Giovanni Pico della Mirandola |
Gli umanisti «non hanno
nulla a che fare con la filosofia, neppure nel senso più vago del
termine», scriveva Paul Oskar Kristeller, che pure di quel periodo e
dei suoi protagonisti fu studioso raffinatissimo. Era in buona
compagnia, del resto. Ma tutto sta a intendersi su che cosa sia la
filosofia. Dall’Ottocento, prima nelle università tedesche e di lì
in tutta Europa, l’appiattimento progressivo dei saperi umani sul
modello di quelli scientifici impose con forza crescente una nozione
di filosofia intesa come «scienza rigorosa» e teoretica: un sapere
che si articola in sistemi e che ha come compito una comprensione e
una spiegazione della realtà. È un modello possibile, che ha goduto
di grande successo anche prima, nei secoli medievali che avevano
assistito, nelle università di Parigi e Oxford, al trionfo della
scolastica e delle sue cattedrali di pensiero.
Niente di più lontano
dalle idee degli umanisti. Fuori dalle aule universitarie, perché
impegnati nel governo delle città; insofferenti rispetto ai
tecnicismi di un linguaggio, quello degli scolastici, incapace di
cogliere la ricchezza della realtà; convinti che il vero compito del
pensiero sia guidare gli uomini nelle scelte pratiche: sminuiti come
dilettanti (per quanto geniali) e filologi (come se fosse un
demerito), gli umanisti sono stati in realtà i campioni di un’idea
alternativa di filosofia, intesa come esperienza di vita più che
come sistema dottrinale; come attività pratica e non mero supporto
dell’indagine scientifica; come ricerca di felicità mondana e
operosa, non divina. Il problema dell’Umanesimo è una sfida alla
filosofia tradizionale: è un problema filosofico.
In questo sta la lezione
di Coluccio Salutati, Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla o Pico
della Mirandola, e non è una lezione semplice, come spiega Massimo
Cacciari nel libro La mente inquieta (Einaudi). Il tentativo
di articolare un nuovo linguaggio, ispirato dalle lingue classiche,
eloquente perché concreto e preciso, in grado di andare alle cose,
che vuole non rievocare il passato ma risvegliare il presente, non è
mai dimentico del fatto che la molteplicità delle attività umane
sfugge a ogni tentativo di inquadramento. E all’esaltazione per
quello per cui lotta, un mondo in cui l’uomo agisca da
protagonista, si accompagna la consapevolezza dei rischi che la
libertà comporta: siamo esseri capaci di creazioni divine e di
degenerazioni bestiali. Con gli umanisti l’uomo tornava sì al
centro della scena ma in tutti i suoi chiaroscuri, senza il conforto
di facili celebrazioni, come invece spesso si ripete.
È proprio in
quest’inquietudine, tipica di una mente incapace di riposo, che sta
la cifra dell’Umanesimo: un periodo di crisi, dubbi e lacerazioni —
di fiducia nella ragione, ma anche di disincanto circa la capacità
di ricomporre il tutto in un ordine perfetto. Non fa anche questo
parte dell’esperienza umana? Sulla copertina campeggiano i Tre
filosofi di Giorgione (sempre che siano filosofi). Ci sarebbe stato
bene anche il ritratto di marinaio (che marinaio non è) di Antonello
da Messina, «con uno strano sorriso sulle labbra», scriveva
Vincenzo Consolo, «un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo
amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e
intuisce il futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza
e da un moto continuo di pietà», che però non rinuncia ad agire.
Difficile trovare descrizione più appropriata degli umanisti e della
loro filosofia, impastata, scriveva Eugenio Garin, di «tempo e
memoria, e senso della creazione umana e dell’opera terrena e della
responsabilità».
La Lettura-Corriere della
Sera, 5 Maggio 2019
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