La resa del generale Lee al generale Grant in un film USA degli anni 20 del Novecento |
L'Unità d'Italia e
l'inizio della Guerra di secessione americana portano la stessa data:
1861. Ma non è solo il 150° anniversario ad accomunare i due
eventi. Secondo Raimondo Luraghi, autore di una fondamentale Storia
della guerra civile americana (Bur), l'analogia è ben più
profonda: «Il conflitto tra Nord e Sud fu una vera rivoluzione
nazionale e Abraham Lincoln si può considerare il Cavour o il
Bismarck degli Stati Uniti. È lui a lanciare e imporre l'idea della
grande Repubblica americana, mentre fino allora l'Unione era vissuta
come un insieme di Stati gelosi della loro sovranità». Luraghi, che
dopodomani compie novant'anni, è in piena attività. Ha pubblicato
nel 2007 da Donzelli un bel saggio sulla cultura del Sud degli Usa,
La spada e le magnolie , e sta lavorando per la Bur a un libro di
sintesi interpretativa, nel quale intende tirare le fila di oltre
mezzo secolo di studi sulla Guerra civile. «Alle origini del
conflitto - spiega - c'è l'impetuoso sviluppo industriale del Nord,
dal quale emergono nuove classi, imprenditori e operai, che
professano un'ideologia nazionalista e vogliono scalzare l'egemonia
esercitata fino allora dall'aristocrazia agraria del Sud». Ma quanto
incise la questione della schiavitù dei neri, essenziale per
l'economia degli Stati meridionali, fondata sulle grandi piantagioni?
«Ebbe un peso notevole, anche se il vecchio racconto moralistico
della lotta tra i liberatori del Nord e gli schiavisti del Sud non ha
fondamento. Purtroppo ora quel mito è tornato di moda sull'onda
della battaglia contro il razzismo. Ma così gli studi vanno indietro
di decenni. Quando la politica s'infiltra nella storiografia, è come
un'iniezione di cianuro: finisce per ucciderla».
Raimondo Luraghi (1921 - 2012) |
In realtà, nota Luraghi,
per conservare la schiavitù ai sudisti conveniva rimanere
nell'Unione: «L'abolizionismo era debole e il Sud aveva un solido
potere di veto. Lo stesso Lincoln negava di voler sopprimere la
schiavitù là dove già esisteva. Semmai voleva arrivare a superarla
gradualmente, indennizzando i proprietari di schiavi». Del resto il
problema non appariva urgente neanche sotto il profilo umanitario:
«Per quanto la schiavitù fosse un'istituzione sciagurata e indegna,
criticata anche da molti sudisti, in genere i neri erano trattati in
modo paternalistico e si ribellavano di rado. Alcuni ricevevano
incarichi di fiducia: il presidente della Confederazione, Jefferson
Davis, aveva messo i suoi affari nelle mani di un segretario che era
uno schiavo, mentre il più grande generale del Sud, Robert Lee,
aveva due attendenti neri». Si arrivò alla guerra per altre
ragioni: «I grandi piantatori sudisti erano una vera classe
dirigente, non un semplice ceto dominante. Tutelavano anche gli
interessi dei bianchi poveri del Sud e avevano stretto un'alleanza
con gli agricoltori del Midwest nel Partito democratico. I primi
presidenti degli Usa venivano di solito dagli Stati meridionali o
erano condizionati dal blocco a guida sudista». Fu lo sviluppo
industriale a cambiare le carte in tavola: «Il Nord cresceva in
popolazione e ricchezza, grazie anche alla valvola di sfogo del
selvaggio West, dove potevano recarsi i lavoratori che restavano
disoccupati. Ma ciò significava che i nuovi Stati non avrebbero
ammesso la schiavitù e quelli che la praticavano si sarebbero presto
trovati in minoranza nell'Unione. Allora i sudisti chiesero di
permetterla nel West, ma era una pretesa assurda, perché quei
territori erano inadatti alle piantagioni e i bianchi che vi si
recavano non volevano certo la concorrenza della manodopera schiava».
