Da “l'Indice” di
luglio 2019 riprendo e rilancio un articolo di Luigi Tomassini, che
insegna storia della fotografia all’Università di Bologna ed è
presidente onorario della Società italiana per lo studio della
fotografia. Mi pare che con chiarezza e competenza metta in luce un
problema di cui si parla troppo poco. Si riuscirà questa volta a non
“chiudere la stalla quando i buoi sono scappati”? (S.L.L.)
Il laboratorio Alinari, a Firenze, nel primo Novecento |
È ormai questione di
settimane se non di giorni. Si sta avvicinando la data in cui Alinari
Idea, la più antica ditta fotografica al mondo (Firenze, 1852),
dovrà abbandonare il palazzo costruito dal fondatore, Leopoldo
Alinari, 156 anni fa. Oltre a questa perdita, dolorosa non solo per
il significato simbolico, ma anche perché il palazzo era a suo modo
un monumento di “archeologia industriale”, c’è il problema
rilevante del destino del patrimonio fotografico accumulato negli
anni: un immenso archivio che comprende oltre cinque milioni di
fotografie, senza considerare tutti i reperti storici e
l’oggettistica, talvolta con pezzi unici nel genere. La proprietà
ha già venduto il palazzo, a investitori privati, e ha dichiarato di
essere disposta a vendere anche il complesso dei fondi fotografici
posseduti (sotto vincolo della Soprintendenza archivistica dalla fine
del 2018) preferibilmente a un ente pubblico. La Regione Toscana,
interpellata in proposito, nella persona del Presidente Enrico Rossi
ha dichiarato un suo interesse; ma essendo al momento la trattativa
ancora agli inizi, e il palazzo dovendo essere liberato, i fondi
fotografici saranno portati “temporaneamente” in un deposito nei
pressi di Firenze.
Generalmente vista con
favore, perché rassicurante rispetto ai rischi di dispersione o di
inaccessibilità del patrimonio, questa soluzione è però contestata
da alcuni, che vedrebbero come più appropriato un acquisto da parte
dello Stato, per destinarlo alla Biblioteca Nazionale di Firenze,
paragonandone il valore a quello di una grande raccolta di incunaboli
o di cinquecentine, e osservando che le competenze istituzionali
relative alla conservazione e tutela sarebbero propriamente dello
Stato, mentre la Regione potrebbe più utilmente impiegare le sue
risorse in altri settori più congrui con le sue responsabilità
amministrative, come ad esempio la Sanità. La situazione è quindi
ancora molto aperta, e l’emergere di posizioni di questo genere, in
cui le questioni di carattere istituzionale e amministrativo sembrano
divenire prevalenti, rende necessario tentare di riportare la
questione soprattutto nell’orbita del dibattito culturale.
Cercheremo quindi di
evidenziare alcuni punti, molto schematicamente. Il primo è il
“valore” degli Archivi Alinari oggi. La prima cosa da
considerare, rettificando in parte il tono prevalente nei titoli
sulla stampa e sui media, è che la crisi attuale è forse la più
grave nella storia degli Alinari, ma non ha finora portato al
fallimento o alla chiusura della ditta stessa, né alla dispersione
del patrimonio. Ha però portato a una ipotesi di vendita del
patrimonio fotografico, e anche a una sua valutazione in termini
monetari (10-12 milioni di euro), come base di partenza condivisibile
per le parti interessate. A parte che già questa è una operazione
abbastanza straordinaria per rilevanza, a livello mondiale, da
renderla un caso eccezionale e meritevole di una attenta riflessione
anche per le sue implicazioni culturali, c’è il fatto che la
attuale proprietà intenderebbe però vendere non la ditta, e neppure
il patrimonio fotografico nella sua assoluta integrità, ma il
patrimonio fotografico “materiale” conservato finora presso la
sede storica di Largo Alinari, riservandosi i diritti di
commercializzazione e vendita delle circa 250.000 immagini
fotografiche digitalizzate (sui circa 5 milioni totali) nel corso dei
decenni precedenti.
Un altro punto importante
è la stratificazione storica degli Archivi. A complicare
ulteriormente le cose c’è il fatto che gli Archivi Alinari sono
una realtà storicamente stratificata e composita. Gli Alinari,
assieme all’altra ditta fiorentina, Brogi, e alla romana Anderson,
con cui strinsero un “trust” nel 1904, fotografarono
sistematicamente il patrimonio artistico, paesaggistico, monumentale
del nostro paese. Lo fecero consapevolmente, rivendicando un loro
ruolo “politico” nella diffusione dell’immagine della cultura e
dell’arte italiana all’estero. Per circa un secolo, dagli anni
cinquanta dell’Ottocento fino al secondo dopoguerra, tutti gli
istituti scolastici e universitari, le fototeche, gli studiosi, le
persone colte o i semplici studenti che volevano studiare la storia
dell’arte, in tutto il mondo, fecero ricorso alle loro fotografie
per conoscere (secondo lo “stile” Alinari) l’arte classica e
rinascimentale italiana. Questo modello culturale-imprenditoriale
sopravvisse alla prima crisi economica della ditta, durante la prima
guerra mondiale, ad una più lieve, dopo la crisi del 1929, e a una
terza, nel 1957. Nel primo caso Alinari passò a una cordata di
aristocratici toscani, guidata dal barone Ricasoli; nel secondo caso
si ebbe una iniezione di capitali da parte dell’Iri; nel terzo caso
un nuovo passaggio di proprietà, al senatore Vittorio Cini, che
portò all’acquisto di una serie di archivi di altri fotografi
editori italiani, in particolare di Brogi e Anderson. Il modello
cambierà invece nella successiva crisi a metà degli anni settanta.
