Quando viene meno una
persona che ha lasciato una traccia profonda nella nostra vita, la
mente corre sempre al primo incontro, quasi esso già contenga in
nuce il rapporto successivo e la ragione di quella traccia.
Ho conosciuto Camilleri
una dozzina di anni fa. In occasione non ricordo di quale importante
ricorrenza dell’Università di Siena, dove insegnavo, il rettore
aveva invitato me e un altro collega a una sorta di intervista in
pubblico allo scrittore, cui egli si sarebbe sottoposto dopo aver
fatto una breve introduzione. La sala era stracolma di studenti e di
docenti che ridevano e applaudivano, elettrizzati dall’umorismo
polemico di Camilleri, che parlò non da scrittore ma da
intellettuale e da militante, soffermandosi con una ironia elegante,
eppure per niente spocchiosa, sulla situazione politica allora
egemonizzata da Berlusconi. Quando venne il proprio turno, il collega
gli fece domande di carattere stilistico e sull’uso del dialetto
siciliano, che poco avevano a che fare col contenuto politico della
sua introduzione. Mi colpì che si rivolgesse a lui in modo
cerimonioso, chiamandolo “maestro” e dandogli del lei. Poi toccò
a me, e mi venne invece spontaneo dargli del tu e porgli domande di
carattere politico. Camilleri mi rispose subito con un piglio assai
più animato e vivace, dandomi a sua volta del tu. In un certo senso
ci eravamo riconosciuti (sto per usare, lo so, una parola fuori
corso) come compagni. Poi a cena volle sedere accanto a me e mi
invitò a casa sua, a Roma, in via Asiago, vicino a una sede della
RAI (quella del terzo programma, mi pare). Lo andai a trovare,
conobbi la moglie e la segretaria, personaggio importante e decisivo
anche per la sua vita di scrittore. Una volta gli portai il mio primo
romanzo, L’età estrema, ancora inedito e lui volle pubblicarlo da
Sellerio. Un’altra lo invitai a collaborare a un mio manuale,
trascrivendo in italiano moderno e magari anche in siciliano un paio
di novelle di Boccaccio, fra cui quella di Andreuccio da Perugia:
cosa che fece con entusiasmo e senza alcun compenso. Ma per la scuola
collaborò con me anche in altri modi: ebbi occasione, per esempio,
di farlo partecipare a un dibattito a Roma alla fine di un seminario
con gli insegnanti, e anche questa volta accettò con entusiasmo.
Perché questi dettagli
autobiografici? Per una testimonianza anzitutto, ma poi anche perché
tutti oggi parlano dell’autore di Montalbano, del brillante
intrattenitore, sempre in testa alla lista dei best seller, ma
nessuno dei suoi romanzi storici artisticamente e politicamente assai
più impegnati (ricordo, soprattutto, Il re di Girgenti, in cui forte
è l’influenza di Pirandello, di De Roberto e di Sciascia) e
nessuno, ma proprio nessuno, del suo contributo alla politica, al
mondo della scuola, alla causa degli immigrati, come militante non
di un partito, ma di una sinistra intesa come possibilità di impegno
e prospettiva ideale.
Camilleri non è stato
solo un brillante intrattenitore, capace, grazie alle sue
straordinarie doti inventive (nel linguaggio, ricco, vario,
infiltrato sempre da una vena dialettale, e nelle trame delle sue
storie, ricche di imprevisti), di catturare con abilità l’attenzione
di ogni lettore: è stato anche un fine letterato, degno erede di una
grande tradizione siciliana, e un intellettuale militante. Ha
compiuto il prodigio di essere nel contempo uno scrittore
autenticamente popolare, un artista vero e l’ultimo intellettuale,
capace di parlare non solo di letteratura, ma del mondo, l’unico
sopravvissuto dopo la morte di Sciascia e di Pasolini. E una cosa
purtroppo è certa: con lui muore una possibilità di essere
scrittori e intellettuali insieme, con lui il Novecento è davvero
finito.
Dal sito “La
letteratura e noi”, 18 Luglio 2019
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