Firenze, San Lorenzo - Donatello, Pulpito della resurrezione (1465), particolare |
Forse un artista più
grande di Donatello non ha mai camminato per le vie dell’Italia. Di
sicuro nessuno ha mai usato meglio la propria libertà: una libertà
conquistata faticosamente, pezzo a pezzo. Da vecchio, a ottant’anni,
Donatello può fare quello che vuole. Può immaginare la storia più
famosa del mondo - quella di Gesù - come nessuno ha osato fare fino
a lui. E può fermare queste sue fantastiche e liberissime
immaginazioni non in un disegnetto schizzato a lapis, come accade a
tutti gli artisti, ma nel più nobile dei materiali: il bronzo.
Lo fa in una serie di
rilievi che formano due pulpiti per la sua amatissima Basilica di San
Lorenzo, nel cuore di Firenze.
La scena più
impressionante racconta l’episodio che da solo dà senso a tutta la
religione cristiana: la resurrezione di Cristo. E cioè il fatto che
Gesù, all’alba del terzo giorno che trascorreva nella tomba, dopo
esser morto in croce, tornò alla vita. Il più grande trionfo della
storia dell’umanità: la sconfitta della morte. «O morte, dov’è
la tua vittoria? Dov’è ora il tuo pungiglione?», griderà poi san
Paolo, con la voce di tutte le generazioni.
Dunque, quando un artista
- non importa se pittore o scultore - doveva rappresentare la
resurrezione, raffigurava Gesù come un condottiero vincitore, come
un atleta che era arrivato primo, come un ginnasta che schizza fuori
dal sepolcro mentre i soldati romani dormono ignari. Un Gesù che
sembra non esser mai stato morto: quasi che fosse stata tutta una
messinscena.
Donatello no. Il suo Gesù
è vero uomo, oltre che vero dio. Come vero dio è risorto davvero:
ma come vero uomo era morto sul serio. Donatello ce lo mostra appena
uscito dal sepolcro. Ancora completamente coperto dal sudario e dalle
bende funebri: una specie di mummia che cammina, come nei nostri film
dell’orrore. Morire e risorgere: una fatica terribile. Tutta la
sofferenza del mondo, tutta la stanchezza del mondo: e ora non ha
nemmeno la forza di sbendarsi. Prima deve riprendere fiato, con un
piede appoggiato al suo sarcofago. Chiunque, vedendo questo Cristo
fragile e umanissimo, può credere che la resurrezione lo riguardi
personalmente.
Quella carne stanca è la
nostra carne stanca. Quell’affanno è il nostro affanno. Nulla di
bello riesce senza fatica, al mondo: nemmeno la resurrezione.
E, su un incredibile
sfondo di architetture di vimini, i soldati dormono come pupi
siciliani caduti dal chiodo. Chiusi nelle loro armature non si
accorgono di nulla. Proprio come noi.
L'ora d'arte,
Einaudi 2019
Nessun commento:
Posta un commento