20.8.19

Quel Don Rodrigo, che debole amatore! Manzoni e il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte (Alberto Arbasino)

Don Rodrigo. Bozza di Francesco Gorim
per "I Promessi Sposi" (edizione 18409

Come codetta alle insaziabili celebrazioni di Don Lisander, e anche di Amadeus, vorrei ancora ripescare certi raffronti manzo-mozartiani già sviluppati nelle ingiallite pagine di Certi romanzi (Einaudi, 1977). Nei confronti di Don Giovanni, infatti, quale perversa tecnica di "abbassamento" e "degradazione" viene perpetrata dall'infernale Manzoni con la messa a punto dei comportamenti e delle motivazioni e delle inibizioni di Don Rodrigo.
Si sa, intanto, che da Maraon a Macchia si possono consultare divagazioni finissime, sul "tormentone" del capriccio carnale vero o presunto del "Don" nei confronti della forosetta promessa sposa al villano. ("Troppo mi premono, queste contadinotte!", nel libretto del Da Ponte. "Le voglio divertir finchè vien notte!"). Ma a parità di spagnolismo padronale, di barocco rivisitato, di eros autentico o putativo, le strategie villerecce di Don Rodrigo sembrano platealmente rozze, rispetto al "savoir faire" sfoggiato da Don Giovanni. Secondo il famoso Catalogo, le esperienze di costui sono incomparabilmente più abbondanti. (Solo in Italia, "seicento e quaranta"). Di Don Rodrigo, invece, si sa solo che dopo l'arrabbiatura provocatagli da Padre Cristoforo, se ne va - a piedi, cose da vergognarsi - verso Lecco, "in una casa, dove andava, per il solito, molta gente". (Poco "exclusive", quindi). Sospensioni e censure che lasciano intuire sfoghi abituali e a buon mercato: come quando l'Innominato, dopo aver lasciato Lucia, "fatta una consueta visita a certi posti del castello... s' era andato a cacciare in camera". Certi posti... si dice così quando si vuol titillare un' immaginazione lubrica. Se fosse andato a verificar la chiusura del portone o a dar da mangiare ai cani, Don Lisander poteva dircelo.
Al contrario dell'ottuso e obliquo Don Rodrigo, il mondano estroverso Don Giovanni ha capito tutto, e usa mezzi semplici, diretti, spontanei. "Oh, caro il mio Masetto! Cara la mia Zerlina! V'esibisco la mia protezione!". Altro che far passare la libido attraverso la Chiesa, offrendo la protezione tramite il frate, e mandando i bravi dal parroco, dunque prenotandosi un esito derisorio... Questo non è rococò: è conoscenza dei meccanismi eterni dell'animo umano. Macchè bravi: simpatia! Macchè minacce: carineria! Macchè "prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo!" (cioè, voler fare il Sade a Lecco, senza averne la fantasia nè i mezzi, uno che va a Lecco a piedi...). Invece, Don Giovanni a Leporello: "Presto, va con costor: nel mio palazzo, conducili sul fatto! Ordina che abbiano cioccolata, caffè, vini, prosciutti!" (Don Giovanni dispone anche di subordinati più svegli. Basta paragonare a Leporello - "voglio fare il gentiluomo!" - quel povero Griso: che barbone, che Tecoppa, che ladro di galline). Non per nulla, di fronte a un'esuberanza così "alla mano", e a un rinfresco dal menu così stravagante, altro non rimane a Masetto che ritirarsi, senza nemmeno gli scatti di Elvino contro il Conte Rodolfo nella Sonnambula. "Ho capito, signor sì! Chino il capo e me ne vo! Giacché a voi piace così, altre repliche non fo". E Zerlina, da parte sua: "Va, non temere, nelle mani son io d'un cavaliere!".
Che differenza non solo di chic, fra i due Don, ma di accortezza. Don Rodrigo cerca di trattenere Lucia con chiacchiere non punto belle, e viene punito in questa sua rustica grossolanità: povero untorello, non ottiene nulla di nulla. Don Giovanni, invece: "Là ci darem la mano, là mi dirai di sì..." - e senza l'importuno arrivo di Donna Elvira otterrebbe sicuramente tutto, grazie alle astute maniere non disgiunte dalla signorilità del tratto. Infatti Zerlina ci sta e ci spera ("Vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor, felice è ver sarei, ma può burlarmi ancor"); e la didascalia del Da Ponte precisa: "si incamminano abbracciati verso il casino". E subito, macché pasto trucibaldo in "covili da fiere" tra "omacci tarchiati e arcigni" e "donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute" (vignette di lesbismo alpinistico da maso chiuso, degne di un fisiologo positivista). Chez Don Giovanni, invece, champagne: "Finchè han del vino - calda la testa - una gran festa - fa preparar!". E giù orchestrine, danze, "signore maschere", galanteria.
