La sorgente è unica, il
corso della vita è binario.
Sono due figli eletti del
profondo Sud, nati negli anni venti in due province periferiche della
Sicilia, terra di acuti e profondi conflitti sociali dove la gioventù
può solo lavorare la terra, andare in miniera o fare gli studi più
essenziali per vivere e per affrontare una precaria esistenza.
I figli dei contadini,
degli operai e dei minatori, quando possono frequentano le scuole
tecniche per salire un gradino nella rigida scala sociale; i figli
della piccola borghesia impiegatizia e delle professioni marginali
frequentano l’Istituto magistrale perché nella gerarchia sociale
la cultura umanistica precede l’apprendistato tecnico.
La scuola è la comunità
dove l’individuale si mescola con il collettivo e dove i ragazzi
entrano in contatto per la prima volta con la complessa società
vivente.
Ma nella formazione umana
di Sciascia e di Macaluso non c’è solo la scuola, c’è
l’universo delle zolfare.
“La miniera non
uccideva solo con il grisù, ma anche con l’isolamento della
brutalità di una esistenza trascorsa tra uomini che lavoravano come
bestie”.
Gli anni trenta sono gli
anni già difficili per la gioventù italiana: sono gli anni degli
inganni imperiali e della nefasta preparazione della prospettiva di
guerra totale.
Sciascia e Macaluso, nati
con l’avvento del fascismo, appartengono a quella generazione che
non conobbe la felicità e la spensieratezza dell’adolescenza e
della giovinezza. La dittatura, la doppia guerra, la liberazione e la
repubblica anticiparono la maturazione di una generazione: fu
generazione primizia chiamata a straordinarie assunzioni di
responsabilità, con un passato vero da non poter utilizzare e con un
futuro incerto da costruire.
Nella generazione degli
anni venti il desiderio di capire si confondeva con la necessità di
agire. Le divergenze nacquero dopo la fase della lotta clandestina.
Durante il periodo fascista la rete cospirativa del partito comunista
era forte e suggestiva. L’operaio Calogero Boccadutri per Sciascia
e per Macaluso fu simbolo di purezza e sicurezza rivoluzionaria.
Sciascia nel Pci vide una stella, Macaluso, invece, vide nel partito
organizzato e disciplinato una grande famiglia politica più salda
della stessa famiglia naturale.
Qui si scorge la vera
dissomiglianza tra Sciascia che vota comunista e si rifiuta di
aderire al Pci, e Macaluso che accetta il peso del partito per far
vincere l’idea.
Con una ricerca al limite
dell’ostinazione Macaluso in un agile libro (Leonardo Sciascia e
i comunisti, ed. Feltrinelli), passa in rassegna l’opera
letteraria dello scrittore siciliano ed estrae dai suoi scritti le
molte coerenze di fondo e le veniali incongruenze (contraddisse e
si contraddì).
Macaluso nel sottolineare
la coerente passione politica e civile che costituisce l’anima
della produzione di Sciascia, garbatamente apre il capitolo del
dissenso occasionale ed operativo con il Compagno di una vita sempre
in sintonia sui temi della giustizia e della ricerca della verità.
Il primo dissenso vero è
sull’operazione Milazzo. Nel 1958 è pubblicato il Gattopardo
e Sciascia riprende il pensiero del Principe di Salina e stronca il
governo di Milazzo (opera che porta il segno della direzione
politica di Macaluso nel Pci) con un lapidario giudizio: “ è il
governo del cambiare tutto per non cambiare niente, è stato una
sorta di consustanziazione politica”.
Macaluso nel libro
riprende il tema: fa una analisi della situazione sociale e politica
della Sicilia, sottolinea il significato di rottura e di movimento
che ebbe la dirompente iniziativa del Pci nel dividere la Dc e nell’
allearsi con il MSI; e così conclude: “Sciascia voleva un Pci di
combattimento sempre all’opposizione. Sciascia era uno scrittore
con una forte passione civile, le sue intuizioni, i suoi giudizi, le
sue critiche, mi hanno coinvolto anche emotivamente perché avevano
motivazioni alte e a volte il tempo gli ha dato ragione. Ma una forza
politica come il Pci, quale comportamento avrebbe dovuto assumere
verso posizioni con un elevato impatto anche sull’opinione
pubblica di sinistra? E’ stato proprio questo il nodo non risolto
nei rapporti con Sciascia”.
Ma è nel 1975 che
avviene la svolta politica di Sciascia con il Pci quando si candida
a Palermo al Consiglio Comunale. Egli è travolto da una grande
illusione: battere la Dc ed ogni compromesso con il Pci. Sciascia non
si accorge che è vittima di un inganno, forse, preparato da
Occhetto e non contrastato da Berlinguer per liquidare il vecchio
gruppo dirigente del Pci siciliano.
Sciascia nel maggio del
1975 così motiva la sua partecipazione alle elezioni: “Bisogna
essere intransigenti. Bisogna evitare assolutamente, nettamente, il
gioco della doppia verità. Le cose non sono buone quando le facciamo
noi e cattive quando le fanno gl altri. Sono o sempre cattive o
sempre buone. E se noi facciamo cose cattive per arrivare alle buone,
non solo non arriveremo mai, ma ci abitueremo a fare cattive cose e
così resteranno. Di questa politica netta ha bisogno il Sud. E
questo hanno capito i giovani che dirigono oggi il Pci in Sicilia”.
