Lebbroso |
È una rimozione
naturale, perché l'impulso adattativo ce la impone: ma là in fondo
- dietro il velo rassicurante delle nostre abitudini - la vita
biologica viene incessantemente scolpita e plasmata dalla morte. E
questo sia a livello individuale, con l'apoptosi (in greco «caduta
delle foglie») che programma la morte cellulare selettiva del nostro
organismo (già nell'embrione le piccole mani vengono discriminate
dalla membrana palmare proprio grazie a tale processo); sia a livello
di specie, con virus e batteri che perforano a ondate le nostre
corazze immunitarie e rimodellano il nostro assetto genetico. Ora un
libro ormai classico di Andrew Nikiforuk (Il quarto cavaliere
Trad. Elena Sciarra Mondadori la prima versione è del 1991) ci
esorta a rimuovere la rimozione e a osservare il paesaggio senza
filtri, evidenziando nell'azione del Quarto cavaliere (quello,
richiamato nel titolo, cui l'Apocalisse delega le folate epidemiche)
uno dei co-fattori decisivi nel farsi e disfarsi della storia
dell'Homo sapiens. Farsi e disfarsi perché l'onninvadenza dei
microrganismi (molto più antichi dell'uomo, come mostra una semplice
spora di 25 milioni di anni fa nell'intestino di un'ape conservata
nell'ambra) non è solo distruttiva: senza il loro invisibile
brulichio attivo non ci sarebbe la fotosintesi, gli stomaci dei
ruminanti non convertirebbero l'erba in zuccheri e il formaggio non
potrebbe stagionare. Il punto è che le loro linee evolutive non
sempre sono compatibili con quella umana, soprattutto a causa della
nostra evoluzione culturale. La collisione inizia più o meno tra 10
e 7 mila anni fa, con la duplice rivoluzione dell'agricoltura e della
domesticazione animale: le zolle rimosse per seminare grano e orzo e
la convivenza dell'uomo con pecore e maiali portano a un métissage
di Dna inedito e al dilagare di virus, batteri e funghi in villaggi
densamente popolati e quindi a elevato rischio di contagio. Da lì in
poi - come si vede nella progressione serrata, quasi allucinata di
Nikiforuk - ogni epidemia ha marchiato a fondo caratteri etnici,
economia e costumi delle società umane, con i germi che hanno
trovato di volta in volta congeniali situazioni geografiche e
ambientali per deflagrare e mostrificare i nostri corpi e i nostri
volti, magari dopo aver convissuto con noi in altri contesti per
periodi più o meno lunghi. La malaria nella sua forma grave, il
Plasmodium falciparum - comparsa in Africa nell'acqua tra i
solchi di terreno per le patate dolci, dopo vaste deforestazioni -
viene portata dalla zanzara anofele nella rete idrica romana,
contribuendo alla decadenza dell' impero. La lebbra - micobatterio
ospitato in origine dal bufalo indiano o dall'armadillo - produce,
con l'isolamento degli infetti, la nascita di lebbrosari e
lazzaretti, cioè di archeo-ospedali. La peste - veicolata dalle
pulci mongole ed esplosa in Europa come «Morte Nera» nel 1348 - è
decisiva nel crollo del feudalesimo (con la servitù della gleba
falcidiata - 30 milioni di contadini morti in due anni - e con i
superstiti riconvertiti in ascendente borghesia commerciale) e nella
scomparsa del latino, senza più monaci a insegnarlo. Il vaiolo -
planato in Europa dal Medio Oriente intorno al X secolo d.C. - ha
scatenato quell'«Apocalisse biologica» alla base della
colonizzazione del Nuovo Mondo (100 milioni di amerindi morti in meno
di 100 anni). La sifilide - importata dai marinai di Cristoforo
Colombo - ha sollecitato l'invenzione sia delle parrucche (per
ovviare alla calvizie provocata più dal mercurio che dal morbo) sia
delle «protezioni» nei rapporti sessuali (in lino ruvido o
interiora di pecora). E la tubercolosi - il cui batterio risalirebbe
addirittura a tre milioni di anni fa - è di fatto la prima epidemia
«industriale», con i duri orari di lavoro ad accentuare
predisposizioni ambientali (malnutrizione e luoghi insalubri)
costitutivi della fragilità immunitaria alla base di ogni epidemia.
Notevole la zoomata sulla visione sociale e culturale volta a volta
indotta da ogni epidemia sui contemporanei. I lebbrosi (con i guanti,
la veste marchiata a «L» e il campanello o l' intonazione del De
Profundis per annunciarsi) sono emblemi di uno «stigma» virato
in capro espiatorio (Filippo V il Lungo ne porta al rogo migliaia,
Edoardo I d'Inghilterra li fa seppellire vivi) che ritroveremo nella
colpevolezza sessuale di sifilitici e malati di Aids. Se la Morte
Nera mina l'autorevolezza del credo cattolico, favorendo l'affermarsi
delle eresie e poi delle Chiese riformate, il vaiolo - a rovescio -
scuote la fede dei «nativi» americani nei loro totem e li spinge
tra le braccia dei missionari spagnoli. E alcuni tratti della Tbc -
sguardo spento e consunzione - strutturano il mito romantico del
«genio malato», da John Keats a Frédéric Chopin. Senza
dimenticare le implicazioni classiste e razziste di tante epidemie,
dato che per esempio i patrizi veneziani fuggono la peste nelle loro
dimore di campagna, mentre la tratta dei neri è stata a lungo
legittimata dall' «indisponibilità» per il lavoro schiavistico
degli indiani via via falcidiati. Scontando qualche topica (il grande
storico e pensatore francese Hippolyte Taine presentato come «turista
americano»), qualche passaggio datato (sull'Ebola e sui virus
attuali) e un ossessivo pregiudizio antimedico (è vero che vaccini e
farmaci - salvo il caso del vaiolo - sono stati fallimentari, ma ogni
misura igienico-sanitaria lo sarebbe stata altrettanto senza la
descrizione dei microrganismi e delle loro modalità di
trasmissione), il lavoro di Nikiforuk ci conduce con rigore davanti a
due aspetti decisivi. Da un lato insiste sulla necessità di
estendere la qualità della vita a livello globale: un morbillo o una
diarrea sono oggi innocui per i bambini occidentali, ma possono
essere ancora mortali in uno slum messicano. Dall'altro, ci ricorda
spietatamente l'irriducibile e velocissimo trasformismo dei microbi,
dimostrato da tanti ceppi farmaco-resistenti, specie agli
antibiotici. In assoluto, nessuna profilassi è una garanzia: il
nostro corpo e il nostro genoma non sono monadi isolate, ma forme del
vivente sempre in coabitazione e in competizione con altre.
Corriere della Sera,
23/07/2008
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