Ceccardo Ceccardi
Roccatagliata nacque a Genova nel 1871 e vi morì poco più di 100
anni fa, il 3 agosto del 1919. Visse tra il capoluogo ligure, la
Lunigiana e Carrara. È conosciuto soprattutto come poeta di stile
carducciano e classicheggiante, ma percorso da tensioni decadenti e
simboliste. Come collaboratore de “Lo svegliarino”, il giornale
della sinistra democratica di Carrara e delle Alpi Apuane, scrisse
della ribellione anarchica che vi si svolse nel 1894, e ad essa
dedicò un opuscolo stampato a sue spese presso la Tipografia
Operaia, in cui denunciò le dure condizioni di vita dei cavatori e
la feroce repressione governativa, un pamphlet che subì più di un
sequestro e diede al coraggioso autore qualche notorietà tra la
Liguria e le province di Massa Carrara e Lucca. Lo “posto” qui,
riprendendolo da “Liber liber” per il suo interesse non solo
letterario. (S.L.L.)
Carrara - "Cararia". Monumemento alle lotte sindacali dei lavoratori del marmo |
Victor Hugo, nel poema I
castighi, dove egli lumeggia così foscamente Napoleone il
piccolo, parla con tristezza dei lamenti sordi che avevano i fiotti
dell’Atlantico quando trasportavano sul dorso verso la nuova
Caledonia, i pontoni sdruciti pieni zeppi di coloro che avevano
tentato di difendere la repubblica dagli artigli del triste Cesare la
notte del due dicembre. Piangeva il vecchio Oceano solitario con
l’anima del poeta Guernesey.
E a me pareva così
doloroso, quando qualche settimana fa, alla vecchia stazione di Massa
fischiavano i treni in partenza tra i primi sbuffi di vapore e il
lento cigolio delle assi, i treni che portavano lontano dai borghi
natii, lontano dalle madri, dalle spose, dai figli, dalle sorelle, ai
reclusori del Piemonte, ai reclusori del Mezzogiorno, coloro cui la
legge militare e un tribunale di giberne avevan detto insorti
anarchici, e ferrei avevan colpito senza pietà, senza riguardi,
senza coscienza: senza saper neppure bene come colpissero, chi
colpissero, perché colpissero.
Erano scene strazianti.
Per lo più quei tristi condannati, quasi tutti giovanetti, erano
fatti partire coi treni del mattino. L’alba si levava lentamente
sulle Apuane, i monti delle cave dove forse i loro padri, i loro
fratelli erano morti schiacciati da un masso rotolante per un
ravaneto, o sotto lo scoppio orrendo di una mina, per guadagnarsi un
tozzo di pane. La luce scendeva lentamente e gettava dei lividori
sulle facce pallide, smarrite dei condannati, sul filo delle
baionette. Qualche madre, qualche sposa li attendevano talvolta. E si
slanciavano piangendo tendendo loro le braccia disperatamente, prese
da un invincibile desiderio di ribaciare coloro che avevano
allattato, o baciato dolcemente un giorno di nozze, figli, mariti,
coloro che, come vecchi assassini, andavano a marcire le carni in una
segreta.
E perché sperare di
rivederli?
Ragazzi di diciotto o
venti anni assuefatti all’aria ossigenata dei loro monti, al sole
delle loro cave, devono scontare dieci, dodici, diciassette anni di
galera, due, tre, quattro anni di segregazione cellulare continua. E
potranno resistere! Perché sperare di rivederli?
Si slanciavano, si
ripiegavano respingendo bruscamente, qualche volta anche cadendo a
terra, dalle mani brutali della forza, lo stridulo riso e il ghigno
dei gallonati presi di meraviglia che quelle madri, quelle spose di
supposti anarchici, avessero, intendete bene, un cuore che
palpitasse, che piangesse, e potesse anche gridare: misericordia!
Partivano i figli, i
mariti pei lontani reclusori, ed esse ritornavano alle loro case, cui
gli usci, nei tristi giorni delle perquisizioni e degli arresti erano
stati sfondati dalla furia dei carabinieri e degli alpini, col calcio
del fucile, o a colpi di baionetta, alle loro case dove altre donne
ed altri figli piangevano con lo spettro del futuro negli occhi, lo
spavento della futura fame nell’anima.
Verrà l’estate,
ritorneranno l’autunno e l’inverno, ma essi, mai mai, per molti
anni ed anni, forse mai più. E beate quelle madri cui è rimasto un
figlio; quelle figlie cui è rimasto uno sposo a consolarle! Non son
rare le madri che hanno tutti i figli e i mariti in prigione, non son
rare le giovinette spose da due o tre mesi che hanno il giovinetto
consorte condannato a vent’anni di galera.
