20.8.19

E Man Ray sognò una mano (Mario Novi)

Man Ray - Le cadeau


VENEZIA

L'Enigma d'Isidore Ducasse una macchina per cucire avvolta in un telo opaco e legata con uno spago è un oggetto che fa quasi da emblema, nelle sale affascinanti e un po' misteriose di Palazzo Fortuny, alla mostra che Venezia dedica a Man Ray (1890-1976): fotografo, pittore e inventore di oggetti. La mostra, intitolata Cent'anni di libertà: 1890-1990, riprende e rinnova la fisionomia di quella che fu tenuta a Parigi l'anno scorso col titolo: 360 gradi di libertà. E questa macchina da cucire, che sulla scia del grande Lautreamont obbedisce alla verità degli incontri fortuiti trasmette qualcosa di metafisico: a meno che non serva, tale impressione, a sostituire una quasi introvabile chiave di lettura non tanto della rassegna quanto dell'intera opera di Man Ray, dadaista ante litteram. Soprattutto al riguardo della dimensione degli oggetti che da La scopa francese al Cuscinetto a sfere, dal Pane dipinto al famoso Metronomo (dove l'occhio della lancetta si apre e si chiude a seconda da dove si guarda), da Trompe l'oeuf a Boule sans neige appare sempre un po' più piccola o comunque diversa e incongruente rispetto allo spazio circostante. Il fatto è che Man Ray, come nota Christian Schlatter in una delle prefazioni al catalogo, non ascoltava che il suo metronomo interno, una necessità che può prendere un pennello come fare una fotografia, a condizione che questa sia fatta senza apparecchio. Il tic-tac del metronomo significa in tal caso una continua oscillazione tra immagine e forma, tra visione interiore e trasformazione oggettiva di essa.
Basti pensare alla nascita della Rayografia, una delle più note scoperte di Man Ray, attraverso una confessione dello stesso autore: “Fu durante lo sviluppo che trovai un procedimento per fare delle foto senza apparecchio... mentre rimpiangevo di avere sprecato della carta, posai macchinalmente un piccolo imbuto di vetro, il bicchiere graduato ed il termometro nella bacinella, sulla carta bagnata. Quando accesi la luce, sotto i miei occhi si stava formando un' immagine”.
Oppure a quello strano autoritratto in fotografia in cui il volto di Man Ray appare rasato da una sola parte e in cui la forma, a parte l'aneddoto ispiratore di chi lo preferiva con la barba e chi senza, risulta meticolosamente recuperata e costruita. Ma non erano i dadaisti a far finta di non dare alcuna importanza all'immagine? Senza contare che qualcosa di sconcertante e di inafferrabile balena in tutta la vicenda biografica e produttiva di Man Ray. È fotografo perfetto e innovatore e la fama raggiunta in tal campo appanna spesso la sua valentia di pittore. I suoi dipinti, di cultura cubista, sono ineccepibili, vibranti, anticipatori. “Io fotografo, scrisse, ciò che non posso dipingere e dipingo ciò che non posso fotografare”. I suoi collages, i suoi titoli sono eversivi, catturanti: e d'altronde il titolo, come affermò l'amico Marcel Duchamp, è nell'arte un elemento essenziale.
Gli oggetti sono ad un tempo deludenti e allarmanti. Ecco un commento di Man Ray a Puericulture del 1920: “Avevo sognato una volta che scendevo in strada, che le mani uscivano dal selciato e che io dovevo insinuarmi fra le mani. Allora ho messo questa manina (una mano di gesso che aveva trovato in una coloreria) in un vaso, come un fiore, e l'ho dipinta in verde rame”. E non dimentichiamo il ferro da stiro del 1921, intitolato Le cadeau, dove la inutilizzabilità causata dai chiodi che ne rivestono la piastra lo trasforma in oggetto-poesia.
Il metronomo interno di Man Ray oscilla dunque anche fra pensiero e opera ed è difficile essere d'accordo con Jean Petithory quando scrive che non esiste mostra nella quale egli non trovi la sua collocazione naturale essendo stato spesso un pioniere in innumerevoli campi, che si trattasse di fotografia, di dadaismo, di surrealismo, di arte astratta, di pop-art, del lettrismo stesso..., perché l'opera di questo inesplorabile artista statunitense sembra misteriosamente sfuggire a qualsiasi eventualità di mostra.
C'è tuttavia un filo sotterraneo che consente al complesso lavoro di Man Ray come risulta dalla grande retrospettiva americana del 1988 (Washington, Los Angeles, Filadelfia sua città natale e Houston), da quella di Parigi e da questa che Venezia gli dedica nel centenario della nascita (e anzi lo sostiene e lo ravviva) l' avventura dell' esposizione: una sorta di impeto mitologico, una continua e cupida ansia di recuperare un mito, il mito e di riafferrarne l' indispensabile e perduta sostanza. Ed è probabilmente in tal senso che, come si accennava all' inizio, quell'Enigma d'Isidore Ducasse echeggia una musica metafisica. Man Ray scava nei sotterranei del nostro tempo ed è forse il profeta di un tempo non ancora concluso.

“la Repubblica”, 3 agosto 1990

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