L'articolo che segue,
dello scrittore Giancarlo Carofiglio mi pare cogliere ottimamente
alcuni nessi, quello tra povertà di linguaggio e violenza, per
esempio; ma non mi convince del tutto.
Mi pare che salti qualche
passaggio; non spiega, ad esempio, perché, soprattutto in campo
politico (forse non è lì il vertice del potere, è comunque un potere
importante), la povertà linguistica non impedisca a taluni di
raggiungere posizioni di primo piano. Con gente come Trump, Salvini o
Di Maio si ha addirittura l'impressione che l'ignoranza sia un
vantaggio. (S.L.L.)
Un numero enorme di
ragazzi non è capace di comprendere un comune testo in lingua
italiana. È un'incapacità che certo dipende dalle carenze del
sistema scolastico ma che affonda le sue radici in un terreno più
vasto. Quello della progressiva perdita di senso del dibattito
pubblico, dell'esibito disprezzo che taluni politici e talune forze
hanno per la responsabilità connessa con l'uso del linguaggio.
Sembra concretizzarsi nel
nostro Paese l'inquietante fenomeno che Humpty Dumpty illustra ad
Alice in un passo celebre di Attraverso lo specchio. "Quando io
uso una parola" disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante,
"questa significa esattamente quello che decido io... né più
né meno".
"Bisogna vedere"
disse Alice "se lei può dare tanti significati diversi alle
parole".
"Bisogna vedere"
disse Humpty Dumpty "chi è che comanda... è tutto qua".
Quando si ha a che fare
con le parole - dice l'interlocutore di Alice - una cosa sola
importa: chi comanda, chi è il padrone. L'impressionante
inettitudine messa in luce dai risultati dei test Invalsi è a un
tempo causa ed effetto di questo fenomeno: giovani incapaci di capire
il significato di discorsi elementari sono i destinatari ideali per
la propaganda dei demagoghi e dei populisti di ogni risma. E la
propaganda volgare, violenta, carica di disprezzo per i significati,
caratterizzata da una programmatica povertà del lessico è uno degli
acceleratori dell'ignoranza, dunque dell'inadeguatezza democratica.
In nessun altro sistema di governo le parole sono importanti come in
democrazia: la democrazia è discussione, è ragionamento comune, si
fonda sulla circolazione delle opinioni e delle convinzioni.
La ricerca scientifica ha
dimostrato un'inquietante rapporto fra povertà del linguaggio e
assenza di possibilità: i ragazzi più violenti possiedono strumenti
linguistici scarsi e inefficaci, sul piano del lessico, della
grammatica e della sintassi. Non sono capaci di gestire una
conversazione, non riescono a modulare lo stile della comunicazione -
il tono, il lessico, l'andamento - in base agli interlocutori e al
contesto, non fanno uso dell'ironia e della metafora, non sanno
nominare le proprie emozioni. Spesso, non sanno raccontare storie.
Mancano della necessaria coerenza logica, non hanno abilità
narrativa: una carenza che può produrre conseguenze tragiche nel
rapporto con l'autorità, quando è indispensabile raccontare,
descrivere, dare conto delle ragioni, della successione, della
dinamica di un evento.
Quando, per ragioni
sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti
linguistici; quando mancano le parole che dicono la paura, la
fragilità, la differenza, la tristezza; quando manca la capacità di
nominare le cose e le emozioni, allora manca un meccanismo
fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi.
La violenza incontrollata
è uno degli esiti possibili, se non probabili, di questa carenza. I
ragazzi sprovvisti delle parole per dire i loro sentimenti di
tristezza, di rabbia, di frustrazione hanno un solo modo per
liberarli e liberarsi di sofferenze a volte insopportabili: la
violenza fisica. Chi non ha i nomi per la sofferenza la agisce, la
esprime volgendola in violenza, con conseguenze spesso tragiche.
Nelle scienze cognitive
questo fenomeno - la mancanza di parole, e dunque di idee e modelli
di interpretazione della realtà, esteriore e interiore - è chiamato
ipocognizione. Si tratta di un concetto elaborato a seguito degli
studi condotti negli anni Cinquanta dall'antropologo Bob Levy. Nel
tentativo di individuare la ragione dell'altissimo numero di suicidi
registrati a Tahiti, Levy scoprì che i tahitiani avevano le parole
per indicare il dolore fisico ma non quello psichico. Non possedevano
il concetto di dolore spirituale, e pertanto quando lo provavano non
erano in grado di identificarlo. La conseguenza di questa incapacità,
nei casi di sofferenze intense e (per loro) incomprensibili, era
spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio.
L'abbondanza, la ricchezza delle parole, il loro essere munite di
significati è dunque una condizione del dominio sul reale: e
diventa, inevitabilmente, strumento del potere politico.
Per il filosofo John
Searle le società vengono costruite e si reggono, essenzialmente, su
una premessa linguistica: sul fatto, cioè, che formulare
un'affermazione comporti un impegno di verità e di correttezza nei
confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in
pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la
fiducia in un linguaggio condiviso.
Le società nelle quali
prevalgono le asserzioni vuote di significato, nelle quali i politici
(e soprattutto i politici al governo) non hanno alcuna percezione dei
doveri connessi all'uso del linguaggio, sono in cattiva salute: in
esse, alla perdita di senso dei discorsi, consegue una pericolosa
caduta di legittimazione delle istituzioni e in definitiva un grave
pericolo per la democrazia.
L'analfabetismo
funzionale di tanti ragazzi è un effetto di molte cause e rischia a
sua volta di diventare la pericolosa premessa di uno svuotamento
della democrazia. Occuparsi del linguaggio pubblico e della sua
qualità non è dunque un lusso da intellettuali, una questione da
accademici, un problema di chi si occupa delle politiche e delle
pratiche dell'educazione. È un dovere cruciale della politica e
dell'etica civile.
“la Repubblica”, 12
luglio 2019
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