13.8.19

I pieni poteri e l'Italia del Sì (S.L.L.)

Roma, Palazzo Braschi in occasione del plebiscito del 1934

Non credo che consapevolmente Matteo Salvini imiti, a quasi cento anni di distanza, le formulazioni e le parole d'ordine di Benito Mussolini. Ma esiste una sorta di coazione a ripetere che induce i duci e i capitani ad usare le stesse formule e a seguire percorsi istituzionali analoghi. Il passato pesa, anche se non tutti se ne accorgono.
Così non tutti sanno che la formula dei “pieni poteri” fu quella che il fascismo, non ancora regime, utilizzò dopo la marcia su Roma, nel suo esordio al governo, quando i parlamentari dichiaratamente fascisti erano ancora una minoranza.
Dal punto di vista istituzionale la prima legge che diede al Fascismo modo di cambiare le istituzioni del Regno fu appunto quella “dei pieni poteri”, la Legge 3 dic. 1922, n. 1601, concernente la delegazione di pieni poteri al Governo del re per il riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione. (G. U. 15 dic., numero 293).
Il suo articolato, sbrigativo, così recitava:
1. Per riordinare il sistema tributario allo scopo di semplificarlo, di adeguarlo alle necessità del bilancio e di meglio distribuire il carico delle imposte; per ridurre le funzioni dello stato, riorganizzare i pubblici uffici ed istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le spese, il governo del re ha, fino al 31 dicembre 1923, facoltà di emanare disposizioni aventi vigore di legge.
2. Entro il mese di marzo 1924 il governo del re darà conto al parlamento dell’uso delle facoltà conferite dalla presente legge.
3. La presente legge andrà in vigore il giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale. Nello stesso giorno cesseranno di aver vigore la legge 13 agosto 1921, n. 1080, la proroga della legge stessa accordata dall’art. 2 della legge 22 agosto 1922, n. 1169, e ogni altra disposizione contraria alla presente legge.
Potrebbe perfino essere un modello.
C'è un'altra preoccupante analogia. Alle elezioni-plebiscito che l'uomo forte della Lega Nord vorrebbe imporre subito, prima che il vento cambi e la gente abbia il tempo di riflettere, vuuole presentarsi alla guida dell'Italia del Sì, una formula che i propagandisti del fascismo inventarono per le elezioni plebiscitarie del 1929 e del 1934, quelle in cui gli eletti erano nominati dal partito fascista e ai cittadini rimaneva solo una facoltà di ratifica. 
Fu in uno di quei plebisciti che accadde la storia che segue e che amabilmente Leonardo Sciascia raccontò in una “voce” del suo Occhio di capra (Einaudi 1984), un libro che raccoglie i modi di dire della sua Racalmuto, voce che mi piace qui riprendere per intero.


Ci sputassi vossia
Ci sputi lei. Espressione ormai proverbiale, per dire di un’azione che si è costretti a fare anche se teoricamente, formalmente, si ha la libertà di non farla. Fu pronunziata da un certo Salvatore Provenzano, ex guardia regia (corpo di polizia, quello delle regie guardie, istituito da Nitti e sciolto da Mussolini), davanti al seggio in cui si votava il consenso o il dissenso al regime fascista. I componenti del seggio consegnavano al votante la scheda su cui, teoricamente, il votante era libero di scrivere “si” oppure “no”: ma di fatto le schede venivano consegnate con il “si” già scritto, per cui al votante altro non restava che leccare la parte gommata della scheda, chiuderla e imbucarla nell’urna. Accorgendosi dunque Provenzano che già era stato scritto un “si” dove lui aveva intenzione di scrivere un “no”, si rifiutò di toccare la scheda: che la leccasse, chiudesse e imbucasse il presidente del seggio.
Naturalmente fu arrestato: ché sarebbe già stato offensivo dire al presidente di leccare la parte gommata della scheda, chiuderla e metterla nell’urna: ma dirgli “ci sputi” era dimostrazione di assoluto disprezzo per il regime fascista. (Provenzano è morto una decina d’anni addietro. Era un uomo alto, asciutto, la faccia cotta dal sole. Vestiva sempre con giacca di velluto a coste, pantaloni da cavallante, gambali di cuoi. Viveva del reddito di una sua piccola campagna. Caduto il fascismo, non rivendicò mai il merito di essere stato antifascista).

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