Don Rodrigo. Bozza di Francesco Gorim per "I Promessi Sposi" (edizione 18409 |
Come codetta alle
insaziabili celebrazioni di Don Lisander, e anche di Amadeus, vorrei
ancora ripescare certi raffronti manzo-mozartiani già sviluppati
nelle ingiallite pagine di Certi romanzi (Einaudi, 1977). Nei
confronti di Don Giovanni, infatti, quale perversa tecnica di
"abbassamento" e "degradazione" viene perpetrata
dall'infernale Manzoni con la messa a punto dei comportamenti e delle
motivazioni e delle inibizioni di Don Rodrigo.
Si sa, intanto, che da
Maraon a Macchia si possono consultare divagazioni finissime, sul
"tormentone" del capriccio carnale vero o presunto del
"Don" nei confronti della forosetta promessa sposa al
villano. ("Troppo mi premono, queste contadinotte!", nel
libretto del Da Ponte. "Le voglio divertir finchè vien
notte!"). Ma a parità di spagnolismo padronale, di barocco
rivisitato, di eros autentico o putativo, le strategie villerecce di
Don Rodrigo sembrano platealmente rozze, rispetto al "savoir
faire" sfoggiato da Don Giovanni. Secondo il famoso Catalogo,
le esperienze di costui sono incomparabilmente più abbondanti. (Solo
in Italia, "seicento e quaranta"). Di Don Rodrigo, invece,
si sa solo che dopo l'arrabbiatura provocatagli da Padre Cristoforo,
se ne va - a piedi, cose da vergognarsi - verso Lecco, "in una
casa, dove andava, per il solito, molta gente". (Poco
"exclusive", quindi). Sospensioni e censure che lasciano
intuire sfoghi abituali e a buon mercato: come quando l'Innominato,
dopo aver lasciato Lucia, "fatta una consueta visita a certi
posti del castello... s' era andato a cacciare in camera". Certi
posti... si dice così quando si vuol titillare un' immaginazione
lubrica. Se fosse andato a verificar la chiusura del portone o a dar
da mangiare ai cani, Don Lisander poteva dircelo.
Al contrario dell'ottuso
e obliquo Don Rodrigo, il mondano estroverso Don Giovanni ha capito
tutto, e usa mezzi semplici, diretti, spontanei. "Oh, caro il
mio Masetto! Cara la mia Zerlina! V'esibisco la mia protezione!".
Altro che far passare la libido attraverso la Chiesa, offrendo la
protezione tramite il frate, e mandando i bravi dal parroco, dunque
prenotandosi un esito derisorio... Questo non è rococò: è
conoscenza dei meccanismi eterni dell'animo umano. Macchè bravi:
simpatia! Macchè minacce: carineria! Macchè "prima di domani,
quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo!" (cioè, voler
fare il Sade a Lecco, senza averne la fantasia nè i mezzi, uno che
va a Lecco a piedi...). Invece, Don Giovanni a Leporello: "Presto,
va con costor: nel mio palazzo, conducili sul fatto! Ordina che
abbiano cioccolata, caffè, vini, prosciutti!" (Don Giovanni
dispone anche di subordinati più svegli. Basta paragonare a
Leporello - "voglio fare il gentiluomo!" - quel povero
Griso: che barbone, che Tecoppa, che ladro di galline). Non per
nulla, di fronte a un'esuberanza così "alla mano", e a un
rinfresco dal menu così stravagante, altro non rimane a Masetto che
ritirarsi, senza nemmeno gli scatti di Elvino contro il Conte Rodolfo
nella Sonnambula. "Ho capito, signor sì! Chino il capo e me ne
vo! Giacché a voi piace così, altre repliche non fo". E
Zerlina, da parte sua: "Va, non temere, nelle mani son io d'un
cavaliere!".
Che differenza non solo
di chic, fra i due Don, ma di accortezza. Don Rodrigo cerca di
trattenere Lucia con chiacchiere non punto belle, e viene punito in
questa sua rustica grossolanità: povero untorello, non ottiene nulla
di nulla. Don Giovanni, invece: "Là ci darem la mano, là mi
dirai di sì..." - e senza l'importuno arrivo di Donna Elvira
otterrebbe sicuramente tutto, grazie alle astute maniere non
disgiunte dalla signorilità del tratto. Infatti Zerlina ci sta e ci
spera ("Vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor, felice è
ver sarei, ma può burlarmi ancor"); e la didascalia del Da
Ponte precisa: "si incamminano abbracciati verso il casino".