L’entusiasmo di
Sciascia è infranto dalla più vasta e globale iniziativa post ’75
del Pci con le larghe intese negli enti locali dove la Dc è garante
del Pci nell’area di Governo e nel potere locale.
A questo punto Macaluso
si chiede: “Come faceva Sciascia a conciliare la sua posizione di
sempre (il Pci all’opposizione e niente compromessi) con le larghe
intese” che in Sicilia voleva dire anche la Dc di Lima?
Sciascia capì di aver
commesso un fatale errore di credito e così si espresse nella
intervista a Marcelle Padovani: “I miei rapporti col Pci sono stati
assai complessi, quasi quanto quelli che intrattengo con la Sicilia.
Di amore e odio, per semplificare. Nel 1974-75, mi sono avvicinato o,
più esattamente, il Pci si è avvicinato a me; e questo accostamento
mi ha indotto a credere che fosse diverso. Sono assai sensibile ai
rapporti umani, ai contatti personali: certi giovani funzionari del
Pci mi hanno dato l’impressione che il partito fosse mutato, o che
era sul punto di farlo. L’esperienza del Consiglio Comunale è
stata una totale delusione. Il partito non cambiava. E anzi, in un
certo senso, peggiorava. Ho quindi commesso un errore di valutazione,
ma si è trattato anche di un’esperienza liberatrice. Non nutro
più, nei confronti del Pci, rispetto di sorta. Sono ancora
affezionato a coloro che vi militano, ma ritengo che quel partito sia
il più vecchio che ci sia: più vecchio ancora del Partito
liberale”.
Il distacco definitivo
tra Sciascia ed il Pci avviene con il caso Moro e con le elezioni
politiche ed europee nel 1979 quando entra nelle liste radicali e
vive all’interno di un movimento vasto contro il Potere, il
Palazzo, la partitocrazia, la giustizia giusta e contro il Pci dove
prevaleva l’obbedienza al Partito su la ricerca della verità.
Intorno al tema della
mafia l’analisi di Sciascia è seducente e convincente.
Macaluso cita un articolo
di Sciascia sul Corriere della Sera del 19 settembre 1982. È
un testo da rileggere integralmente. Riporto la conclusione: “È
qui il caso di chiarire che molto probabilmente gli uomini politici
indicati generalmente come mafiosi – dall’Unità ad oggi – non
lo sono mai stati propriamente: l’hanno protetta e ne sono stati
elettoralmente protetti, ne hanno agevolato gli affari e sono stati
compartecipi dei profitti: che poi i loro successi, nelle fazioni
interne di partito e nelle elezioni, e i loro profitti negli affari,
comportassero violenze e omicidi, loro hanno finto di ignorare: così
come il Sant’Uffizio ignorava la sorte degli eretici affidati al
braccio secolare...”
La stessa validità
politica della teoria del compromesso storico Sciascia la mette in
connessione con la necessità per la Dc di liberarsi delle vecchie
complicità. “Teoria che non ha fatto bene al Partito comunista, ma
ne ha fatto alla Democrazia cristiana. Coloro che, nella Democrazia
cristiana, alla realizzazione del compromesso aspiravano, hanno
coinvolto tutto il partito nell’ansietà di farsi assolvere, dal
rigoroso e quasi ascetico Partito comunista, dai tanti peccati
commessi dal 1948 a oggi, il peccato di mafia incluso”.
Sul tema della giustizia,
sul suo uso politico, sulle interferenze della politica sulla
giustizia e su una giustizia “che assume un che di ieratico, di
religioso, di imperscrutabile e con conseguenti punte di fanatismo,
la convergenza di valutazioni e di critica tra Sciascia e Macaluso
sfiora la organica identificazione.
È proprio
dall’esplorazione di questo tema che si arriva a dare una risposta
alla domanda che ci siamo posti quando abbiamo iniziato la lettura di
questo prezioso libro: “Perché Macaluso sente il bisogno di
scrivere su Sciascia ed i comunisti a 26 anni dalla morte di Sciascia
e a 21 dalla fine del comunismo?” Perché Macaluso ha voluto dare
il via alla stesura di una autobiografia della generazione che fu
chiamata a fare l’Italia repubblicana. Fu la generazione più
fortunata perchè la più coinvolta, ma fu anche la più infelice
perché pagò sempre con la distruzione degli affetti la sua
esposizione di prima linea.
La generazione nata
durante il fascismo lascia irrisolte molte questioni che nel libro di
Macaluso sono tenute in ombra, perché la educata e discreta
formazione umana dell’autore lo impone. Sappiamo che l’irrisolto
appartiene più alla serie dell’eterno mutevole che a quello del
definitivo. Ancora oggi si ripresentano le eterne questioni che
leggiamo nelle vite parallele di Sciascia e di Macaluso.
La politica è prosa o
poesia? Il potere e la libertà sono compatibili? È componibile il
conflitto tra democrazia organizzata (i partiti) e la democrazia
fluida (i movimenti e l’anarco-individualismo?)
Intorno a queste domande
ruota il rovello di Macaluso perché sa che il difficile non è porre
la questione ma è quello di saper individuare dove è il punto di
fusione delle contraddizioni.
Critica Sociale, 5
novembre 2010
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