Pablo Neruda con l'ultima moglie matilde Urrutia |
Se muoio sopravvivimi con
tanta forza pura
da svegliare la furia del
pallido e del freddo,
da sud a sud alza i tuoi
occhi indelebili,
da sole a sole suoni la
tua bocca di chitarra.
Non voglio che vacillino
il tuo riso e i tuoi passi,
non voglio che muoia la
mia eredità d'allegria,
non bussare al mio petto,
non ci sono.
Vivi nella mia assenza
come in una casa.
È una casa così grande
l'assenza
che ci entrerai
attraversando i muri
e appenderai i quadri
nell’aria.
È una casa così
trasparente l'assenza
che io senza vita ti
vedrò vivere
e se soffri, amore mio,
io morirò di nuovo.
---
Si muero sobrevíveme con tanta fuerza pura
Si muero sobrevíveme con tanta fuerza pura
que despiertes la furia
del pálido y del frío,
de sur a sur levanta tus
ojos indelebles,
de sol a sol que suene tu
boca de guitarra.
No quiero que vacilen tu
risa ni tus pasos,
no quiero que se muera mi
herencia de alegría,
no llames a mi pecho,
estoy ausente.
Vive en mi ausencia como
en una casa.
Es una casa tan grande la
ausencia
que pasarás en ella a
través de los muros
y colgarás los cuadros
en el aire.
Es una casa tan
transparente la ausencia
que yo sin vida te veré
vivir
y si sufres, mi amor, me
moriré otra vez.
dal sito “Poesia en español” ( https://www.poesi.as/ ) - Trad. S.L.L.
Arriva la gioia (Antonio Skármeta)
Matilde Urrutia con Pablo Neruda |
Benché quasi tutte le
poesie di Cento sonetti d’amore siano gioielli delicati
offerti alla riflessione, alla biografia e alla celebrazione di
Matilde, la forma elegante del sonetto si rivela molto adatta al tono
di questo amore maturo che in precedenza aveva giocato con il fuoco
vivo nei Versi del Capitano.
Pablo e Matilde sono
adesso padroni assoluti del loro destino e il libro traccia una sorta
di bilancio. Senza omettere i momenti amari che la coppia ha vissuto,
il passato si giustifica attraverso l’amore che è stato
inevitabile, e il poeta argomenta la propria difesa dalle aggressioni
proclamandosi un uomo buono («Io ripagai la viltà con colombe»),
ben disposto, ispirato dalla visione effusiva di un amore che si farà
in altre bocche bacio e materia, il poeta affronta un futuro che, per
quanto si prefiguri glorioso, dovrà ormai fare i conti con la morte.
Neruda vede in Matilde
non solo colei che gli sopravvivrà e porterà avanti l’amore in
completa solitudine, ma anche la donna che deve perpetuare
l’universo. Se si presagisce la morte, è ora di fare testamento:
per questo i Cento sonetti d’amore assumono una grande
importanza, perché è il poeta in persona che seleziona i beni da
lasciare, che sono, in sostanza, i suoi sentimenti e la sua lotta.
[…]
Se tutti i sonetti sono
belli, in questa mia antologia personale scelgo il XCIV perché
lo sentii recitare da Matilde in un momento di particolare intensità.
Era il 1983, e la repressione di Pinochet era ancora in atto. Non
c’era tregua per il movimento democratico, che avanzava a passi da
gigante.
Dovevamo commemorare i
dieci anni dalla scomparsa del poeta e volevamo farlo con una
manifestazione di massa. Il suo nome era un vessillo comune per molte
persone che potevano anche pensarla diversamente ma che si
ritrovavano unite come un sol corpo e una sola anima contro la
dittatura.
Non si potè evitare
l’evento «culturale», che si celebrò al Caupolicàn, un enorme
stadio circolare che si riempì dei polmoni di migliaia di
partecipanti, i quali, malgrado fosse stata imposta una certa cautela
perché l’omaggio potesse svolgersi sino alla fine, non smisero un
attimo di gridare all’unisono «assassini, assassini!» agli
scagnozzi di Pinochet.
L’ultima a prendere la
parola fu Matilde che, nell’atteggiamento fiero della vedova, con
naturalezza, interpretò come un testamento di lotta le parole che il
sonetto XCIV le aveva lasciato. Disse: «Io sono stata e sono la
compagna di Pablo». E dopo una breve introduzione andò al nocciolo
del suo discorso:
Se muoio sopravvivimi con
tanta forza pura
da svegliare la furia del
pallido e del freddo...
E il climax del
finale mise la gente, mortificata da una dittatura che pensava
invincibile, nello stato d’animo che nel 1988 portò i democratici
cileni a sconfiggere Pinochet con una campagna né cupa né
lacrimosa, ma libera da rancori e di buon auspicio per il futuro:
«Lui amava la gioia. Per questo, io non ho nessuna intenzione di
chiedere, adesso, un minuto di silenzio per ricordarlo. No! Vi
chiederò piuttosto un minuto di gioia, di baccano e di applausi
fragorosi!»
Il momento è documentato
in un vibrante filmato del regista Carlos Flores, e ogni volta che lo
vedo mi commuovo come allora.
Molte persone, non solo i
cinici e gli scettici, affermano che la poesia non serve a niente, e
io, umilmente, cerco di correggerle dicendo che la poesia non serve
«quasi» a niente.
La miglior dimostrazione?
Il 5 ottobre 1988, contro tutti i pronostici che davano il dittatore
Pinochet come vincitore del plebiscito destinato a proclamarlo
presidente del Cile a vita, la maggioranza della gente votò contro
di lui e lo estromise dal governo.
L’intensa campagna
elettorale che aveva portato a questo trionfo aveva uno slogan: Cile,
arriva la gioia.
In La magia in azione, Guanda 2006
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