In quella occasione la proprietà passa alla famiglia Zevi, milanese.
Il mercato ormai cerca le
riproduzioni a colori e l’archivio delle lastre in bianco e nero
perde valore; ma Filippo Zevi, assieme all’assessore del Comune di
Firenze Franco Camarlinghi, nel clima di rinnovamento politico
culturale seguito alle elezioni amministrative del 1976, promuove la
grande mostra del 1977 a Forte Belvedere che ha un eccezionale
successo (600.000 visitatori paganti e oltre 100.000 copie
dell’importante catalogo vendute). Questo evento segna un
cambiamento nel gusto comune verso la fotografia d’epoca, a sancire
una straordinaria diffusione, e un cambiamento netto di strategia
della ditta, che valorizza il suo archivio in funzione storica,
memoriale e documentativa. Dopo il primo momento di euforico e
straordinario successo subentra una nuova crisi, che per la prima
volta porta alla vendita di una parte dello storico palazzo, e poi
alla acquisizione da parte della famiglia De Polo di Trieste (1982).
Il commendator de Polo cambia nuovamente il modello
culturale-imprenditoriale, inaugurando una nuova strategia, analoga a
quella pressappoco contemporanea di Corbis e Getty negli Stati Uniti:
acquista sistematicamente fondi fotografici in Italia, ma anche
moltissimo in Europa e in altri paesi, e gradatamente provvede a
digitalizzarli, rivendendo poi l’uso delle copie digitali per
mostre e pubblicazioni. Crea anche un Museo Nazionale Alinari della
Fotografia (2006), e organizza una serie molto ampia, regolare e
importante di esposizioni, sia sui propri materiali (ormai più di 5
milioni), sia su quelli in concessione e gestione, che nel 2008
valuta attorno ai 40 milioni di fotografie complessive (per avere un
termine di paragone, alla stessa data Corbis, azienda del
proprietario di Microsoft, ne dichiarava 90 milioni).
Il patrimonio di cui si
sta trattando ora la vendita è questo, fra pubblico e privato, fra
istituti centrali e territoriali, fra originale e digitale ed è
evidente che pone problemi complessi.
Sul piano tecnico
innanzitutto. Il fondo di lastre negative in vetro ottocentesche è
unico, è la memoria storica dell’arte italiana, ma è anche
delicato, come del resto la straordinaria raccolta di dagherrotipi;
altre parti, come la collezione di album, anch’essa unica al mondo
per valore e varietà delle tipologie, impongono soluzioni tecniche
particolari caso per caso.
Sul piano amministrativo
le scelte che a breve si devono compiere sembrano brutalmente
semplici (si tratta di decidere prezzo di vendita, chi acquista e
cosa acquista fra patrimonio materiale e digitale). Questa apparente
semplicità lascia però in ombra la retrostante complessità e
favorisce quella serie di approssimazioni, anche se rispondenti a un
rudimentale senso comune, che sono circolate sulla stampa. Una
riflessione sul senso di questa crisi, che non è una crisi solo
degli Alinari, ma di un modello più generale (la stessa Corbis è
stata recentemente venduta alla Visual China Group) è quindi
necessaria, non solo per fornire elementi di conoscenza e di giudizio
a chi dovrà poi gestire il domani degli Archivi Alinari, ma anche
più in generale.
La Società Italiana per
lo Studio della Fotografia (Sisf), composta da studiosi, fotografi,
docenti universitari, curatori, conservatori, giornalisti, e altre
figure del mondo della fotografia, ha espresso alla Regione Toscana
un forte apprezzamento per la prospettiva di una acquisizione
pubblica del patrimonio in grado di tutelarlo senza disperderlo e di
garantirne l’accesso, ma anche una certa preoccupazione per il
domani degli archivi Alinari.
La preoccupazione non
riguarda le capacità e le qualità dei prossimi gestori, ma il fatto
che il modello migliore da realizzare (nel nuovo assetto,
sperabilmente collegato, di conservazione e valorizzazione) non è
facile da individuare, proprio per l’eccezionalità del patrimonio.
La Sisf sta organizzando un momento di confronto e riflessione
pubblica per l’autunno. I temi in discussione, ora evidenziati
dalla vicenda Alinari, sono in realtà ben presenti nel mondo della
fotografia: il rapporto pubblico – privato rispetto al valore, in
trasformazione, del patrimonio; le relazioni, sul piano tecnico, ma
anche economico e giuridico, fra gli archivi di originali e i
repository digitali; il rapporto fra istituti centrali e realtà
territoriali, e fra patrimonio storico e attività culturali
correnti; la necessità di avvalersi di personale competente e
specializzato in relazione alle specificità dei materiali; il ruolo
di questo tipo di patrimonio in relazione alla ricerca e alla
didattica, universitaria e non, nonché alle nuove pratiche “public”,
a cominciare dalla “public history”; e infine una riflessione sul
ruolo a livello internazionale della fotografia italiana.
Su tutto ciò, riteniamo
sia importante cercare l’apporto di idee e di contributi di tutti,
senza preclusioni né partiti presi, per l’obiettivo di disegnare
un domani adeguato a quello che appare sempre più, proprio ora che è
in crisi, un “pezzo” fondamentale del nostro patrimonio
culturale, che ha a lungo rappresentato all’estero la memoria
visuale del patrimonio storico-artistico, architettonico,
paesaggistico e demo-antropologico nazionale.
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