scrittore molto piemontese, che – acquistata per un euro in una
bancarella, al mercato di Pian del Massiano – mi è sembrata, oltre
che interessante, davvero bella, perché il racconto è sostenuto da
una scrittura elegante e fluida, da una lucida ironia, da una
nostalgia distaccata che non esclude momenti di controllata
commozione, ma non scade mai nel patetismo. Quello che qui si
racconta è un episodio dell'avventura coloniale dell'Italia
fascista: il progetto italiano, mai del tutto realizzato nonostante
la solenne proclamazione dell'Impero, di eliminare ogni focolaio di
resistenza. (S.L.L.)
Ras Immirù |
Toccò anche me, in un
pomeriggio del dicembre 1936, recitare la parte del leone. Ero un
giornalista, ma in qualità di corrispondente di guerra ero stato
richiamato col mio grado militare, sicché fungevo a volta a volta da
cronista o da ufficiale, a seconda dei casi e delle necessità. «Lei
sarà animale da uova e da latte», mi aveva predetto a Roma Mario
Missiroli che amava le battute, e infatti a Gimma fui aggregato a una
sezione di artiglieria someggiata — due obici da montagna calibro
65/13 — di accompagnamento a una colonna di ascari che andava
all’inseguimento di ras Immirù.
Ne sarei stato lo storico
ma anche il comandante perché quella sezione era rimasta senza
ufficiale da quando il mio predecessore era morto a Mai Ceu, a mezza
strada fra l'Amba Aradam e il lago Ascianghi. Si era comportato da
valoroso, la sua memoria continuava ad essere onorata. Io raccoglievo
quindi un’eredità impegnativa, ed in quel pomeriggio di dicembre
dovetti fissarmene bene in mente l’idea, se non volevo sfigurare
davanti agli ascari, al battaglione, al ricordo del morto, ed a me
stesso. Ci sono momenti che il coraggio, anche se obbligato, è il
solo possibile rifugio.
Eravamo arrivati sulla
sponda del fiume Ghisciò, e appena le pattuglie della nostra
avanguardia ne ebbero iniziato cautamente il guado, ecco dall’altra
parte cadere su di noi la grande pioggia delle pallottole. Come
esigevano gli ascari rimasi in piedi dopo aver fatto disporre i pezzi
in batteria: «Apra il fuoco, tenente», mi fu ordinato. Sparammo non
ricordo quanti colpi contro la riva opposta del Ghisciò che era
coperta da un canneto molto fitto. Nemici non ne vedevamo, e cessò
quasi subito la grande pioggia delle pallottole contro di noi, sicché
nemmeno ci fu bisogno che i graduati della sezione mi coricassero per
terra. Come se fossimo ad una esercitazione continuammo a sparare
fino a quando non scese il buio: «Cessate il fuoco», mi fu
trasmesso. Il mio battesimo di guerra non era stato molto
emozionante, e tanto meno rischioso. Piuttosto in vena di
scetticismo, andai a rapporto dai superiori e rispettosamente
domandai: «Signor colonnello, abbiamo vinto?». «È quello che
sapremo domani, alla luce del giorno» rise lui.
L’indomani, sull’altra
sponda del fiume non trovammo nessuno, né vivi né morti, né alcuna
traccia di uomini che si fossero impegnati in combattimento. Doveva
essere stata una retroguardia leggera al comando di un astuto
degiasmacc a spararci addosso al nostro primo tentativo di
guado, subito poi dileguandosi paga di averci ritardato la marcia.
Immirù era difatti ormai lontano, e noi lo raggiungemmo solo dopo
che si era già arreso ad un altro reparto.
Un ufficiale del genio,
il tenente colonnello Giuseppe Minniti che con una squadretta di
ascari stava stendendo linee telefoniche verso l’Ovest, il 15
dicembre si imbattè casualmente nella banda di Immirù bloccata
sulla riva del Gogeb. Il fiume era in piena, impossibile il guado.
Sopraggiunse Minniti con i suoi guerrieri, che tuttavia erano pochi e
rischiavano di essere sopraffatti. Minniti era un calabrese furbo e
coraggioso; giocò d’astuzia e gli andò bene: «Ci sei cascato»
disse a Immirù. «Colonne italiane sono qui da tutte le parti. Sei
accerchiato senza scampo. Ti consiglio di arrenderti.»
La banda di Immirù era
ridotta malissimo. Di militare non aveva più nulla, scarse le
munizioni per le poche armi ancora in efficienza, equipaggiamento in
pessimo stato, riserve di viveri e medicinali esaurite. Erano forse
ottocento uomini, con cinque mitragliatrici in tutto, e meno di un
fucile per ciascuno. Rassegnati, li consegnarono, e poi Minniti mi
raccontò che ilsuo problema quella sera era stato di collocare
sentinelle di guardia ai mucchi di armi e al soverchiante numero di
prigionieri. Dovette sentirsi l’emulo di quel favoloso maggiore
Randaccio del quale si racconta che nella prima guerra mondiale, solo
con sette uomini, riuscì a catturare un intero battaglione di honvéd
ungheresi.