Che vita! Quante
esistenze infrante, quanta vitalità perduta!
Nel paese di Ortonovo -
una bianca borgata su un colle di olivi fittissimi, tre ore dalle
cave di marmo dove giornalmente molti uomini con molto sperpero di
forze si recano a lavorare - si possono senza fallo contare, tra un
migliaio di abitanti ed una quarantina di condannati, nove o dieci
spose - giovinette di sedici o diciassette anni - vedove per dieci,
dodici, diciassette anni dei loro giovanissimi sposi.
Leggete i resoconti dei
processi che si stampano a Carrara da un editore assai conservatore e
che fa l’apologia di quei tristi tribunali - leggete dico - quei
resoconti di cui - nonostante ciò pubblicheremo qualche numero
interamente per eternare maggiormente la sapienza militare - e
vedrete: sono cose che fanno orrore. Dario Papa ha ragione: neppur
l’Austria osò tanto.
E ciò tanto ributta, se
si pensa che i burattinai di questa dolente epopea sono coloro che
consacrano marmi al Pellico e ai Confalonieri e affermano: Mazzini è
con noi!
Si condanna perché uno
fu arrestato, perché un brigadiere dei Reali, un poliziotto afferma
che sa - egli - e da sue private informazioni esser l’accusato un
anarchico; si leggono deposizioni di testimoni non firmate, come le
denuncie che si gettavano nella bocca del Leone a Venezia ai tempi
dell’Inquisizione di Stato; si vieta agli imputati di scrivere a
casa per trovare testimoni e provare l’alibi, e se la famiglia se
ne occupa appena due ne son concessi, mentre prima in prigione a
forza di pugni - lo dicono le madri, le spose che sono state a
trovare i condannati prima del loro invio ai reclusori - si è fatto
loro confessare come ai tempi dell’inquisizione domenicana il
misfatto che non avevano commesso ed accusare compagni e fratelli.
Oh, non per nulla s’inquarta un motto in uno stemma!
Se entrasse in una sala
di quel tribunale militare uno che fosse assente dall’Europa da
trenta o quarant’anni, ignorerebbe completamente dalle resultanze
del processo di che vengono accusati, perché si con- dannano sempre,
così mostruosamente. Se egli potesse entrare soltanto quando vien
letta la sentenza potrebbe chiedersi: quante case hanno bruciato quei
malfattori? Quanti soldati uccisi? Deve essere durata molto la lotta!
M’è caro di non essere
stato ad ascoltare i testimoni! Dev’essere stato un vero orrore...
Ebbene, sarebbe forse meglio, avrebbe ancora la coscienza in pace,
non avrebbe ancor conosciuto quante infamie commette la società in
cui vivrebbe, in cui viviamo.
E potrebbe ancora
pensare: essi avevano molti fucili, delle mitragliatrici, della
polvere... della dinamite... Orrore!
Essi invece non hanno
ucciso nessuno, eccetto un carabiniere che li ha assaliti, non hanno
bruciato neppure una capanna, devastato neppure un campo, rubato
neppure un chicco di grano... Essi non avevano che qualche centinaia
di fucili in due o tre mila, poca polvere, neppure una bomba di
dinamite.
È vero volevano fare una
rivoluzione, erano stanchi di essere sfruttati, di morire per pochi
centesimi al giorno - ignoti - sotto i massi e le mine delle cave, ma
i più non sapevano neppure cosa fosse una rivoluzione, quanto
coraggio e abnegazione ci vogliono a farla; e la prima sera della
rivolta in quattrocento o cinquecento, si sono sbandati come tante
pecorelle dinanzi a due carabinieri, uno già morto, uno quasi
moribondo.
Vergogna! Oh, non così,
non così, ritorneranno la pace e l’amore in quelle regioni!
Il popolo non dimentica;
questo è certo; come è legge fatale che dalla rivoluzione succeda
la reazione, e da questa, più grande e potente una seconda
rivoluzione.
Vico pel primo intuì
questa terribile armonia nelle sorti dell’umanità. State pur certi
quel che succedette nessuno cui importi anche una quisquiglia
dimenticherà.
Si starà zitti per
adesso, ma col tempo...
