Raffaele La Capria |
La parola amicizia e il
sentimento dell’amicizia sono due cose differenti. Io credo che il
sentimento sia importante quanto l’amore ma dell’amore si parla
fin troppo, dell’amicizia si parla molto meno. Anche perché è
difficile parlarne, perché l’amicizia è un sentimento delicato ed
esigente, che richiede affinità elettiva ed affetto, ed un’intesa
di fondo forte come quella di due alpinisti legati ad una stessa
corda.
Poi è difficile parlare
di amicizia nei Paesi mediterranei perché nei Paesi mediterranei la
parola e il sentimento disinteressato che dovrebbe accompagnarla si
presentano in forme ambigue, direi «storicamente» distorte, e
quando si dice di qualcuno che è un amico spesso si allude a una
complicità che nulla ha a che fare con l’amicizia, quella vera.
L’Italia, si sa, è il Paese della raccomandazione, la
raccomandazione è la chiave che apre tante porte, e la
raccomandazione si serve appunto dell’amicizia. Come si farebbe a
raccomandare qualcuno se non si potesse contare sull’amicizia di
qualcuno? Tutto il sistema clientelare non è fondato sull’amico,
sull’amico dell’amico, e così via, come la catena di
sant’Antonio? E la burocrazia non è la figlia legittima di questo
sistema, l’apparato di cui si serve? Parlare della parola amicizia
ci porta lontano, fin nel territorio della criminalità e della
mafia.
Altra cosa, come dicevo,
è parlare del sentimento dell’amicizia, che è molto raro, e chi
lo ha provato sa che può essere determinante e orientare il corso di
una vita. È difficile parlarne, e ora io ne parlo, parlo dei miei
amici, dei primi incontri con loro, dei libri letti insieme, nella
stessa stanza, per poi scambiarci a caldo i commenti: di Billy Budd,
gabbiere di parrocchetto, e il capitano Vere, di Benito Cereno e il
capitano Delano, del negro Babo capo dei rivoltosi – furono
l’avventura e la fantasia nelle pagine di Herman Melville i luoghi
più frequentati, quelli incantati dove nacque la nostra amicizia. E
poi il Bildungsroman, un romanzo di formazione, fu lo stare insieme
per gli anni che seguirono, tanti, fino ai novanta e più: Franco,
Peppino, e Antonio, inseparabili e diversi, ognuno con la sua
autonomia, ognuno seguendo la sua strada, Franco il cinema, Peppino
il teatro, Antonio la storia e l’epica dello sport.
Ma che cosa fu che ci
mantenne vicini per tanti anni, uno sempre in vista dell’altro, a
volte insieme per scrivere un film, cosa fu se non quel sentimento
raro di cui appunto è difficile parlare, quel piacere intellettuale
di scambiare idee pensieri e fantasie, quella «cosa» che chiamiamo
amicizia? Non ferma, ma sempre in moto per seguire la nostra naturale
mutevolezza, le scoperte, gli amori, i contrasti, i successi, i nuovi
libri e le nuove idee.
Sono tutti morti i miei
amici, Antonio Ghirelli, Peppino Patroni Griffi, Franco Rosi. Senza
di loro non sarei quello che sono.
Mi piacerebbe ricordarli
in un libro con un titolo tratto da una terzina dantesca, quella
famosa che fa: «Era già l’ora che volge il disio/ ai naviganti e
intenerisce il core/ lo dì c’han detto ai dolci amici addio».
Lo intitolerò Ai dolci
amici addio, e sarà quello il mio addio. «Dolci», un aggettivo
sorprendente che il duro Dante dedica loro. E anche per me più che
«cari», essi furono «dolci». Che vuol dire il punto più
sensibile del sentimento dell’amicizia.
Corriere della Sera, 25
gennaio 2016
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