Ma gli abissini presi da
Minniti non erano nemmeno più in grado di scappare. Nostri aeroplani
avevano bombardato ad iprite certe zone di bosco dove gli uomini di
Immirù si erano in quei giorni infrascati in cerca di salvezza.
Ipritati, piagati, accecati, erano stati messi fuori combattimento e
ormai si trascinavano senza più speranza. Gli abitanti dei luoghi, o
per paura di noi italiani che stavamo avanzando, o per le tribali
inimicizie sempre pronte a riaccendersi fra le diverse popolazioni
dell’Etiopia, non parteggiavano per i ribelli, anzi facevano il
deserto attorno a loro conducendo lontano il bestiame, portandosi via
le provviste. Se qualche gruppo di fuggiaschi non abbastanza grosso
per imporsi con la forza capitava isolato in un villaggio, poteva
anche accadere che i locali ne facessero giustizia in nome del nostro
menghestì, il grande governo italiano che stava dimostrando
la sua potenza con i bombardamenti sulla zona. Certi piccoli capi
villaggio facevano legare agli alberi gli sfortunati in rotta, ed era
un pubblico divertimento prenderli a bersaglio con escrementi di
vacca, fino a che non ne fossero tutti coperti.
Erano queste le storie
che si raccontavano durante la nostra avanzata, e ce le confermavano
gli incontri con disgraziati che apparivano digiuni da settimane.
Gettavano le armi, se ne avevano ancora, e ci guardavano con occhi di
animali braccati.
I nostri ascari si
inferocivano, ed era difficile trattenerli; a lasciarli fare li
avrebbero sterminati. Per gli eritrei che noi conducevamo alla
conquista dell’Ovest, come per gli abitanti del luogo che si
consideravano estranei alla causa di Immirù, non esistevano problemi
umanitari. A concepire la guerra come un fatto di natura, chi vince
vince e chi perde paga.
Giovane e ingenuo, io non
ero insensibile alla sorte del nemico sconfitto. Una sera mi trovai a
mensa con Immirù presso il villaggio di Bonga dove finalmente
eravamo arrivati anche noi a dare man forte a Minniti. Persona
civilissima e di gran dignità, il ras a tavola ci raccontò la sua
storia. Aveva avuto l’ordine dal negus di continuare a resistere
perché a Ginevra, allora sede della Società delle nazioni, le
potenze europee si erano accordate contro l’Italia, e gli avrebbero
fatto arrivare armi e denari. Fosse stata un’illusione o un
inganno, comunque la fortuna gli si era volta contro. Ora Immirù
accettava il suo destino: «Riconosco la forza del governo italiano»,
ci disse a mensa nel correttissimo francese imparato nella scuola di
Saint Cyr dove aveva fatto i suoi studi militari. Io fungevo da
interprete perché non tutti i nostri ufficiali capivano la lingua
che parlava il prigioniero. «Riconoscete anche i benefici che il
governo italiano può arrecare in Etiopia?» gli domandò il
colonnello Malta comandante dei battaglioni che lo avevano inseguito.
«In questo caso il viceré maresciallo Graziani potrebbe chiedere al
duce un trattamento di particolare favore per voi.» Tradussi, ed
Immirù rispose con una specie di cantilena che pareva avesse
imparata a memoria: «Accetterò qualsiasi punizione. Rinuncio ad
ogni idea ambiziosa contro l’Italia che è potentissima e che non
ha più niente da temere da chi la ha combattuta con onore ».
Sotto il tendone della
mensa di Bonga l’atmosfera era abbastanza cavalleresca e lo
sconfitto Immirù, piccolino, minuto, il volto tondo incorniciato da
capelli crespi e da una breve barba, lo sguardo quieto, non mancava
di qualche regalità. Intanto aspettavamo gli ordini di Roma sulla
sorte da riservare all’importante prigioniero e ai suoi seguaci
sottomessi ed innocui. L’ordine fu di concedere a tutti salva la
vita e di spedire Immirù in Italia, dove lo assegnarono al confino
nell’isola di Ponza. Mussolini avrebbe molto gradito che egli si
dichiarasse formalmente sottomesso, e perciò il direttore della
colonia penale andò più volte a far visita al ras per estorcergli
una conveniente dichiarazione. «Ma che giudizio dareste voi» sbottò
un giorno Immirù «di un italiano che durante il Risorgimento avesse
fatto atto di sottomissione all’Austria?» E quindi fu lasciato in
pace nella casetta che gli avevano assegnato sulla riva del
porticciuolo di Santa Maria fino alla mattina del 28 luglio 1943,
quando arrivò un maresciallo dei carabinieri a sfrattarlo di furia
perché la casetta serviva per alloggiarvi Mussolini appena deposto.
La storia ha di queste ironie. Per quanto poco abbia potuto
conoscerlo, sono sicuro che il malizioso Immirù non mancò in quel
momento di apprezzare il significato del proprio fulmineo trasloco.
La vita ingenua,
Rizzoli 1980
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