Franco Fortini ci lasciò
dieci anni fa, mese di novembre, il 28. L’ultima immagine è di un
uomo vigoroso, severo, diritto, il volto scavato, i capelli bianchi,
morbidi all’indietro. Poi i funerali, nel gelo dell’inverno
milanese. Aveva settantasette anni. Avrebbe potuto ancora aiutarci,
perché era capace di intuire i cambiamenti, le novità. Avrebbe
saputo leggere il decennio berlusconiano e avrebbe saputo proporci
qualche spiegazione in più e probabilmente prima degli altri. Dire,
dieci anni dopo, che ci manca è un’ovvietà. Ci manca Fortini e ci
manca il pane di Fortini, la critica. Sarebbe stato bello (magari
penoso per lui) sentirlo di questi giorni tra una riforma
istituzionale, i comunicati di Tremaglia, il federalismo e le altre
fanfaronate di governo e gli arzigogoli degli intellettuali di
regime. Chissà. Magari avrebbe ancora avuto voglia di parlare o di
scrivere. O di rispondere alle nostre telefonate.
Metteva apprensione una
telefonata a Fortini, troppo bravo e difficile lui per reggere noi le
domande di un’intervista. Poi tutto si faceva semplice, perché
Franco Fortini era un maestro e, dopo tanti istituti tecnici dietro
la cattedra, era un autentico educatore. Aveva la chiarezza delle
idee profonde e nette e sapeva comunicarle. La dottrina era vasta: un
intellettuale che catturava tutto e sapeva rendere con vivezza la
trasversalità degli argomenti, dei problemi, delle interpretazioni.
Lo riferivamo anche gli amici più “grandi”, come Grazia Cherchi
e Piergiorgio Bellocchio, raccontando dei Quaderni piacentini
e di come s’avviò quell’avventura nei primi anni sessanta. Loro
avevano avuto l’idea, ma s’erano trovati sempre al fianco a
spronarli e a consigliarsi quel signore burbero e colto che avevano
invitato una volta a Piacenza, quando ancora i Quaderni non
esistevano e viveva soltanto un circolo culturale di giovani, un poco
assediati dentro una città di provincia con i suoi lati di
bigottismo e di oscurantismo.
Fortini nutriva una certa
passione per le riviste. Ai Quaderni piacentini si prestò con
un aiuto importante. Ad altre riviste partecipò e collaborò:
Comunità, Officina, Ragionamenti, Il menabò
e poi Quaderni rossi (si sentiva molto vicino a Raniero
Panzieri). Naturalmente Fortini scrisse sui giornali della sinistra e
non solo della sinistra: Avanti, Unità, Manifesto,
Messaggero, Corriere della Sera, Il Sole 24 ore. Era un
intellettuale militante e pensava al “dovere” di comunicare.
L’ultimo inter-vento pubblico lo aveva dedicato proprio al tema
della comunicazione: il giorno dopo la prima guerra del golfo cercava
di riflettere sull’imbarbarimento della televisione e
dell’informazione, quelle stesse che ci avevano indotto ad
assistere a quella tragedia come a un videogioco. Più avanti sarebbe
andata peggio... Senza retorica Fortini inseguiva, come poteva, una
verità e capiva che per tentare di raggiungerla compromessi non se
ne facevano, neppure con le parole. Per questo s’era dato subito un
vincolo: parlar chiaro e scrivere chiaro, un richiamo all’onestà e
alla pulizia mentali tanto più generoso e necessario quanto più la
sinistra degli anni difficili insiste nell’abitudine di costruirsi
metalinguaggi consolatori per gruppi, clan, conventicole...
Parlar chiaro e scrivere
chiaro erano nel suo religioso riguardo per la cultura, anche quella
della nostra grande tradizione classica. Come disse una volta Sergio
Bologna: «Fortini ci ha insegnato ad aver rispetto della lingua
italiana e ha combattuto contro le forme di sciatteria e di volgarità
dell’ultrasinistra, ha detestato il burocratese, il sindacalese, i
gerghi del radicalismo con un rigore esemplare, ha detestato allo
stessa maniera i linguaggi esoterici, chiusi degli intellettuali».
Le parole devono circolare... Sulle sue parole potrebbe aver pesato
persino l’esperienza all’Olivetti. Anche lui, come molti altri
intellettuali italiani, passò di lì e ottenne una collaborazione
come copywriter. Doveva inventare sigle, slogan per vendere le
macchine, testi per spiegarne il funzionamento. Il lavoro gli impose
la disciplina: una prosa scattante, brevità, semplicità e ancora
idee chiare.
Ci sono un costume, un
metodo, una morale in tutto questo. Nel segno della coerenza, che si
riflette nella politica. Fortini era intransigente, indipendente e
autonomo dai poteri, economici, accademici, politici, poteri forti o
poteri arroganti delle piccole élite. Non li ha mai usati per
fare carriera, per conquistare spazio su giornali e riviste, per una
cattedra universitaria. All’università arrivò solo nel 1971
(insegnò fino al 1989 storia della critica letteraria a Siena).
Visse la stagione della Resistenza e dell’antifascismo, seguì
vicende della società industriale e della sua crisi, si sentì
profondamente coinvolto nella rivoluzione postfordista (la sua
partecipazione ai Quaderni rossi ne fu un segnale). Capì che
il mondo cambiava e capì che in quel mondo nuovi diventavano i suoi
interlocutori e che la sua “critica al capitalismo” era un
esercizio ancora vitale, ma non immutabile. Fortini pensava nel
futuro, per una radicale “critica al capitalismo” della società
presente, con un programma preciso: «criticare l’immagine
mistificata, ossia la forma illusoria, che la classe oppressa ha di
se stessa». Fortini usò per questo la letteratura, la sua e quella
degli altri, di Sartre e di Eluard, di Brecht, di Proust e di Goethe.
Ma considerava la
letteratura come il luogo di un esame totale: c’è sempre il mondo
da scoprire. Non è strano che Fortini fosse poeta. Lo sentiva ancora
il suo scrivere versi, citando Adorno, nel senso, radicalmente, della
negazione e contestazione di tutto ciò che sta e viene accettato nel
«quotidiano ripetuto». Un tramonto di pace è un suggerimento di
felicità che può avere nell’animo di chi lo ascolta un valore
dirompente. Una volta spiegò: «La poesia parla di qualcosa e nello
stesso tempo parla di se stessa. La voce della poesia dice questo o
quello, ma lo dice in modo che un effetto d’eco ci ricorda sempre
che non la si può prendere in parola. Naturalmente questo irrita
coloro che vogliono opinioni, vogliono scelte, sentimenti immediati.
Ebbene questa ambiguità è la sua lezione, una lezione
fondamentale...».
“l'Unità”, 14
ottobre 2004
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