Ora, la simmetria fra queste due situazioni appare tanto vistosa, e le soluzioni profferte da Amadeus e da Don Lisander sembrano così difformi, da suggerire di riprendere un'illuminante intuizione di Vittore Branca sulla perfida contestazione interna congegnata dal Manzoni ai danni delle più rispettabili convenzioni letterarie del suo tempo. Tipico esempio, quella campagna miserabile e devastata, dove lottano per la sopravvivenza creature disperate e fameliche, come spaventevole rinfaccio espressionistico alla linda gaiezza della Natura secondo l'Arcadia e il Parini. Dunque, un'operazione analoga alle invettive contro la Natura cannibalesca nei film americani di confutazione anti-ecologica con Burt Reynolds... E proprio da parte di un autore ben capace di eleganze settecentesche, tanto vero che "Addio monti sorgenti dall'acque", decasillabo fra i più prelibati, suona come un attacco di cabaletta ben degno di "Madamina il catalogo è questo"...
Forse Don Lisander si proponeva un analogo ribaltamento antisettecentesco del Don Giovanni, deteriorandone il "mito" attraverso Don Rodrigo e i suoi falsi passi, così argutamente calcolati, come per ironizzare nel foyer del Melodramma ai danni di un fantasma già tarlato di dominazione erotico-feudale già dèmodée? (E forse non a caso, la battuta inaugurale dei bravi che lo rappresentano contiene già due "segnali" abbastanza significativi, un lapsus linguistico coincidente con una gaffe psicologica. A un orecchio lombardo, infatti, un divieto così toscano come "non s'ha da fare" suonerà sempre esotico e minatorio quale un "verboten" alemanno d'occupazione; tanto che la sola risposta coerente potrebbe suonare un "ovvìa, le son bischerate" da parte di Don Abbondio. E poi, almeno da Adamo ed Eva, si sa pure che una proibizione sobilla principalmente trasgressione, disubbidienza, quindi "messa in moto di una trama". Altrimenti, che senso avrebbe come "funzione" narrativa o drammaturgica?).
Forse Don Rodrigo appartiene alla casistica del "libertino che non vuole affatto concludere"? Don Lisander ci sottopone il suo "caso clinico": fino a che punto è credibile uno sconsiderato che desiderando (si dice) una povera fanciulla, invece di rivolgersi immediatamente e non dilettantescamente a lei o alla sua mamma, con fiori e gioielli e panettoni e marrons glacès - e non potendo fare il Divin Marchese, perché Lecco è Lecco - manda i gorilla dal prete? É la tattica più sicura per non ottenere nulla di nulla: come se Bismarck, desiderando annettersi territori belgi, iniziasse delle tortuose intimidazioni sul Vaticano. E non c'è bisogno di rifarsi ai padri della psicanalisi per intendere che in tali casi c'è sotto sotto più o meno confessato un desiderio che l'evento non si compia. Oppure, visto il suo comportamento contorto, Don Rodrigo era un masochista fra i più sventurati, e desiderava costantemente una punizione? Se infatti si riscontra di quali inesauribili provviste di tedio possa disporre Lucia, solo minimamente provocata (basta vedere come annienta l'Innominato, con poche zaffate di fastidiosità bene assestata), si comprenderà agevolmente come Don Rodrigo non appartenga tanto all'infelice categoria del "picchiami, picchiami, fammi male", bensì a quella non meno frequente dell'"annoiami, annoiami, rompimi ancora di più!". Tale casistica ci è stata a lungo resa familiare dai film di Alienazione presieduti dal mito contemporaneo di Miss Broncio; ma anche nella quotidianità non sembra troppo raro l'uomo prepotente con tutti