Lincoln |
Così si ruppe il blocco agrario. E nel 1860 fu eletto presidente
Lincoln, deciso a escludere l'introduzione della schiavitù nei nuovi
Stati: «Il Sud - racconta Luraghi - cadde in preda a un'enorme
frustrazione, che è pessima consigliera. I latifondisti si sentivano
sfuggire il potere dalle mani. Uomini raffinati e colti, abituati a
una vita agiata dai ritmi rilassati, fedeli a valori cavallereschi,
guardavano con sospetto la borghesia industriale, dedita alla ricerca
del profitto, e le masse lavoratrici, da loro ritenute rozze e
ignoranti, del Nord. Non sopportavano inoltre di essere dipinti come
barbari per via della schiavitù. Così uscirono dagli Stati Uniti e
fondarono la Confederazione, pur sapendo che ciò avrebbe portato
alla guerra: vedevano i nordisti come bottegai inetti al
combattimento». Inizialmente parve che avessero ragione: «La
sproporzione demografica era schiacciante: 5 milioni e mezzo di
bianchi sudisti contro 22 milioni di nordisti. Sul piano economico il
vantaggio dell'Unione era ancora più netto. Ma la Confederazione
fece prodigi, improvvisò un'industria bellica dal nulla e dimostrò
sul campo il valore dei suoi militari. La guerra divenne uno scontro
gigantesco, sanguinosissimo. Lincoln capì che per indurre il Nord a
sopportare uno sforzo così intenso ci voleva uno di quelli che
Adolfo Omodeo chiamava miti apocalittici, capaci di cambiare il
mondo. Quindi proclamò l'emancipazione dei neri, a partire dal 1°
gennaio 1863, in modo da trasformare la guerra in una crociata
antischiavista. E arrivò a forgiare "con il ferro e con il
sangue", come diceva Bismarck a proposito della Germania, la
nuova identità nazionale, in una sorta di seconda rivoluzione
americana dopo quella contro gli inglesi».
Invece non nacque mai,
secondo Luraghi, un vero nazionalismo sudista: «La Confederazione
rimase un insieme di Stati, i cui governatori strepitavano di
continuo contro Jefferson Davis. Il generale Lee considerava la sua
patria la Virginia, non il Sud, tanto è vero che in una fase
decisiva della guerra rifiutò di spostare truppe a Ovest per
contrastare l'avanzata nemica lungo il Mississippi. L'esercito del
Sud mancò di una visione strategica e sparpagliò le forze proprio
perché gli Stati tenevano alla loro autonomia». Per giunta Lee fu
un genio in battaglia, ma non capì la nuova guerra industriale: «La
potenza di fuoco era aumentata in modo esponenziale, non era più
tempo di manovre e assalti alla baionetta. Su oltre 600 mila caduti
(metà del Nord e metà del Sud) pochissimi furono uccisi da armi
bianche. Furono inoltre decisive invenzioni come la ferrovia, il
telegrafo, ma anche la carne in scatola e il latte condensato, che
aumentarono autonomia e mobilità delle truppe. E poi tende, stivali
e mantelli impermeabili, che consentirono di proseguire le operazioni
sotto le intemperie. Tutti fattori favorevoli al Nord».
Così la
rivoluzione di Lincoln trionfò, ma lui non poté gestire la
vittoria, poiché fu assassinato nell'aprile 1865, alla fine della
guerra: «Fu una iattura, perché aveva pronto un piano di
riconciliazione saggio e generoso. Morto Lincoln, non se ne fece
nulla, anzi il Sud fu considerato terra di conquista e sottoposto a
condizioni durissime, che cessarono solo nel 1877. Poi il conto fu
pagato dai neri. In un primo tempo tornò al potere la vecchia
aristocrazia sudista, che riesumò un paternalismo abbastanza
benevolo verso la gente di colore. Ma poi i notabili furono
rovesciati da un movimento di base, espressione dei ceti popolari che
avvertivano molto di più l' urto razziale. Furono così i bianchi
poveri a imporre nel Sud un regime di rigida segregazione dei neri,
che sarebbe durato molto a lungo».
Corriere della sera
14/08/2011
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