31.8.19

Un compagno. Per Camilleri, intellettuale militante (Romano Luperini)



Quando viene meno una persona che ha lasciato una traccia profonda nella nostra vita, la mente corre sempre al primo incontro, quasi esso già contenga in nuce il rapporto successivo e la ragione di quella traccia.
Ho conosciuto Camilleri una dozzina di anni fa. In occasione non ricordo di quale importante ricorrenza dell’Università di Siena, dove insegnavo, il rettore aveva invitato me e un altro collega a una sorta di intervista in pubblico allo scrittore, cui egli si sarebbe sottoposto dopo aver fatto una breve introduzione. La sala era stracolma di studenti e di docenti che ridevano e applaudivano, elettrizzati dall’umorismo polemico di Camilleri, che parlò non da scrittore ma da intellettuale e da militante, soffermandosi con una ironia elegante, eppure per niente spocchiosa, sulla situazione politica allora egemonizzata da Berlusconi. Quando venne il proprio turno, il collega gli fece domande di carattere stilistico e sull’uso del dialetto siciliano, che poco avevano a che fare col contenuto politico della sua introduzione. Mi colpì che si rivolgesse a lui in modo cerimonioso, chiamandolo “maestro” e dandogli del lei. Poi toccò a me, e mi venne invece spontaneo dargli del tu e porgli domande di carattere politico. Camilleri mi rispose subito con un piglio assai più animato e vivace, dandomi a sua volta del tu. In un certo senso ci eravamo riconosciuti (sto per usare, lo so, una parola fuori corso) come compagni. Poi a cena volle sedere accanto a me e mi invitò a casa sua, a Roma, in via Asiago, vicino a una sede della RAI (quella del terzo programma, mi pare). Lo andai a trovare, conobbi la moglie e la segretaria, personaggio importante e decisivo anche per la sua vita di scrittore. Una volta gli portai il mio primo romanzo, L’età estrema, ancora inedito e lui volle pubblicarlo da Sellerio. Un’altra lo invitai a collaborare a un mio manuale, trascrivendo in italiano moderno e magari anche in siciliano un paio di novelle di Boccaccio, fra cui quella di Andreuccio da Perugia: cosa che fece con entusiasmo e senza alcun compenso. Ma per la scuola collaborò con me anche in altri modi: ebbi occasione, per esempio, di farlo partecipare a un dibattito a Roma alla fine di un seminario con gli insegnanti, e anche questa volta accettò con entusiasmo.
Perché questi dettagli autobiografici? Per una testimonianza anzitutto, ma poi anche perché tutti oggi parlano dell’autore di Montalbano, del brillante intrattenitore, sempre in testa alla lista dei best seller, ma nessuno dei suoi romanzi storici artisticamente e politicamente assai più impegnati (ricordo, soprattutto, Il re di Girgenti, in cui forte è l’influenza di Pirandello, di De Roberto e di Sciascia) e nessuno, ma proprio nessuno, del suo contributo alla politica, al mondo della scuola, alla causa degli immigrati, come militante non di un partito, ma di una sinistra intesa come possibilità di impegno e prospettiva ideale.
Camilleri non è stato solo un brillante intrattenitore, capace, grazie alle sue straordinarie doti inventive (nel linguaggio, ricco, vario, infiltrato sempre da una vena dialettale, e nelle trame delle sue storie, ricche di imprevisti), di catturare con abilità l’attenzione di ogni lettore: è stato anche un fine letterato, degno erede di una grande tradizione siciliana, e un intellettuale militante. Ha compiuto il prodigio di essere nel contempo uno scrittore autenticamente popolare, un artista vero e l’ultimo intellettuale, capace di parlare non solo di letteratura, ma del mondo, l’unico sopravvissuto dopo la morte di Sciascia e di Pasolini. E una cosa purtroppo è certa: con lui muore una possibilità di essere scrittori e intellettuali insieme, con lui il Novecento è davvero finito.

Dal sito “La letteratura e noi”, 18 Luglio 2019

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