Oh! quelle donne, quei
fanciulli di condannati, quelle vedove, quelli orfani si diranno in
cuore eternamente: Oh! deve essere assai ingiusta la società per cui
lavoriamo, se colpisce tanti uomini che non hanno mai rubato come un
Tanlongo, né mai assassinato come... ricordate il dramma della
Regia? se colpisce tanti uomini perché hanno pensato a un sogno
d’amore e di pace, a un giorno in cui non ci sarebbero più
sfruttati e sfruttatori, e ognuno potrà dire con sicurezza: stasera
cenerò, avrò un poco di fuoco, due lenzuoli... deve aver molta
paura di quel giorno la società presente... e in fondo poi, perché?
non è giusto? deve essere ben giusto e grande se i ricchi ricorrono
all’ingiustizia... e all’inganno per colpire chi appena lo pensa,
timidamente lo sogna!
E forse più di tutto a
quelle donne e quei fanciulli rimarrà in cuore l’inganno con cui
furono imprigionati tanti fratelli, tanti padri. Io me lo rammento
bene.
Non tutti i condannati
vennero arrestati dai soldati. Molti negli ultimi di gennaio erano i
fuggitivi sulle montagne, tra le pinete e gli olmi onde son fitte
l’ultime propaggini montane dell’Alpe Apuana; costoro vivevano
fuggitivi dalle loro borgate, dalle famiglie, ai venti ai freddi,
alle piogge invernali. Ebbene, lo credereste? Il comando militare
fece predicare dai prevosti, dai parroci delle borgate in parola,
fece predicare dai preti, alle famiglie, alle spose, alle fidanzate
degli accusati che se essi si fossero arresi nelle mani degli
ufficiali, presto tutto sarebbe finito; tolto lo stato d’assedio
pochi mesi di carcere agli insorti, e poi... soprattutto la grazia
sovrana.
I preti non si
accontentarono di ciò, andarono di casa in casa, e dissero alle
madri, alle spose: fate che i vostri figli si arrendano nelle mani
della forza, tutto andrà bene. E molti accusati spontaneamente
discesero dalle loro montagne impervie e sono andati da un brigadiere
dei carabinieri, da un sottufficiale degli alpini ed hanno detto: io
sono il tal dei tali, io sono innocente e poi spero in quello che
avete fatto dire alla mia famiglia... io sono innocente, lo ripeto,
ma mi arrendo... E il tribunale rispose un giorno: voi vi siete
arreso, bene, invece di quindici... dodici anni di galera! Pochi,
ahimè, sono stati gl’increduli, pochi sono rimasti e pochi
rimangono nelle loro montagne, poveri fuggitivi, con la taglia
feudale sul capo, la fame nel petto, il desiderio di rivedere la
famiglia nell’animo... e alle famiglie di costoro, irritati che il
dolo non valesse, ufficiali e sbirri hanno invaso le case nelle notti
di febbraio non curando grida di pargoli spaventati ed hanno
arrestato vecchi padri di famiglia cui l’amore del sangue, che
anche la legge rispetta, vietava di dire ove fossero i figli
fuggenti: ufficiali si sono introdotti nelle stanze di donne che
appena da cinque o sei giorni si erano sgravate di un bambino e con
voce assordante han minacciato le puerpere se non avessero rivelato
dove era, che mai pensasse di fare, qual audacia ancora avesse il
fuggitivo consorte. E basta, è vero? Basta perché dir qualcosa di
più sarebbe troppo.
Io sono stato sui monti
delle cave sotto il folgorio del sole, che acceca riverberando sul
bianco dei marmi. Tra il turbinio della polvere mossa dal vento, tra
gli schianti delle mine, tanti uomini salgono dalle verdi campagne
lunigiane a guadagnare di che sostentare la famiglia, la famiglia che
vive quietamente in un bianco casolare laggiù perduto tra macchie di
pioppi e filari di viti.
Io sono stato lassù a
Fantiscritti e a Ravaccione, le supreme cave e dinanzi all’immensità
della natura che si estrinseca in una strana forma di paesaggio
roccioso, dalle tinte ciclopiche dinanzi alla mostruosità convulsa
dei monti e all’orridezza dei ravaneti, all’audacia dei picchi
svettanti nell’azzurro, o perdendosi in una bianca nube velata che
acceca col suo riverbero, ho detto: gli uomini qui lavorano, ben si
guadagnano il pane. Tanto il piede affonda nel ravaneto, tanto sulla
testa è sospeso il masso che continuamente rotola, tanto la vita è
fragile se attaccata ad una fune appesa ad un semplice piuolo che
colui che qui lavora dev’essere un titano, od almeno lasciatemelo
dire, o borghesia, un eroe, sì, un vecchio eroe!