E subito, macché pasto trucibaldo in "covili da fiere" tra
"omacci tarchiati e arcigni" e "donne con certe facce
maschie, e con certe braccia nerborute" (vignette di lesbismo
alpinistico da maso chiuso, degne di un fisiologo positivista). Chez
Don Giovanni, invece, champagne: "Finchè han del vino - calda
la testa - una gran festa - fa preparar!". E giù orchestrine,
danze, "signore maschere", galanteria.
Ora, la simmetria fra
queste due situazioni appare tanto vistosa, e le soluzioni profferte
da Amadeus e da Don Lisander sembrano così difformi, da suggerire di
riprendere un'illuminante intuizione di Vittore Branca sulla perfida
contestazione interna congegnata dal Manzoni ai danni delle più
rispettabili convenzioni letterarie del suo tempo. Tipico esempio,
quella campagna miserabile e devastata, dove lottano per la
sopravvivenza creature disperate e fameliche, come spaventevole
rinfaccio espressionistico alla linda gaiezza della Natura secondo
l'Arcadia e il Parini. Dunque, un'operazione analoga alle invettive
contro la Natura cannibalesca nei film americani di confutazione
anti-ecologica con Burt Reynolds... E proprio da parte di un autore
ben capace di eleganze settecentesche, tanto vero che "Addio
monti sorgenti dall'acque", decasillabo fra i più prelibati,
suona come un attacco di cabaletta ben degno di "Madamina il
catalogo è questo"...
Forse Don Lisander si
proponeva un analogo ribaltamento antisettecentesco del Don Giovanni,
deteriorandone il "mito" attraverso Don Rodrigo e i suoi
falsi passi, così argutamente calcolati, come per ironizzare nel
foyer del Melodramma ai danni di un fantasma già tarlato di
dominazione erotico-feudale già dèmodée? (E forse non a caso, la
battuta inaugurale dei bravi che lo rappresentano contiene già due
"segnali" abbastanza significativi, un lapsus linguistico
coincidente con una gaffe psicologica. A un orecchio lombardo,
infatti, un divieto così toscano come "non s'ha da fare"
suonerà sempre esotico e minatorio quale un "verboten"
alemanno d'occupazione; tanto che la sola risposta coerente potrebbe
suonare un "ovvìa, le son bischerate" da parte di Don
Abbondio. E poi, almeno da Adamo ed Eva, si sa pure che una
proibizione sobilla principalmente trasgressione, disubbidienza,
quindi "messa in moto di una trama". Altrimenti, che senso
avrebbe come "funzione" narrativa o drammaturgica?).
Forse Don Rodrigo
appartiene alla casistica del "libertino che non vuole affatto
concludere"? Don Lisander ci sottopone il suo "caso
clinico": fino a che punto è credibile uno sconsiderato che
desiderando (si dice) una povera fanciulla, invece di rivolgersi
immediatamente e non dilettantescamente a lei o alla sua mamma, con
fiori e gioielli e panettoni e marrons glacès - e non potendo fare
il Divin Marchese, perché Lecco è Lecco - manda i gorilla dal
prete? É la tattica più sicura per non ottenere nulla di nulla:
come se Bismarck, desiderando annettersi territori belgi, iniziasse
delle tortuose intimidazioni sul Vaticano. E non c'è bisogno di
rifarsi ai padri della psicanalisi per intendere che in tali casi c'è
sotto sotto più o meno confessato un desiderio che l'evento non si
compia. Oppure, visto il suo comportamento contorto, Don Rodrigo era
un masochista fra i più sventurati, e desiderava costantemente una
punizione? Se infatti si riscontra di quali inesauribili provviste di
tedio possa disporre Lucia, solo minimamente provocata (basta vedere
come annienta l'Innominato, con poche zaffate di fastidiosità bene
assestata), si comprenderà agevolmente come Don Rodrigo non
appartenga tanto all'infelice categoria del "picchiami,
picchiami, fammi male", bensì a quella non meno frequente
dell'"annoiami, annoiami, rompimi ancora di più!". Tale
casistica ci è stata a lungo resa familiare dai film di Alienazione
presieduti dal mito contemporaneo di Miss Broncio; ma anche nella
quotidianità non sembra troppo raro l'uomo prepotente con tutti che
ricerca per le proprie gratificazioni emotive (e fra lo sbigottimento
di molti) solo creature di eccezionale monotonia e petulanza. E non
si osa neppure immaginare l'uggiosità madornale che avrebbe
sopraffatto - e probabilmente soddisfatto - l'infelice Don Rodrigo,
una volta alle prese in tte-à-tte e full time con Lucia munita del
suo infallibile spray di noia. O forse Don Rodrigo poteva soffrire di
qualche difficoltà nelle funzioni maschili, ma in forma enigmatica,
come in Armance di Stendhal? E allora, per fare il Don
Giovanni con quei mediocri amici e "salvare la faccia" col
Conte Attilio, avrebbe soprattutto cercato di mandare a monte con
diversi espedienti dilatori le avventure astratte che minacciavano un
esito favorevole, e dunque chissà quali imbarazzi alle prese con una
pia ma forse carnale fanciulla? (È un caso tutt' altro che insolito:
basta andare a qualche festa, per raccogliere una quantità di sfoghi
di sventurate che danzano con dei Don Rodrighi tremendi per tutta la
sera, e poi al momento buono se li vedono scappar via coi pretesti
più sciocchi. C'è tutta una saggistica stagionata, in proposito, su
Don Giovanni).
