Quando si parla di
occupazione e mercato del lavoro è bene fare attenzione ai numeri.
Anche perché i dati influenzano scelte generali di politica
economica e anche le scelte dei banchieri centrali, come dimostra
l’ossessione Usa per il tasso di disoccupazione quando si tratta di
fissare il livello dei tassi di interesse in chiave anti-inflazione.
E la lotta all’inflazione, del resto, costituisce la mission
centrale della Bce, contenuta nel suo mandato.
Fare attenzione significa
però saper “pesare” i dati occupazionali perché ormai –
questa è una caratteristica strutturale del mercato del lavoro –
dire occupati non significa che tutti sono occupati allo stesso modo.
E dire che i posti di lavoro aumentano non significa che aumenti il
tasso di attività di quelli compresi tra i 18 e i 64 anni.
Un elemento disturbatore,
ad esempio, è il part-time: formalmente designa un lavoratore o una
lavoratrice occupati, ma la sua espansione corre accanto alla
stagnazione dei salari complessivi e la sua incidenza sul monte ore
lavorate è ovviamente importante. Tra le ragioni della riduzione
progressiva dei contratti a tempo indeterminato – che viene
ribadita anche dall’ultimo rapporto annuale dell’Inps – c’è
il fatto che le altre tipologie contrattuali aumentano. “Infatti
nel 2017 – scrive l’Inps – quasi il 20% delle giornate lavorate
nel settore dipendente privato risulta afferente ai rapporti di
lavoro diversi dal tempo indeterminato classico”. L’incidenza del
tempo determinato sul totale “è passata dal 9,9% del 2016
all’11,8% del 2017, l’apprendistato dal 3% al 3,2%, il
somministrato dal 2% al 2,4%, lo stagionale dall’1,1% all’1,2%,
l’intermittente dallo 0,4% allo 0,6%”.
I dipendenti coinvolti in
rapporti di lavoro a tempo determinato e di apprendistato, quindi,
“sono aumentati significativamente, passando da 3,7 milioni a 4,6
milioni (quasi un milione di dipendenti in più, +24%)”. E poi c’è
il part-time il cui peso è salito “dal 27,4% del 2016 al 28,1% del
2017”. Ma se “si restringe l’osservazione al contratto standard
tempo indeterminato-full time verifichiamo che esso assorbe nel 2017
il 59,3% della quantità di lavoro contro il 61,4% del 2016”.
Quindi il 40% delle giornate lavorate “è inquadrato con rapporti
di lavoro a termine e/o a part-time”.
Nel suo rapporto, l’Inps
elabora una misura omogenea del tasso di occupazione, prendendo come
unità soltanto la giornata lavorativa e la tipologia di contratto.
In tal modo, costruendo una tabella basata sugli “anni-uomo”
permette di vedere esattamente l’andamento del mercato del lavoro
tra il 2016 e il 2017. Il tempo indeterminato si riduce sia nel full
time (-0,7%) che nel part-time (-0,6%), ma il tempo determinato
cresce del 15,5% nel full time e, addirittura, del 35,5% nel
part-time raggiungendo il 40% degli “anni-uomo” di quella
categoria. Forte crescita anche nel settore stagionale dove il
part-time cresce del 21% contro un +9,6% per il full time. Mentre
solo il lavoro intermittente, che cresce del 49,8%, lo batte.
Si tratta di una
rivoluzione lenta ma progressiva del mercato del lavoro e spiega
chiaramente perché la curva dei salari sia stabile da almeno 25 anni
a questa parte e perché nonostante la formale riduzione della
disoccupazione – gli ultimi dati la stimano al 9% – non si
verifichi un miglioramento percepibile delle condizioni di vita. Il
fenomeno dell’emigrazione dei giovani italiani continua e
l’ingresso nel mercato del lavoro continua ad avvenire in forme
lentissime e con contratti, come abbiamo visto, sempre meno
garantiti.
L’incidenza del
part-time, spiega l’Inps, “non risulta tanto correlata al grado
di terziarizzazione quanto a configurazioni territoriali
dell’attività produttiva”.Così è Prato la provincia con la
massima incidenza del part-time nel settore manifatturiero: “Il 40%
contro un valore medio nazionale del 12,4%”. I livelli più bassi,
invece, si riscontrano in alcune province piemontesi e lombarde: “Il
minimo si raggiunge a Vercelli (meno del 7%) ma anche a Milano
l’incidenza del part-time nel settore manifatturiero è molto
contenuta (meno del 9%)”.
Secondo l’Inps, questa
differenza così rilevante del grado di incidenza è indicativa sia
di una “diversa vulnerabilità delle strutture produttive”, ma
anche dei rischi di irregolarità: “Non di rado, infatti, il
part-time è la formula preferita per organizzare il lavoro secondo
modalità solo parzialmente regolari”. Tutto ciò, poi, si scarica
sulle retribuzioni complessive. L’Inps indica quattro ragioni che
spiegano la riduzione o il mancato incremento della retribuzione
annua: la quantità di giornate lavorate; la retribuzione media
giornaliera; le variazioni nell’orario di lavoro (passaggi da
part-time a full time e viceversa); la continuità di prestazione con
la medesima azienda. La causa principale delle riduzioni di
retribuzione è la contrazione della retribuzione media giornaliera.
Ma quasi un milione di lavoratori nel 2017 hanno lavorato meno e
percepito una retribuzione media giornaliera inferiore a quella del
2014: “Tra essi il 51% ha cambiato azienda e poco meno della metà
lavora a part-time”.
I dati sull’occupazione,
scomposti e ricanalizzati alla luce delle effettive dinamiche, sono
più che utili per cogliere le tendenze generali dell’economia.
Negli Stati Uniti, ad esempio, la Borsa, la Fed e lo stesso governo,
prendono la riduzione consistente della disoccupazione come un dato
di grande forza economica. Ma se si guarda al tasso di attività,
cioè delle persone che sono davvero al lavoro, si nota che il tasso
americano, nel 2018 al 62,8%, è ancora più basso di quello del 2007
che era al 63%. Quindi ci sono meno persone al lavoro e ci sono più
lavoretti, più situazioni frammentate, sacche di marginalità e di
sottoccupazione.
La stessa cosa si può
rilevare in Italia, dove l’occupazione sembra aumentare, ma succede
con più lavoro parziale, più lavoro intermittente e meno contratti
a tempo indeterminato. Poi dice che non si cresce.
Il Fatto Quotidiano 21
agosto 2019
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