Edoarda Masi |
Settembre 1957. Due giovani donne
italiane, comuniste, Edoarda Masi e Renata Pisu arrivano a Pechino
con una borsa di studio. L’università Beida è un antico parco,
nel quale si affollano in modeste abitazioni, due o tre per stanza,
studenti di tutto il mondo in cerca della Cina, fra delusioni già
patite, speranza, inquietudine. E sperimentano una realtà doppia:
docenti interessanti e regole sciocche, libertà di relazioni fra
stranieri ma non con i cinesi, il «noi» e il «loro» — i
funzionari che nell’amministrare il campus lo sorvegliano. E la
divisione fra campus e città — Pechino, dove si va quando si vuole
ma come vanno i turisti. Si studia in Cina fuori dalla Cina.
Le orecchie già ritte
per questo scontro, per così dire, morbido, assisteranno pochi mesi
dopo allo scontro duro, la «seconda campagna di rettifica» contro
gli «elementi di destra». Assistono, vedono, non possono
partecipare, non vengono informati. I dazibao coprono i muri
di accuse: le «masse» sono un groviglio inesaurito di rancore, dove
quasi nessuno ha nulla, e chi ha un libro o una stanza di più, o la
parola, appare privilegiato.
Fra partito e masse, i
maestri che i ragazzi amano di più sono nella tenaglia. Moltissimi
dovranno lasciare Beida per andare in fabbrica o in campagna, dopo
pesanti sedute di autocritica. Severe fin dall’inizio verso i
funzionari — la Vecchia, il Fesso, la Cretina — le due ragazze
vedono in silenzio e orrore quella che Mao chiamerà qualche anno
dopo «la nuova razza di signori che pesa sulla schiena del popolo»
demolire crudelmente «senza violenza» una leva intellettuale
stremata e fragile — molti si uccidono.
Una delle due, Edoarda,
rompe. Toma in Italia. Ha tenuto un diario e lo riscrive in terza
persona. Raniero Panzieri lo propone a Einaudi. I ganbu, i
«funzionari Pci», lo bocciano. E lei stessa sembra pensare che,
nella «guerra fredda», non si debba parlare della Cina. Nell’ultima
passeggiata in barca, l’amico più caro e sofferente le aveva
detto: “Non parlate male di noi”? Il diario è un «libro da
nascondere».
Tornerà in Cina nel
1974-76, scriverà, pubblicherà. Oggi vedo quei suoi lavori
interiormente legati al diario: parlano di una diversità, d’uno
scontro alto, forse liberatorio, sono libri severi, appartati dalla
gazzarra, preziosi.
Poi c’è Tianammen. Nel
1991 Edoarda Masi toma ancora una volta, tutto è finito, vuole solo
visitare gli alti luoghi medievali, turista fra insopportabili
turisti. Ma lei sa. Sente, può sedere su un muretto accanto a una
vecchia venditrice di frittelle, ascolta, gli occhi aperti su quel
che la Cina è diventata. Non era andata per questo, ma le balza
addosso la «sua» Cina, amata e abominata, e soltanto ora degradata.
Come se uno sberleffo le fosse disegnato sui lineamenti. E quelli di
allora, che le erano stati insopportabili, le appaiono rigidi ma
puliti, sofferenti ma dignitosi, crudeli ma non sfigurati.
Tornata in Italia, ci
scaglia il diario del ’57-’58, con dieci pagine piene di dolore e
collera. Lo chiama Ritorno a Pechino (Feltrinelli,
1993). Non è il diario d’un ritorno, ma di quel primo
viaggio. Ma è un ritorno interiore, a quello che era stato «il
libro da nascondere». Così aveva chiamato del resto, traendolo da
Lu Hsun, una rilessione chiave su di sé, uscita nel 1985.
Ci sono due modi di
leggere Ritorno a Pechino.
Uno per conoscere la Cina, della quale Edoarda è, per quel che ne so
e posso capire, lo sguardo più calibrato, appassionato e sapiente.
Edoarda non mente mai. Edoarda dubita quindi rende giustizia. Edoarda
è l’opposto dell’attuale cultura politica. Chi legge stando
dalla sua parte, attraverserà Ritorno a Pechino con
sentimenti contrastati, angoscia, domande, illuminazioni.
Ma c’è un secondo modo
di avvicinare quel diario: come una storia di giovani comunisti che
nel 1957 fanno un apprendistato di sé. Esso ha del resto le
scansioni dell’iniziazione, l’entrata nel mondo altro, che si
restringe a una città che si restringe in un campus, anzi una
stanza. Ma di là scopre non solo per gradi, ma per prove — gli
altri separati, come la zona più antica e frequentata del parco,
dove i docenti vivono in due stanze fra gli alberi, pile di libri e
una lampada accesa.
Parlare è difficile.
Quel che è detto va interpretato. Le due si inoltrano con la
diffidenza di giovani gatte, libera zampa su un terreno sfuggente,
ritratto di comuniste inconsueto nell’iconografia del post ’89
che ci voleva devoti e imbambolati. Tutti i giovani del diario sono,
come loro, irrequieti, increduli, ironici.
La differenza sta nella
valutazione, dal cinismo alla sospensione di Edoarda, nel diario Lia,
la più attenta. Quella che se ne andrà per prima, è la prima che
crede un giorno, davanti a una diga di terra, di intravedere un
colossale tentativo di riscatto di poveri per mano di uomini che non
sanno o non vogliono o non possono renderli liberi. Costoro non
appaiono, non sono interrogabili, terminali afasici d’una macchina
orwelliana. Lia se ne ritrae come s’era ritratta dall’ascoltare
Zhou Enlai quando arriva preceduto da divieti. Come lui, le ragioni
sono lontane, neppure cercate — sono «non ragioni», se è vero
che uno degli amici cinesi non spezzati le dice: non è che per noi
la libertà conti meno, gli uomini sono eguali. E tuttavia, che
significa libertà per chi muore per la miseria imposta dalle
«democrazie» ricche? Nel Libro da nascondere Edoarda ci
aveva detto dell’essere nata occidentale e non povera come una
colpa, la prima delle separazioni, l’impossibilità di essere in
pace con sé. All’odio per chi predica rassegnazione («i preti»)
si somma in lei un’impazienza per i «marxisti»: la lotta di
classe avviene già fra privilegiati per rapporto a quelle povertà.
Sfruttamento è una cosa, povertà è un’altra. Siamo sfruttati e
affamatori.
In poche righe scoscese,
riprende il tema negato nel 1958 — la Cina è una alterità,
l’alterità è la spossessione e lo sguardo implacabile che leva su
di noi. Quella rivoluzione non operaia andava capita. Perdonata? Non
perdonata. La contraddizione è insolubile.
Il percorso di Edoarda
Masi è in senso proprio tragico. Nelle parole composte e nel periodo
scarno, questo libro violento è una testimonianza dei comunisti in
questo secolo, quelli a monte del marxismo per insofferenza delle sue
hegeliane scomposizioni e ricomposizioni.
il manifesto, 21 maggio
1993
Nessun commento:
Posta un commento