Dalle Vite efferate di papi di Dino Baldi (Quodlibet 2015)
recupero quello che nel libro è intitolato l'Ottavo Intermezzo, uno
dei frammenti di storia ecclesiastica che l'autore ha posto tra la
morte di papa e l'investitura di un altro. Codesti intermezzi, come
del resto le vite, redatti alla maniera delle storie antiche, sono
costruiti rigorosamente su fonti coeve o vicine nel tempo. I testi di
riferimento sono, in questo caso, la Storia d'Italia del
Guicciardini, i Vulnera diligentis di Benedetto Luschino, un
domenicano che con il protagonista della storia visse a stretto
contato, la Vita di Girolamo Savonarola di fra' Pacifico
Burlamacchi, anche lui domenicano e priore a Viterbo e Lucca, la Vita
di fra' Bartolomeo nelle Vite del Vasari. (S.L.L.)
Girolamo Savonarola nel ritratto di fra' Bartolomeo |
Di come papa
Alessandro scomunicò Savonarola dopo aver cercato inutilmente di
farlo riconciliare con la Chiesa. Col resoconto del falò delle
vanità nel quale si bruciarono le cose più belle di Firenze.
Quando Girolamo
Savonarola cominciò a scagliare infamie contro il papa e contro
tutta la curia per i costumi dissoluti e la vergogna della religione
calpestata e offesa, e alimentò il fuoco delle prediche col vento di
profezie terribili e spaventose, Alessandro Borgia lo invitò a Roma
perché, gli scrisse, «ci aiuti a far meglio quello che piace a Dio,
che tu conosci per grazia sua»; ma il priore di San Marco, vedendo
l’inganno, replicò che non si sentiva bene e preferiva non
viaggiare, e in cambio gli mandò il suo Compendio delle
rivelazioni, dove il papa avrebbe potuto trovare i suoi migliori
consigli per riformare la Chiesa. Alessandro accusò allora il frate
di eresia e di false predizioni, poi gli proibì di parlare al popolo
e di somministrare la comunione, e infine, a maggio del 1497, lo
scomunicò. Sembra però che in segreto gli avesse proposto il
cappello da cardinale, purché si astenesse dall’annunciare
l’imminente rovina della Chiesa; ma anche questo fu inutile, perché
Savonarola disse che l’unico cappello rosso che gli piaceva era
quello del martirio. Il frate continuava a predicare, e nelle sue
prediche diceva che la Chiesa era un mostro abominevole, e che la
scomunica del papa non valeva niente, perché non si deve obbedire a
un ordine dei superiori quando è contrario ai comandamenti di Dio.
All’inizio di febbraio
del 1497 sulla piazza della Signoria venne innalzato un albero di
carnevale, e tutto intorno furono ammassati moltissimi oggetti
preziosi che i bambini e i ragazzi di Firenze avevano raccolto per
tutta la città, esposti come in un museo della frivolezza umana.
C’erano stoffe piene di figure senza veli, ritratti di donne per
mano di artisti eccellenti, busti antichi in marmo e statue di uomini
nudi, carte da gioco, dadi, scacchiere d’alabastro, libri di
musica, arpe, liuti, clavicembali, cornette e ogni altro genere di
strumento musicale. In un altro lato della pira erano esposte le
vanità delle donne: ciuffi di capelli per estendere quelli naturali,
ampolle e profumi, polvere di cipria, specchi e cappelliere; e poi
opere di poeti latini e volgari, Morganti, libri di battaglie e
canzonieri, un Petrarca miniato e decorato in oro che da solo valeva
cinquanta scudi, Decameroni; e ancora maschere, livree, barbe e altri
capricci per camuffarsi durante il carnevale. Fra’ Bartolomeo portò
in piazza tutti i suoi disegni di nudo, e lo stesso fecero Lorenzo di
Credi e molti altri pittori, tanto che il Vasari disse che quel
pentimento collettivo fu un danno grandissimo per l’arte di
Firenze. Un mercante veneziano, vedendo quel ben di Dio, si offrì di
comprare tutto per ventimila scudi, e in quel modo si guadagnò
l’onore di essere rappresentato al naturale in cima alla pira come
principe delle vanità, accanto a una figura di Carnevale deforme e
mostruosa.
Migliaia di persone
presero la comunione per mano del frate davanti alla macchina da
ardere, dopodiché fu dato fuoco alle fascine, mentre le campane del
palazzo suonavano a distesa e ovunque si vedeva far festa e cantare
il Te Deum Laudamus in onore di quella distruzione. Savonarola
guardava tutto e ne godeva, e il giorno seguente in una sua predica
fece molti complimenti al popolo di Firenze, per essersi finalmente
lasciato alle spalle i beni materiali che rendono l’uomo la più
spregevole fra le creature del Signore.