Egli non aspetta né
monumenti, né ricordo glorioso in pagine di storia; egli lavora per
la famiglia che cresce modestamente nella natia campagna e se un
giorno, come spesso succede, la canapa della lizza si romperà, e il
masso che scende dalle cave ai piazzali della marmifera, devii, se la
polvere bianca di un giorno di vento lo acciechi e un blocco di marmo
slanciato da una mina lo percuota, egli non avrà, se ferito, che
primo letto una scala, quattro pezzi di pino incrociati, e se morto,
appena un sacco d’onde si asportò già polveri piriche, e mine,
fragile cassa alle sfracellate membra. Nei cimiteri di Torano e di
Miseglia, son comuni queste sepolture d’ignoti e la famiglia ancora
li attende al piano verde col sogno nell’anima di rivederli alla
sera come sul dilucolo dell’ultima mattina, quando dopo aver
salutato la madre, o baciato la sposa, essi inconsci del loro fato
s’avviarono colà donde mai più ritorneranno.
Chi non ha veduto una
cava, chi non ha osato salirci non può davvero farsene un’idea. E
pensare che nelle vallate di Canal Piccinino e di Canal Bianco, esse
si contano a centinaia, una dietro l’altra, una sovra l’altra.
Sul diffuso grigio delle montagne arrugginite esse paiono enormi
ferite candide. Cigli di rupi irte, scannellature di righe
s’aggrottano sopra ed hanno un color di sangue sbiadito colà dove
la ruggine manca nel bianco. E cosí via via, su su finché non si
giunga al vertice supremo inaccessibile, irta punta che la nebbia
circonda quasi fosse il Nume del luogo. Sul piano della cava
s’ammucchiano i massi. Là lavorano gli squadratori, gli
scalpellini, ma su per la parete bianca, sulle creste delle rocce,
legati ad una fune, il piede su una tavola tremante, i cavatori
scavano le mine. Talora su un gruppo altissimo, è necessario fare in
breve una profonda mina; allora si uniscono molti pali di ferro, si
costruisce una specie d’impalcatura a vari piani con rozzi pini od
elci, là sopra sale qualche dozzina d’uomini ed allora comincia,
lento e monotono il lavoro; ogni colpo della ferrea stanga nel
calcare è accompagnato da un triste e cadenzato: Oh! Oh! Io ho
ascoltato lungamente quel richiamo onde tutti i lavoranti, in un sol
momento, abbiano intente le forze ad un medesimo atto. È un accordo
lamentoso, che gli echi rimandano, e affievolendolo rendono qualche
volta più dolente e fantastico, onde l’anima commossa pensa:
dunque anche qui vivono gli uomini? Dunque anche qui soffrono? In
terra non è luogo dunque ove non sia dolore?
Sotto il piazzale poi
delle cave scende rovinosamente il cumulo dei detriti di marmo che
l’escavazione continuamente aumenta. Scende colmando insenature,
sfaldandosi per i versanti dei balzi, ammucchiandosi in fondo alla
vallata o contro un ciglio enorme di rocce a mezzo monte. È il
ravaneto. In esso sono tracciate le vie delle lizze. Per queste vie
dal piano delle cave si fanno scendere i massi già squadrati ai
carri enormi tirati da bovi che li attendono a certi luoghi meno
ardui, o alle stazioni della ferrovia marmifera. Enormi piuoli sono
piantati per queste vie che hanno sempre il cinquanta o il sessanta
per cento di discesa, e servono a fissarvi le canape della lizza -
specie di slitta di legno, su cui i marmi van posti - onde scenda
lentamente, senza mine. Diversi uomini, detti lizzatori, posti sul
davanti, dispongono sotto il blocco in discesa, dei travicelli di
legno detti parati, che ne attutiscono lo sfregamento contro la
scabra via e ne agevolano il viaggio.
Quanto pericolo! La
canape spesse volte si spezza e il masso enorme - se gli uomini non
son pronti a fuggire - rotola loro addosso e si vendica, uccidendoli:
uccidendo essi piccoletti, che con piccoletti mezzi tentarono di
portarlo via dal suo santo luogo natale.
Tutti i giornali d’Italia
- rara avis un’eccezione - hanno detto che quei cavatori sono
uomini rozzi, ubriaconi.
E la calunnia fu ribadita
anche da una parte di coloro che dovevano assumerne la difesa. Di ciò
fu un eroe, si sa bene, anche qualche pseudo socialista, il quale
credendo che fosse anche poco, intinse un suo certo pennelletto in
vasi di negro fumo, e di rosso scarlatto ne pennelleggiò, con
l’entusiasmo di un salvatore della patria, tutta quanta la
Lunigiana.
