16.8.19

Virus e storia. Dalla lebbra alla sifilide: quando epidemie e contagi segnano i grandi mutamenti (Sandro Modeo)

Lebbroso

È una rimozione naturale, perché l'impulso adattativo ce la impone: ma là in fondo - dietro il velo rassicurante delle nostre abitudini - la vita biologica viene incessantemente scolpita e plasmata dalla morte. E questo sia a livello individuale, con l'apoptosi (in greco «caduta delle foglie») che programma la morte cellulare selettiva del nostro organismo (già nell'embrione le piccole mani vengono discriminate dalla membrana palmare proprio grazie a tale processo); sia a livello di specie, con virus e batteri che perforano a ondate le nostre corazze immunitarie e rimodellano il nostro assetto genetico. Ora un libro ormai classico di Andrew Nikiforuk (Il quarto cavaliere Trad. Elena Sciarra Mondadori la prima versione è del 1991) ci esorta a rimuovere la rimozione e a osservare il paesaggio senza filtri, evidenziando nell'azione del Quarto cavaliere (quello, richiamato nel titolo, cui l'Apocalisse delega le folate epidemiche) uno dei co-fattori decisivi nel farsi e disfarsi della storia dell'Homo sapiens. Farsi e disfarsi perché l'onninvadenza dei microrganismi (molto più antichi dell'uomo, come mostra una semplice spora di 25 milioni di anni fa nell'intestino di un'ape conservata nell'ambra) non è solo distruttiva: senza il loro invisibile brulichio attivo non ci sarebbe la fotosintesi, gli stomaci dei ruminanti non convertirebbero l'erba in zuccheri e il formaggio non potrebbe stagionare. Il punto è che le loro linee evolutive non sempre sono compatibili con quella umana, soprattutto a causa della nostra evoluzione culturale. La collisione inizia più o meno tra 10 e 7 mila anni fa, con la duplice rivoluzione dell'agricoltura e della domesticazione animale: le zolle rimosse per seminare grano e orzo e la convivenza dell'uomo con pecore e maiali portano a un métissage di Dna inedito e al dilagare di virus, batteri e funghi in villaggi densamente popolati e quindi a elevato rischio di contagio. Da lì in poi - come si vede nella progressione serrata, quasi allucinata di Nikiforuk - ogni epidemia ha marchiato a fondo caratteri etnici, economia e costumi delle società umane, con i germi che hanno trovato di volta in volta congeniali situazioni geografiche e ambientali per deflagrare e mostrificare i nostri corpi e i nostri volti, magari dopo aver convissuto con noi in altri contesti per periodi più o meno lunghi. La malaria nella sua forma grave, il Plasmodium falciparum - comparsa in Africa nell'acqua tra i solchi di terreno per le patate dolci, dopo vaste deforestazioni - viene portata dalla zanzara anofele nella rete idrica romana, contribuendo alla decadenza dell' impero. La lebbra - micobatterio ospitato in origine dal bufalo indiano o dall'armadillo - produce, con l'isolamento degli infetti, la nascita di lebbrosari e lazzaretti, cioè di archeo-ospedali. La peste - veicolata dalle pulci mongole ed esplosa in Europa come «Morte Nera» nel 1348 - è decisiva nel crollo del feudalesimo (con la servitù della gleba falcidiata - 30 milioni di contadini morti in due anni - e con i superstiti riconvertiti in ascendente borghesia commerciale) e nella scomparsa del latino, senza più monaci a insegnarlo. Il vaiolo - planato in Europa dal Medio Oriente intorno al X secolo d.C. - ha scatenato quell'«Apocalisse biologica» alla base della colonizzazione del Nuovo Mondo (100 milioni di amerindi morti in meno di 100 anni). La sifilide - importata dai marinai di Cristoforo Colombo - ha sollecitato l'invenzione sia delle parrucche (per ovviare alla calvizie provocata più dal mercurio che dal morbo) sia delle «protezioni» nei rapporti sessuali (in lino ruvido o interiora di pecora). E la tubercolosi - il cui batterio risalirebbe addirittura a tre milioni di anni fa - è di fatto la prima epidemia «industriale», con i duri orari di lavoro ad accentuare predisposizioni ambientali (malnutrizione e luoghi insalubri) costitutivi della fragilità immunitaria alla base di ogni epidemia. Notevole la zoomata sulla visione sociale e culturale volta a volta indotta da ogni epidemia sui contemporanei. I lebbrosi (con i guanti, la veste marchiata a «L» e il campanello o l' intonazione del De Profundis per annunciarsi) sono emblemi di uno «stigma» virato in capro espiatorio (Filippo V il Lungo ne porta al rogo migliaia, Edoardo I d'Inghilterra li fa seppellire vivi) che ritroveremo nella colpevolezza sessuale di sifilitici e malati di Aids. Se la Morte Nera mina l'autorevolezza del credo cattolico, favorendo l'affermarsi delle eresie e poi delle Chiese riformate, il vaiolo - a rovescio - scuote la fede dei «nativi» americani nei loro totem e li spinge tra le braccia dei missionari spagnoli. E alcuni tratti della Tbc - sguardo spento e consunzione - strutturano il mito romantico del «genio malato», da John Keats a Frédéric Chopin. Senza dimenticare le implicazioni classiste e razziste di tante epidemie, dato che per esempio i patrizi veneziani fuggono la peste nelle loro dimore di campagna, mentre la tratta dei neri è stata a lungo legittimata dall' «indisponibilità» per il lavoro schiavistico degli indiani via via falcidiati. Scontando qualche topica (il grande storico e pensatore francese Hippolyte Taine presentato come «turista americano»), qualche passaggio datato (sull'Ebola e sui virus attuali) e un ossessivo pregiudizio antimedico (è vero che vaccini e farmaci - salvo il caso del vaiolo - sono stati fallimentari, ma ogni misura igienico-sanitaria lo sarebbe stata altrettanto senza la descrizione dei microrganismi e delle loro modalità di trasmissione), il lavoro di Nikiforuk ci conduce con rigore davanti a due aspetti decisivi. Da un lato insiste sulla necessità di estendere la qualità della vita a livello globale: un morbillo o una diarrea sono oggi innocui per i bambini occidentali, ma possono essere ancora mortali in uno slum messicano. Dall'altro, ci ricorda spietatamente l'irriducibile e velocissimo trasformismo dei microbi, dimostrato da tanti ceppi farmaco-resistenti, specie agli antibiotici. In assoluto, nessuna profilassi è una garanzia: il nostro corpo e il nostro genoma non sono monadi isolate, ma forme del vivente sempre in coabitazione e in competizione con altre.

Corriere della Sera, 23/07/2008

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