Man Ray - Le cadeau |
VENEZIA
L'Enigma d'Isidore
Ducasse una macchina per cucire avvolta in un telo opaco e legata
con uno spago è un oggetto che fa quasi da emblema, nelle sale
affascinanti e un po' misteriose di Palazzo Fortuny, alla mostra che
Venezia dedica a Man Ray (1890-1976): fotografo, pittore e inventore
di oggetti. La mostra, intitolata Cent'anni di libertà:
1890-1990, riprende e rinnova la fisionomia di quella che fu
tenuta a Parigi l'anno scorso col titolo: 360 gradi di libertà.
E questa macchina da cucire, che sulla scia del grande Lautreamont
obbedisce alla verità degli incontri fortuiti trasmette qualcosa di
metafisico: a meno che non serva, tale impressione, a sostituire una
quasi introvabile chiave di lettura non tanto della rassegna quanto
dell'intera opera di Man Ray, dadaista ante litteram.
Soprattutto al riguardo della dimensione degli oggetti che da La
scopa francese al Cuscinetto a sfere, dal Pane dipinto
al famoso Metronomo (dove l'occhio della lancetta si apre e si
chiude a seconda da dove si guarda), da Trompe l'oeuf a Boule
sans neige appare sempre un po' più piccola o comunque diversa e
incongruente rispetto allo spazio circostante. Il fatto è che Man
Ray, come nota Christian Schlatter in una delle prefazioni al
catalogo, non ascoltava che il suo metronomo interno, una necessità
che può prendere un pennello come fare una fotografia, a condizione
che questa sia fatta senza apparecchio. Il tic-tac del metronomo
significa in tal caso una continua oscillazione tra immagine e forma,
tra visione interiore e trasformazione oggettiva di essa.
Basti pensare alla
nascita della Rayografia, una delle più note scoperte di Man Ray,
attraverso una confessione dello stesso autore: “Fu durante lo
sviluppo che trovai un procedimento per fare delle foto senza
apparecchio... mentre rimpiangevo di avere sprecato della carta,
posai macchinalmente un piccolo imbuto di vetro, il bicchiere
graduato ed il termometro nella bacinella, sulla carta bagnata.
Quando accesi la luce, sotto i miei occhi si stava formando un'
immagine”.
Oppure a quello strano
autoritratto in fotografia in cui il volto di Man Ray appare rasato
da una sola parte e in cui la forma, a parte l'aneddoto ispiratore di
chi lo preferiva con la barba e chi senza, risulta meticolosamente
recuperata e costruita. Ma non erano i dadaisti a far finta di non
dare alcuna importanza all'immagine? Senza contare che qualcosa di
sconcertante e di inafferrabile balena in tutta la vicenda biografica
e produttiva di Man Ray. È fotografo perfetto e innovatore e la fama
raggiunta in tal campo appanna spesso la sua valentia di pittore. I
suoi dipinti, di cultura cubista, sono ineccepibili, vibranti,
anticipatori. “Io fotografo, scrisse, ciò che non posso dipingere
e dipingo ciò che non posso fotografare”. I suoi collages, i suoi
titoli sono eversivi, catturanti: e d'altronde il titolo, come
affermò l'amico Marcel Duchamp, è nell'arte un elemento essenziale.
Gli oggetti sono ad un
tempo deludenti e allarmanti. Ecco un commento di Man Ray a
Puericulture del 1920: “Avevo sognato una volta che scendevo
in strada, che le mani uscivano dal selciato e che io dovevo
insinuarmi fra le mani. Allora ho messo questa manina (una mano di
gesso che aveva trovato in una coloreria) in un vaso, come un fiore,
e l'ho dipinta in verde rame”. E non dimentichiamo il ferro da
stiro del 1921, intitolato Le cadeau, dove la inutilizzabilità
causata dai chiodi che ne rivestono la piastra lo trasforma in
oggetto-poesia.
Il metronomo interno di
Man Ray oscilla dunque anche fra pensiero e opera ed è difficile
essere d'accordo con Jean Petithory quando scrive che non esiste
mostra nella quale egli non trovi la sua collocazione naturale
essendo stato spesso un pioniere in innumerevoli campi, che si
trattasse di fotografia, di dadaismo, di surrealismo, di arte
astratta, di pop-art, del lettrismo stesso..., perché l'opera di
questo inesplorabile artista statunitense sembra misteriosamente
sfuggire a qualsiasi eventualità di mostra.
C'è tuttavia un filo
sotterraneo che consente al complesso lavoro di Man Ray come risulta
dalla grande retrospettiva americana del 1988 (Washington, Los
Angeles, Filadelfia sua città natale e Houston), da quella di Parigi
e da questa che Venezia gli dedica nel centenario della nascita (e
anzi lo sostiene e lo ravviva) l' avventura dell' esposizione: una
sorta di impeto mitologico, una continua e cupida ansia di recuperare
un mito, il mito e di riafferrarne l' indispensabile e perduta
sostanza. Ed è probabilmente in tal senso che, come si accennava
all' inizio, quell'Enigma d'Isidore Ducasse echeggia una
musica metafisica. Man Ray scava nei sotterranei del nostro tempo ed
è forse il profeta di un tempo non ancora concluso.
“la Repubblica”, 3
agosto 1990
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