Ahimè non tutti i
pittori impressionisti trionfano: gli sgorbi rimangono e per la
consumazione dei secoli.
È vero quegli uomini,
quei cavatori che oggi s’arrampicano per le rocce, dove appena
salgono le capre e domani ne precipitano sfracellati, al sabato sera,
alla domenica hanno l’uso del bere.
Qualche volta s’ubriacano
anche. Ma è la loro vita faticosa che lo richiede. Hanno bisogno di
rinvigorirsi, hanno bisogno di obliare fosse pure per due o tre ore,
la giovinezza sciupata al sole, la carne arsa, gli occhi sanguinanti
pei bianchi riverberi; hanno bisogno di dimenticare che domani forse
come il fratello, come lo zio un masso li sfracellerà e che avranno
venduto la loro vita o almeno saranno ridotti impotenti per pochi
centesimi; due, due e cinquanta, tre lire quotidiane che bastavano
appena a sostener la famiglia.
È inutile: finché il
diritto alla vita sarà calpestato si penserà a un miglioramento, si
spererà d’ottenere qualche cosa che sia più conveniente ai nostri
bisogni: finché ci saranno dei reietti e dei paria si guarderà
sperando nell’avvenire e forse un giorno maledicendo si insorgerà.
Ecco perché l’Utopia,
sia Marx o Bakunin l’apostolo, si diffonde maggiormente nelle
classi che soffrono, nelle officine, tra le motrici urlanti, nelle
miniere dove il “grisou” scoppia, nelle cave donde si asportano i
marmi che faranno belle le case della città.
E forse, nessuna signora
quando si tuffa, palpitando, in una vasca di masso lunense, ha mai
pensato che forse quel masso un giorno rotolando dal picco dove la
forza plutonica dell’Eocene lo aveva sollevato, si bagnò del
sangue dell’audace che lo staccò, terribile battesimo, come forse
non penserà mai che le perle onde si adornerà qualche momento dopo
uscendo, son costate la vita ad un povero negro affamato nelle
profondità misteriose dell’azzurro Oceano.
Mario Lazzoni scrisse: “I
grassi borghesi non vi ricordano, o forti pugnaci di Spartaco, non vi
ricordano o precursori ignoti, non vi ricordano voi vittime di
Caltavuturo e Conselice... È da Platone a Campanella, da Buonarroti
a Saint-Simon che una rivoluzione lenta si prepara maturata dagli
ingegni di tutti i popoli, resa indispensabile sempre più
dall’evoluzione dell’umano pensiero. [...] Hai gli uomini
ignoranti perché miseri, hai i pregiudizi di casta perché c’è
chi li benedice in nome di Dio, hai dei vili perché putrida, perché
corrotta, perché mefitica è la società borghese”.
Già dissi di essere
stato a Fantiscritti, uno dei supremi picchi delle cave. Sotto larga
la vallata e profonda, fra pareti scabre di rocce ferruginose,
aggrovigliantesi le une sulle altre, con un disperato desiderio di
toccare il cielo. Qua e là filoni di ravaneti bianchissimi, qua e là
immani rovine di cave, dove gli uomini che battono le mine paiono
file di soldatini di carta tanto la distanza è enorme. Sotto
l’orrido: ma sovra, il cielo azzurro infinito e lontano, il mare
scintillante come i sogni umanitari di Shelley che vi morì.
La solitudine della
natura ispira: si diventa più buoni; certe cose che vi son parse
utopia - dice Gian Giacomo Rousseau - crederete realizzabili, o
uomini se vi allontanerete dalla città...
Ed io ho pensato ed ho
compreso. Tutto passa.
Chi rammenta un Aronte
che di qui speculò le stelle e predisse guerre civili?
Chi rammenta più un Cybo
che regnò un dì al pian verde, o il Piccinino che ne incendiò i
borghi? Tutto passa, tutto diventa.
Qui duemila anni fa
salirono fra i vigili astati i primi cristiani, i discepoli di Paolo
e di Pietro, condannati dai Cesari a scavar marmi per tutta la vita,
rei d’un sogno.
Roma era potente, le
aquile aleggiavano sul Reno e sulle sponde britanne, i marmi scavati
andavano ad adornare i triclini dei pretori e gli ortoli dell’etere.
Ed essi, i poveri sognatori, che morirono ignoti condannati a
Fantiscritti, appena appena lasciando sulle rocce un timido segno
delle loro aspirazioni e del loro martirio, oh! certo non credettero
al Trionfo: che il sogno luminoso di Cristo sarebbe diffuso (ed ahimé
sfruttato!) un giorno su tutta la faccia della terra.
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