Ma il lettore, per volere
dell'Autore, la sa più lunga di Don Rodrigo. Sa infatti che Lucia
rappresenta "l'Italia delle bustarelle". Quando infatti
propone alla Vergine Santissima un famoso baratto - "rinunziare
per sempre a quel poverino" pur di "tornar salva con mia
madre" - essa si uniforma a quel costume di do ut des
frequente negli stessi paesi mediterranei dove vige la mazzetta nei
ministeri, la mancia al postino, il regalo alla professoressa, e in
genere la convinzione che il funzionario è ingordo e il potente va
placato e il professionista va ingraziato con doni, preferibilmente
in contanti o in commestibili: tant'è vero che Renzo porta i capponi
al dottor Azzecca-garbugli. Lucia non sospetta nemmeno che in altri
climi un buon cattolico non si sognerebbe mai di offendere Gesù o la
Madonna e neanche un santino minore (così come non si dà la mancia
a una padrona di casa) con offerte di gioielli o assegni o
bigiotteria in cambio di un favore immediato e concreto: solo
preghiere ben fatte e onestà d'intenzioni. Dunque non sente la
sconvenienza di trattare la Vergine come una fattucchiera, con
transazioni di natura vaginale. Ecco le ambiguità di un
rovesciamento del Don Giovanni dove il "plot" viene messo
in moto da una falsa pulsione fondamentale, la cupidigia sessuale
attribuita a Don Rodrigo, ma presto svaporata in puntiglio o ripicca
nobiliare, tanto che a metà romanzo bisogna ricaricarla ricorrendo
agli spasimi di un mezzosoprano sopraggiunto, la Monaca di Monza. (Ma
la "sexiness", "uno non se la può dare": e anche
Renzo ha tanto potenziale erotico come un tenore del Don Pasquale
o dell' Elisir d'amore).
Ma siccome la motivazione
generale di Don Lisander è la religiosità e non la sensualità,
eccolo scostarsi da Amadeus e approssimarsi a Giuseppe Verdi. Don
Giovanni viene infatti sempre più svuotato man mano che si spiazza
Don Rodrigo, secondo l'ipotesi per cui l'empio libertino vuol trarre
soddisfazione dal maltrattamento di una pia fanciulla non in quanto
"oggetto sessuale" ma appunto perché pia. In questo caso,
però, l'avrebbe molestata più direttamente, la fanciulla
perseguitata: come insegnano innumerevoli Vite delle Sante
rappresentate dalle filodrammatiche religiose e da Paolo Poli. Lì il
Maligno se la prende pesantemente con la piccola devota, che infatti
gli replica "Vade retro Satana". Mai, invece, un malvagio
autentico intavola artifici ritardanti con personaggi marginali
rispetto alla vicenda primaria. Vengono invece in primo piano, per
Don Lisander, i bassi quasi protagonisti, come nel Don Carlo
verdiano: vecchi ecclesiastici o cattivi, come il Cardinale e
l'Innominato, con grinta e piglio e carisma, inoltre spalleggiati da
due fantasmi importantissimi come il Passato e il Potere.
la Repubblica, 19 marzo
1985
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