Costruzioni biologiche antiche. Un "nuraghe" di Barumini (foto R. Sigismondi) |
Le tribù indiane che,
nel 1200 circa, decisero di insediarsi nei territori di Mesa Verde,
in Colorado (Stati Uniti), non potevano certo immaginare di aver
aperto la strada a una tecnica di costruzione architettonica dal nome
affascinante. Eppure è così. La vicenda inizia, in un certo senso,
con l’umana esigenza di vivere a temperature moderate e la tecnica
si chiama “architettura bioclimatica”. E gli indiani?
Mesa Verde è un’enorme
sgrottamento, una frattura orizzontale in una parete di calcare
verticalissimo. Una specie di rientranza naturale di notevoli
proporzioni che guarda a sud. All’interno di questa spaccatura, gli
indiani Anasazi costruirono il loro villaggio. Abitazioni realizzate
in pietra a secco e depositi di granaglie, viottoli che serpeggiano e
salgono in mezzo a questi piccoli parallelepipedi di roccia e grandi
cisterne per l’acqua, il tutto affastellato come in un mosaico
tridimensionale. In effetti la grande roccia offre un riparo
particolarmente fortunato.
Durante l’inverno il
sole, basso sull’orizzonte, illumina per molte ore al giorno le
piccole costruzioni incastrate a mezza parete. La forma del “guscio”
roccioso trattiene il calore per rilasciarlo, lentamente, nel corso
della notte. D’estate invece, con il sole alto, la grande parete
sovrastante, con l'allungarsi della sua ombra, difende le casette
indiane da un attacco solare diretto e le abitazioni risultano più
fresche. Completa il tutto un sistema di circolazione dell’aria
assolutamente naturale. Il trucco “bioclimatico” di Mesa Verde è
tutto qui, ma vale la prima pagina nelle citazioni storiche.
L’insediamento indiano nel Colorado, tuttavia, è solo il primo
capitolo di una ipotetica ricostruzione delle vicende bioclimatiche
nell’architettura umana. Qualche anno fa, l’Enea realizzò una
mostra sulle tecniche e la storia di questa architettura, e di casi
ne vennero fuori parecchi. Dalle terme di Ostia antica a Ghardaia, in
Algeria, fino alle Logge Vaticane di Raffaello, che utilizzò lo
stesso principio di Mesa Verde, gli esempi di soluzioni
architettoniche che sfruttano le caratteristiche climatiche e
naturali del territorio come parti integranti nella realizzazione di
edifici o insediamenti abitativi, costituiscono una vera e propria
collezione delle meraviglie. Ma la serie è ricca anche di casi
semplici, quotidiani.
«I principi generali
sono piuttosto elementari» dice Livio Dalla Ragione, direttore del
Museo della civiltà contadina di Città di Castello. «Le case più
importanti sfruttavano grandi mura al cui interno veniva formata
un’intercapedine con cenere e materiale di riempimento. In questa
maniera risultavano più isolate rispetto all’esterno, e l’umidità
non filtrava. Ma anche nelle case povere si sfruttavano soluzioni in
qualche modo analoghe. Ad esempio la calce e le paste che venivano
stese sui muri erano poco igroscopiche. Questo significa che si
asciugavano rapidamente. L’uso del cemento, che invece assorbe
molta umidità per ‘trasportarla’ all’interno della casa, ha
creato un problema che per molti secoli non si era presentato».
Ma
di soluzioni “povere ma efficaci” solo nel nostro paese se ne
trovano a decine. Ci sono i trulli, le piccole costruzioni di
pietra della Puglia, che garantiscono una protezione efficacissima
dal caldo estivo, e i dammusi, loro cugini realizzati
sull’isola di Pantelleria, mentre al nord, nelle malghe delle
vallate dolomitiche, il “larin”, il focolare, è il nucleo
attorno al quale si costruisce la casa. E ancora le “case torri”
dell’Abruzzo, dove la stalla è al piano terreno e sopra, divisa
solo da un doppio solaio in legno, c’è la cucina che sfrutta il
calore che sale. Sopra la cucina, infine, la stanza da letto. Le
‘astuzie’ bioclimatiche però, non facevano parte solo
dell’inventiva personale, ma avevano radici anche nel gruppo e
nella cittadina.
