30.8.19

Il diario da non nascondere. Due giovani comuniste italiane nella Cina degli anni Cinquanta (Rossana Rossanda)

Edoarda Masi

Settembre 1957. Due giovani donne italiane, comuniste, Edoarda Masi e Renata Pisu arrivano a Pechino con una borsa di studio. L’università Beida è un antico parco, nel quale si affollano in modeste abitazioni, due o tre per stanza, studenti di tutto il mondo in cerca della Cina, fra delusioni già patite, speranza, inquietudine. E sperimentano una realtà doppia: docenti interessanti e regole sciocche, libertà di relazioni fra stranieri ma non con i cinesi, il «noi» e il «loro» — i funzionari che nell’amministrare il campus lo sorvegliano. E la divisione fra campus e città — Pechino, dove si va quando si vuole ma come vanno i turisti. Si studia in Cina fuori dalla Cina.
Le orecchie già ritte per questo scontro, per così dire, morbido, assisteranno pochi mesi dopo allo scontro duro, la «seconda campagna di rettifica» contro gli «elementi di destra». Assistono, vedono, non possono partecipare, non vengono informati. I dazibao coprono i muri di accuse: le «masse» sono un groviglio inesaurito di rancore, dove quasi nessuno ha nulla, e chi ha un libro o una stanza di più, o la parola, appare privilegiato.
Fra partito e masse, i maestri che i ragazzi amano di più sono nella tenaglia. Moltissimi dovranno lasciare Beida per andare in fabbrica o in campagna, dopo pesanti sedute di autocritica. Severe fin dall’inizio verso i funzionari — la Vecchia, il Fesso, la Cretina — le due ragazze vedono in silenzio e orrore quella che Mao chiamerà qualche anno dopo «la nuova razza di signori che pesa sulla schiena del popolo» demolire crudelmente «senza violenza» una leva intellettuale stremata e fragile — molti si uccidono.
Una delle due, Edoarda, rompe. Toma in Italia. Ha tenuto un diario e lo riscrive in terza persona. Raniero Panzieri lo propone a Einaudi. I ganbu, i «funzionari Pci», lo bocciano. E lei stessa sembra pensare che, nella «guerra fredda», non si debba parlare della Cina. Nell’ultima passeggiata in barca, l’amico più caro e sofferente le aveva detto: “Non parlate male di noi”? Il diario è un «libro da nascondere».
Tornerà in Cina nel 1974-76, scriverà, pubblicherà. Oggi vedo quei suoi lavori interiormente legati al diario: parlano di una diversità, d’uno scontro alto, forse liberatorio, sono libri severi, appartati dalla gazzarra, preziosi.
Poi c’è Tianammen. Nel 1991 Edoarda Masi toma ancora una volta, tutto è finito, vuole solo visitare gli alti luoghi medievali, turista fra insopportabili turisti. Ma lei sa. Sente, può sedere su un muretto accanto a una vecchia venditrice di frittelle, ascolta, gli occhi aperti su quel che la Cina è diventata. Non era andata per questo, ma le balza addosso la «sua» Cina, amata e abominata, e soltanto ora degradata. Come se uno sberleffo le fosse disegnato sui lineamenti. E quelli di allora, che le erano stati insopportabili, le appaiono rigidi ma puliti, sofferenti ma dignitosi, crudeli ma non sfigurati.
Tornata in Italia, ci scaglia il diario del ’57-’58, con dieci pagine piene di dolore e collera. Lo chiama Ritorno a Pechino (Feltrinelli, 1993). Non è il diario d’un ritorno, ma di quel primo viaggio. Ma è un ritorno interiore, a quello che era stato «il libro da nascondere». Così aveva chiamato del resto, traendolo da Lu Hsun, una rilessione chiave su di sé, uscita nel 1985.
Ci sono due modi di leggere Ritorno a Pechino. Uno per conoscere la Cina, della quale Edoarda è, per quel che ne so e posso capire, lo sguardo più calibrato, appassionato e sapiente. Edoarda non mente mai. Edoarda dubita quindi rende giustizia. Edoarda è l’opposto dell’attuale cultura politica. Chi legge stando dalla sua parte, attraverserà Ritorno a Pechino con sentimenti contrastati, angoscia, domande, illuminazioni.
Ma c’è un secondo modo di avvicinare quel diario: come una storia di giovani comunisti che nel 1957 fanno un apprendistato di sé. Esso ha del resto le scansioni dell’iniziazione, l’entrata nel mondo altro, che si restringe a una città che si restringe in un campus, anzi una stanza. Ma di là scopre non solo per gradi, ma per prove — gli altri separati, come la zona più antica e frequentata del parco, dove i docenti vivono in due stanze fra gli alberi, pile di libri e una lampada accesa.
Parlare è difficile. Quel che è detto va interpretato. Le due si inoltrano con la diffidenza di giovani gatte, libera zampa su un terreno sfuggente, ritratto di comuniste inconsueto nell’iconografia del post ’89 che ci voleva devoti e imbambolati. Tutti i giovani del diario sono, come loro, irrequieti, increduli, ironici.
La differenza sta nella valutazione, dal cinismo alla sospensione di Edoarda, nel diario Lia, la più attenta. Quella che se ne andrà per prima, è la prima che crede un giorno, davanti a una diga di terra, di intravedere un colossale tentativo di riscatto di poveri per mano di uomini che non sanno o non vogliono o non possono renderli liberi. Costoro non appaiono, non sono interrogabili, terminali afasici d’una macchina orwelliana. Lia se ne ritrae come s’era ritratta dall’ascoltare Zhou Enlai quando arriva preceduto da divieti. Come lui, le ragioni sono lontane, neppure cercate — sono «non ragioni», se è vero che uno degli amici cinesi non spezzati le dice: non è che per noi la libertà conti meno, gli uomini sono eguali. E tuttavia, che significa libertà per chi muore per la miseria imposta dalle «democrazie» ricche? Nel Libro da nascondere Edoarda ci aveva detto dell’essere nata occidentale e non povera come una colpa, la prima delle separazioni, l’impossibilità di essere in pace con sé. All’odio per chi predica rassegnazione («i preti») si somma in lei un’impazienza per i «marxisti»: la lotta di classe avviene già fra privilegiati per rapporto a quelle povertà. Sfruttamento è una cosa, povertà è un’altra. Siamo sfruttati e affamatori.
In poche righe scoscese, riprende il tema negato nel 1958 — la Cina è una alterità, l’alterità è la spossessione e lo sguardo implacabile che leva su di noi. Quella rivoluzione non operaia andava capita. Perdonata? Non perdonata. La contraddizione è insolubile.
Il percorso di Edoarda Masi è in senso proprio tragico. Nelle parole composte e nel periodo scarno, questo libro violento è una testimonianza dei comunisti in questo secolo, quelli a monte del marxismo per insofferenza delle sue hegeliane scomposizioni e ricomposizioni.

il manifesto, 21 maggio 1993

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