che ricerca per le proprie gratificazioni emotive (e fra lo sbigottimento di molti) solo creature di eccezionale monotonia e petulanza. E non si osa neppure immaginare l'uggiosità madornale che avrebbe sopraffatto - e probabilmente soddisfatto - l'infelice Don Rodrigo, una volta alle prese in tte-à-tte e full time con Lucia munita del suo infallibile spray di noia. O forse Don Rodrigo poteva soffrire di qualche difficoltà nelle funzioni maschili, ma in forma enigmatica, come in Armance di Stendhal? E allora, per fare il Don Giovanni con quei mediocri amici e "salvare la faccia" col Conte Attilio, avrebbe soprattutto cercato di mandare a monte con diversi espedienti dilatori le avventure astratte che minacciavano un esito favorevole, e dunque chissà quali imbarazzi alle prese con una pia ma forse carnale fanciulla? (È un caso tutt' altro che insolito: basta andare a qualche festa, per raccogliere una quantità di sfoghi di sventurate che danzano con dei Don Rodrighi tremendi per tutta la sera, e poi al momento buono se li vedono scappar via coi pretesti più sciocchi. C'è tutta una saggistica stagionata, in proposito, su Don Giovanni).
Ma il lettore, per volere dell'Autore, la sa più lunga di Don Rodrigo. Sa infatti che Lucia rappresenta "l'Italia delle bustarelle". Quando infatti propone alla Vergine Santissima un famoso baratto - "rinunziare per sempre a quel poverino" pur di "tornar salva con mia madre" - essa si uniforma a quel costume di do ut des frequente negli stessi paesi mediterranei dove vige la mazzetta nei ministeri, la mancia al postino, il regalo alla professoressa, e in genere la convinzione che il funzionario è ingordo e il potente va placato e il professionista va ingraziato con doni, preferibilmente in contanti o in commestibili: tant'è vero che Renzo porta i capponi al dottor Azzecca-garbugli. Lucia non sospetta nemmeno che in altri climi un buon cattolico non si sognerebbe mai di offendere Gesù o la Madonna e neanche un santino minore (così come non si dà la mancia a una padrona di casa) con offerte di gioielli o assegni o bigiotteria in cambio di un favore immediato e concreto: solo preghiere ben fatte e onestà d'intenzioni. Dunque non sente la sconvenienza di trattare la Vergine come una fattucchiera, con transazioni di natura vaginale. Ecco le ambiguità di un rovesciamento del Don Giovanni dove il "plot" viene messo in moto da una falsa pulsione fondamentale, la cupidigia sessuale attribuita a Don Rodrigo, ma presto svaporata in puntiglio o ripicca nobiliare, tanto che a metà romanzo bisogna ricaricarla ricorrendo agli spasimi di un mezzosoprano sopraggiunto, la Monaca di Monza. (Ma la "sexiness", "uno non se la può dare": e anche Renzo ha tanto potenziale erotico come un tenore del Don Pasquale o dell' Elisir d'amore).
Ma siccome la motivazione generale di Don Lisander è la religiosità e non la sensualità, eccolo scostarsi da Amadeus e approssimarsi a Giuseppe Verdi. Don Giovanni viene infatti sempre più svuotato man mano che si spiazza Don Rodrigo, secondo l'ipotesi per cui l'empio libertino vuol trarre soddisfazione dal maltrattamento di una pia fanciulla non in quanto "oggetto sessuale" ma appunto perché pia. In questo caso, però, l'avrebbe molestata più direttamente, la fanciulla perseguitata: come insegnano innumerevoli Vite delle Sante rappresentate dalle filodrammatiche religiose e da Paolo Poli. Lì il Maligno se la prende pesantemente con la piccola devota, che infatti gli replica "Vade retro Satana". Mai, invece, un malvagio autentico intavola artifici ritardanti con personaggi marginali rispetto alla vicenda primaria. Vengono invece in primo piano, per Don Lisander, i bassi quasi protagonisti, come nel Don Carlo verdiano: vecchi ecclesiastici o cattivi, come il Cardinale e l'Innominato, con grinta e piglio e carisma, inoltre spalleggiati da due fantasmi importantissimi come il Passato e il Potere.

la Repubblica, 19 marzo 1985

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