Molti insediamenti di
epoca medioevale, mostrano la tipica soluzione delle case a
“schiera”. La funzione, com’è noto, era doppia: realizzare una
fortificazione difensiva e creare una barriera contro il vento e, in
certe zone, il freddo. Se la schiera era a nord poi, le finestre
dovevano avere piccole dimensioni eccetto, se mai, quelle superiori
che potevano meglio sfruttare l’irraggiamento solare. Legata al
sole c’è, naturalmente, la questione dell’illuminazione. Anche
in questo caso esistono da tempo ingegnose soluzioni.
Il sociologo e urbanista
Lewis Mumford, ad esempio, descrivendo un’annunciazione
cinquecentesca ad opera di Joos van Cleve, nota che le finestre
dell’epoca erano divise in tre pannelli. Solo quello superiore era
fisso e di vetro, mentre i due inferiori erano costituiti da
persianette apribili. Questa struttura venne sostituita, nel tempo,
dalla finestra a tutto vetro sempre chiusa che rappresentò, a
giudizio di Mumford, un passo indietro. Il vecchio modello infatti,
oltre a garantire una continua illuminazione anche in caso di cattivo
tempo, consentiva, a persiane aperte, sia il passaggio dei raggi
ultravioletti per uccidere i batteri che una maggiore ventilazione
della casa. Circolazione dell’aria, un’altro dei problemi tipici
dell’architettura bioclimatica.
Una delle tecniche più
affascinanti è quella sviluppata nella costruzione delle Ville di
Costozza, nei pressi di Vicenza. Realizzate a partire dal 1550,
queste residenze sfruttano come sistema di raffreddamento e
circolazione dell'aria la presenza di grotte e scavi, parzialmente
artificiali, esistenti qualche metro al di sotto della superficie.
Queste cavità, chiamate “covoli”, hanno diversi ingressi. Per
ragioni fisiche, l’aria fredda entra dagli ingressi alti e,
percorrendo vie sotterranee, scende fino ai pavimenti sottostanti le
ville. Qui, attraverso una serie di grate, le correnti ritornano in
superficie, regolando naturalmente la temperatura delle ville
vicentine. Tuttavia la capacità di sfruttare le correnti d’aria
non è appannaggio “dell’architettura bioclimatica” del
Rinascimento.
Nelle terme di Ostia era
stato sviluppato un sistema di circolazione dell’aria che
permetteva di riscaldare i diversi ambienti proprio nelle ore di
punta. Gli edifici terminali avevano grosse aperture che guardavano
ovest. Queste consentivano, attraverso l'ingresso di aria riscaldata,
di sfruttare al meglio l’irraggiamento solare del pomeriggio, ora
di massimo affollamento. Una volta messa in moto, questa circolazione
facilitava anche la distribuzione del calore proveniente dal sistema
di riscaldamento centralizzato dell epoca, la fornace, e diramato
dall'ipocausto, una rete di condotte al di sotto dei pavimenti.
Dopo Ostia l’Iran,
territorio ricco di trovate per lo sfruttamento dell’irrequietezza,
ventosa, della natura. Vengono chiamate Torri del Vento. Sono grandi
torri aperte sostenute da colonne allineate. Per mezzo di condotte
coperte sono in contatto d’aria con le grandi residenze reali o con
le moschee più importanti. Durante il giorno l’aria calda che si
forma nelle stanze tende a scappare da questi enormi camini mentre,
di notte, l'aria fredda viene riscaldata dall’inerzia termica delle
pareti e, al tempo stesso, spinge le sacche di aria calda verso il
basso, riscaldando le zone abitate. Il tutto viene raffinato
attraverso un complesso sistema di aperture e chiusure che consentono
di scegliere se e quanto vento fare entrare e da quale, direzione. Un
esempio di soluzione adatta per un luogo.
Espedienti come quelli
adottati nel caso delle Torri del Vento, ma lo stesso vale per i
trulli e i dammusi, mettono in luce una concezione diversa della
casa, intesa più come organismo da adattare all’ambiente nel quale
“vive” che non come barriera difensiva per salvaguardarsi da un
territorio nemico. Un modo di concepire la casa, questo, che venne
definito “architettura organica” e che con l’affermarsi delle
tecniche bioclimatiche sembra essere meritorio di una riscoperta.
Riscoperta dunque, non scoperta.
"Arancia Blu", Anno II n.6, Giugno 1991
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