Vestito di bianco, seduto
su una sedia a rotelle e con la testa avvolta in una delle sue
femminilissime sciarpe, qualche settimana fa Pedro Lemebel ha fatto
una sorpresa a quanti si erano dati appuntamento per rendere omaggio
alla sua vita e alla sua opera con un collage di letture e teatro
intitolato «Noche Macuca». Commosso e ormai silenzioso per via del
cancro alla laringe che dopo quattro anni di ininterrotta battaglia
gli aveva rubato la voce, Lemebel ha potuto così congedarsi dai suoi
lettori e dalla folla di quanti lo amavano: giusto in tempo, perché
colui che viene oggi riconosciuto come uno degli scrittori più
significativi del panorama culturale cileno è morto lo scorso
venerdì nella clinica dov’era ricoverato da mesi, e sabato è
stato accompagnato al Cimitero Metropolitano di Santiago da un corteo
in cui non mancavano, come sarebbe piaciuto a lui, musica, canzoni,
bandiere rosse, lustrini e petali di fiori spontaneamente sparsi
dalle pergoleras, le fioraie della Recoleta.
Del corteo faceva parte
anche Claudia Barattini, attuale ministro della cultura, che dello
scrittore era amica sin da quando Lemebel collaborava a Radio Tierra,
una piccola radio femminista fondata nel 1991. E anche Michelle
Bachelet, presidente della Repubblica, ha salutato un artista
«coerente fino al suo ultimo giorno», la cui voce «non ha mai
smesso di rappresentare i dimenticati, i molti che si sentono orfani
in un paese che non li rappresenta né li accoglie». Simili omaggi,
Pedro Lemebel non li avrebbe certo immaginati quando era un bambino
poverissimo, nato – come ricorda il poeta argentino Fernando Noy,
suo grande amico – «nel fango», ai bordi dello Zanjón de la
Aguada, il canale che attraversa Santiago, e cresciuto nei quartieri
più miseri e violenti della città, dove la sua omosessualità lo
rendeva bersaglio di feroci prese in giro e frequenti pestaggi.
Capace di conquistarsi
una laurea in «arti plastiche» nonostante fosse destinato a
diventare un operaio, e rapidamente cacciato – per via del suo
aspetto femmineo che non esitava a sottolineare con il trucco e gli
abiti – dalle scuole in cui aveva cominciato a insegnare, Lemebel
si è rivelato, verso la fine degli anni ’80, come un artista
visuale di considerevole potenza: insieme a Francisco Casas, con il
quale aveva fondato il collettivo Las Yeguas del Apocalipsis,
e mentre la dittatura di Pinochet ancora dominava il paese,
percorreva Santiago per dare vita a performances audacissime
contro la violazione dei diritti umani e la cultura ufficiale,
evocando apertamente i desaparecidos e le infamie del regime,
ma presenziando anche alle manifestazioni della sinistra, per
rivendicare la propria differenza e il diritto a viverla pienamente e
fuori da ogni ipocrisia (celebre è rimasto il suo l’intervento,
nel 1986, a uno dei primi convegni del partito comunista, quando
apparve con i tacchi alti e coperto di lustrini, una falce e martello
dipinta sul viso, per leggere una lunga poesia-manifesto, Hablo
por mi diferencia).
Documentate da video e
foto, quelle memorabili «azioni» – che a partire dal 1997,
sciolto il collettivo, Lemebel ha proseguito da solo finché la
malattia glielo ha permesso – di recente sono state oggetto di una
giusta rivalutazione e oggetto di grandi mostre a Città del Messico,
Madrid, Lima e San Paolo, il cui curatore Gerardo Mosquera
sottolinea: «Sono opere forti, creative, che in quel momento erano
davvero necessarie».
Opere intensamente
politiche, soprattutto, perché come ha ricordato Carlos Monsiváis
nel presentare Lemebel alla Fiera del libro di Guadalajara, nel 2001,
tutta la sua attività di scrittore e di artista è così
strettamente intrecciata alla militanza da esserne indistinguibile.
A dimostrarlo c’è, in
particolare, la sua opera letteraria (apprezzatissima da Roberto
Bolaño, che cercò di diffonderla in Europa, e in parte ci riuscì):
un incantevole romanzo, Ho paura torero (Marcos y Marcos,
2004), e soprattutto le otto raccolte di crónicas uscite tra
il 1995 e il 2013, dopo un esordio favorito da scrittrici come
Diamela Eltit e Pia Barros, e che restano praticamente ignote in
Italia, a parte la breve antologia pubblicata nel 2009 da Marcos y
Marcos con il titolo Baciami ancora, forestiero. La scelta di
una forma come la crónica, oggi esageratamente di moda in America
Latina e spesso adoperata in modo maldestro, non deve però trarre in
inganno: Lemebel è molto più scrittore che giornalista, ci
restituisce la realtà urbana della Santiago più desolata e
periferica (quella degli emarginati, della locas ammalate di Aids,
dei travestiti, dei sottoproletari) attraverso una reinvenzione
costante, uno sguardo autobiografico e una splendida prosa
neobarocca, caustica e violentemente risentita quanto immaginosa e
poetica, piena di invenzioni linguistiche e di localismi suggestivi,
che la rendono «più vera del vero», ben diversa da quella che oggi
filtra compostamente da crónicas impeccabili e oggettive, ma
«di design» (la definizione è dello stesso Lemebel), senza sangue
né corpo. Perché sta nel corpo, non ci sono dubbi, la forza di
Lemebel: in un corpo travestito, dipinto, ornato, sofferente, pieno
di cicatrici, traboccante di dolori e di passioni.
Un corpo esibito come
messaggio di rivolta, come il veicolo della rabbia senza riguardi e
senza peli sulla lingua di qualcuno che aveva «la periferia
incollata alla pelle», che non si inchinava a nessuno e che non era
mai stato addomesticabile, nonostante i media avessero tentato in
tutti i modi di trasformarlo in un personaggio fokloristico, nel «gay
di corte», in una sorta di buffone alla moda. Ma, diceva Lemebel, la
società borghese non sarebbe mai riuscita a cooptarlo tramite «la
miserabile elemosina dei diritti civili»: la sua scelta era quella
di essere «così rossa, così frocia, così piena di risentimento da
collocarmi in un territorio arcaico dove non possano raggiungermi con
la loro beneficenza ortopedica di uguaglianza sociale».
Il suo Cile periferico e
dolente, marginale ed escluso, ha risposto a tutto questo con
travolgente amore: non per niente Lemebel era uno dei pochi scrittori
al mondo che non potevano camminare per strada senza essere fermati e
abbracciati non dai molti intellettuali, di cui pure aveva
contribuito a mutare il punto di vista sulle cose e sul mondo (e ai
quali aveva dato più di una lezione, rifiutandosi di rinunciare alla
memoria e di adattarsi all’ipocrisa della concertación), ma
dalla gente come lui, nata «nel fango».
il manifesto, 27 gennaio 2015
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