Di come Savonarola
venne preso e condannato a morte.
Non passò molto tempo
che i fiorentini, delusi di non vedere nessuna delle profezie del
frate farsi vera, e preoccupati che il papa lanciasse l’anatema
contro la loro città, con la scusa di una rivolta popolare
assediarono Savonarola nel convento di San Marco, lo presero e lo
rinchiusero nel bargello. Alessandro Borgia quando lo seppe ne fu
molto contento, e tolse la scomunica a tutti quelli che avevano
ascoltato le prediche del domenicano. Tuttavia non riuscì ad
ottenere che lo consegnassero a lui, e dunque mandò da Roma due
commissari papali, perché esaminassero le sue colpe e consigliassero
i giusti provvedimenti.
Il frate prima fu
interrogato, poi fu torturato ed ebbe tre tratti e mezzo di fune che
gli slogarono le ossa. Non mostrò quasi mai la forza d’animo che
diceva di avere a parole. Gli fu dato da scrivere, confessò, pianse,
fu di nuovo interrogato e confermò quanto aveva scritto. Ammise che
tutte le profezie con le quali spaventava il popolo e scandalizzava
la Chiesa non gli erano state rivelate dal cielo, ma erano idee sue
basate sullo studio delle sacre scritture. Aggiunse però che tutto
quello che aveva fatto non era per un fine malvagio o perché
desiderava qualche carica ecclesiastica, ma perché voleva che la
Chiesa di Dio tornasse ad essere il più possibile pura e vicina a
quella degli apostoli. Disse ancora che per lui questo valeva molto
di più che diventare papa, perché per fare il bene occorrono
dottrina e virtù e amore degli uomini, mentre per fare il papa
bastano spesso i maneggi o la fortuna.
Gli inviati di Alessandro
Borgia sentenziarono che Savonarola, insieme ai frati Domenico e
Silvestro presi insieme a lui, erano da considerarsi eretici e
scismatici, e li affidarono alle cure del braccio secolare. Non era
infatti compito della Chiesa eseguire le sentenze, perché Ecclesia
abhorret a sangune. Domenico sembrava meno colpevole degli altri,
e c’era chi avrebbe voluto salvarlo; ma uno dei commissari tagliò
corto dicendo che un frate in più o in meno importava poco, e che
per non sbagliare era meglio condannarli tutti e tre.
Del modo in cui
venne eseguita la sentenza.
Il 23 maggio del 1498,
alla vigilia dell’Ascensione, i tre frati furono condotti in piazza
della Signoria, dove sarebbero stati impiccati e poi bruciati. Per
ordine di Alessandro vennero degradati, gli fu tolto ogni segno di
tonsura e gli venne raschiato il pollice e l’indice che avevano
toccato l’olio santo. Quindi un uomo del papa si fece avanti e
disse: «Piace alla santità di Alessandro VI liberarvi dalle pene
del purgatorio offrendovi la plenaria indulgenza dei vostri peccati e
restituendovi alla prima innocenza. Accettate questa grazia?»; e
loro, chinando il capo, dissero che accettavano.
Nella piazza era stato
costruito un grande palco, riempito sotto e tutto intorno di legna da
ardere, pece e polvere di bombarda. Mentre i condannati passavano, i
bambini da sotto infilavano bastoncini appuntiti tra le assi per
ferirgli i piedi, che erano nudi. Silvestro fu il primo a salire la
scala che portava alla forca; non parlava, ma aveva le lacrime agli
occhi. Gli fu messo il capestro e il collare di ferro con la catena
legata al patibolo, e il carnefice dette la spinta; poi fu il turno
di Domenico, e per ultimo di Girolamo. Il frate saliva e recitava il
Credo, e quando arrivò in cima voltò la faccia verso la gran
massa di fiorentini che fino a pochi mesi prima gli baciavano i piedi
e si accalcavano pei ascoltare le sue prediche. Qualcuno gridò:
«Savonarola, fallo adesso il miracolo!».
Subito dopo, erano le
dieci del mattino, fu dato fuoco alla pira. Inizialmente si levò del
vento che allontano le fiamme. Tra la folla si cominciò a gridare al
miracolo, e in moltissimi scapparono spaventati dalla piazza. Poi il
venni si calmò, il fuoco avvolse i corpi, tutti si tranquillizzarono
e la piazza tornò piena. I bambini si divertivano a lanciare lassi a
quel che restava dei cadaveri per tirarli giù e giocare un poco, ma
erano troppo in alto e le fiamme ancora fitte. Quando l’incendio
ebbe consumato tutto, le ceneri furono raccolte con cura e buttate in
Arno dal Ponte Vecchio, perché non rimanesse nessuna reliquia da
venerare.
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